Ecosistema piante. Comportamenti intesi al vegetale

Seppure con grande difficoltà, da alcuni decenni si va ormai delineando una sorta di declinazione vegetale per tutta una serie di temi di studio e ambiti di ricerca, sovente ridotti invece in formulazioni esemplate su un sistema di valori e una visione del vivente prevalentemente occidentale, zoomorfa, antropocentrica. E che costringe e semplifica ogni tentativo di lettura dell’alterità delle piante.
Così, talvolta con accenti maldestri, capita di leggere di fitolingua o fitomemoria, consapevolezza biologica, intelligenza vegetale.
A partire dal volger del secolo scorso e con recenti, grandi accelerazioni, la ricerca e l’attenzione per questi ambiti del mondo vegetale si è andata infatti dispiegando in molte, diverse direzioni. Magari con passi falsi – come per gli esiti della pubblicazione di un testo, diventato purtroppo best seller nel 1973 su La vita segreta delle piante che assortiva scienza e leggende new age – o nell’orbita incombente del paradigma genetico.

Henri Rousseau, Giungla equatoriale, 1909, National Gallery of Art, Washington DC

Con l’affermarsi e il diffondersi di tecnologie e strumentazioni sempre più sofisticate, nonché di una più ampia considerazione del vivente alla luce dell’incrocio tra scienze naturali, umane e sociali, è andato così emergendo un panorama dell’universo vegetale ricco di nuove acquisizioni, fino al dilatarsi talvolta controverso di fisionomie e frontiere stesse del soggetto di indagine e con un focus particolare sul comportamento delle piante.
Una frontiera in movimento che la giornalista ambientale Zoë Schlanger si incarica ora di ripercorrere in prima persona nel suo Le mangiatrici di luce. Il mondo invisibile dell’intelligenza delle piante, Einaudi, pp. 313, € 19, dove, in diversi incontri sul campo, tra questioni poste in sequenze serrate, resoconti di esperimenti e interviste in laboratorio e in foresta, dà conto per un ampio pubblico di come in questi ultimi decenni botanici e biochimici, studiosi delle relazioni ecologiche, fisiologi vegetali, ma anche filosofi ed ecologi del comportamento, e perfino antropologi che si occupano della cultura dei ricercatori impegnati negli studi del comportamento vegetale, siano andati interrogandosi e discutendo, sub specie vegetale, di consapevolezza e conoscenza dell’altro da sé da parte delle piante, competenze linguistiche (per via di un articolato lessico di composti volatili) e forme di comunicazione (chimica, forse elettrica) anche inter specifiche, individualità, riconoscimento parentale, interiorità e memorizzazione, delle loro capacità di raccogliere e coordinare informazioni e derivarne risposte conseguenti, preferenziali; di come facciano ricorso a strategie quali mimetismo e mutualismo, fluidità sessuale, della flessibilità e pluralità delle loro relazioni.
Dagli esempi puntuali di una relazione particolarmente stretta con i suoni di una pianta della foresta pluviale sud est di Cuba che tramite un apposito petalo riflette ultrasuoni per indirizzare i pipistrelli verso il polline (salvo poi modificare l’angolazione dopo che il fiore lo ha scaricato); al caso della Nasa poissoniana, nelle Ande peruviane, capace di memorizzare gli intervalli di tempo tra le visite degli impollinatori e prevedere quando starà nuovamente per riceverne, così da operare scelte oculate; alle ragioni di comportamenti consociativi come quelli dei fiori di astro e verga d’oro, rispettivamente, porpora e giallo, che, crescendo vicini, amplificano, per ciascuno, le attenzioni ricevute dalle api, facendo della bellezza una forma di comunicazione; e, più in generale, ai mille modi di percepire mutamenti lievissimi dell’ambiente e ricavarne informazioni per agire differentemente a seconda dei contesti, tutto è un dialogo continuo di dinamiche anche interspecifiche del tutto impercettibili per noi che suggerisce forse un cambio di prospettiva capace di assumere in una prospettiva d’insieme le piante come organismi multidimensionali, in costante movimento, con i loro tempi e la loro mobilità limitata, ma capaci di diffondersi colonizzando tutti i continenti, sistemi adattativi complessi in continua interazione biologica con l’ambiente.
Dove una serie di riflessioni a cavallo tra la capacità delle piante di valutare le condizioni in cui si trovano e di cambiare per adattarvisi – la loro agentività e la plasticità estrema di quelle invasive –, le fluidità delle loro strategie riproduttive, il facile travalicare i confini interspecie, la socialità complessa che è della capacità delle radici di comportarsi come uno sciame, inducono nello sfumare dei confini ad adottare una molteplicità di punti di vista che consideri ogni organismo come un ecosistema in relazione al resto, avviandoci ad accogliere le piante nella nostra immaginazione etica, con il rilievo del diritto che, allargando la sua sfera a gruppi di nuovi soggetti, finisca per dotare anche loro di personalità, fin giuridica.

Zoë Schlanger, Le mangiatrici di luce. Il mondo invisibile dell’intelligenza delle piante, Einaudi, pp. 313, € 19, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 52 Supplemento de Il Manifesto del 19 gennaio 2025

La progettualità dell’incolto

Nel convergere di letture critiche intese a destrutturare la dicotomia che nel pensiero egemonico occidentale nettamente separa cultura e natura, colto e incolto, gli strumenti e le analisi dell’antropologia culturale giocano un ruolo rilevante proprio a partire da quest’ultima nozione grimaldello
Ben presente come dimensione di tramite e momento dialettico nelle società del Pacifico o dell’oltremare europeo, dove diverse l’hanno sacralizzato proteggendolo con norme e divieti, l’incolto come ci ricorda Adriano Favole, antropologo specialista dell’Oceania insulare, non funziona per opposizione: è spazio complementare, ad alta densità di vita e con un proprio potere generativo. Luogo di rifugio e riserva di cibo e risorse che “nei dintorni di quella organizzazione che chiamiamo cultura” si organizza diversamente e continuamente rinasce in un perdurante intreccio di destini, dove uomini, entità non umane, specie e fenomeni naturali appartengono a un medesimo ordine. Una natura di cui l’umano è parte (La vita selvatica. Storie di umani e non umani, Laterza, pp. 148, € 16).
La nozione di incolto – o selvatico, pur sempre ricavata per opposizione – torna perciò utile per ripensare il modello occidentale che a lungo ha visto l’essere umano imporsi su una natura pensata come altra da sé, governata da leggi meccanicistiche da piegare a proprio vantaggio e dove l’imposizione di sovranità sull’incolto, compresi i suoi abitanti non umani, è parte del processo di colonizzazione.

Ernesto Treccani, Siepe blu, anni 90

L’antropologia aiuta a tener nel conto anche quei casi in cui una relazione con l’ambiente fatta di interdipendenza e vulnerabilità, più che non di predazione e dominio, possa essere scelta e non subita. Dal doppio registro delle società eschimesi diversamente in relazione con l’incolto del clima, in estate e in inverno, al convivere nelle “società” complesse abitate da umani vegetali domestici piante spontanee, animali selvatici che sono i giardini di Futuna, in Polinesia occidentale, al concetto di incolto esteso anche ai mari laddove i diritti fondiari dilagano oltre la linea di costa, fino alla piattaforma corallina o fin dove il fondale sia ancora percepibile, agli svariati modi di abitare con l’incolto anche in città da parte dei kanak a Nouméa capoluogo della Nuova Caledonia.
Ma, così come per tante società non antropocentriche dove l’agricoltura risulta frutto della convivenza tra umani e non umani (magari da regolare tramite forme di magia agricola), così si suggerisce siano da rivedere tempi e forme del mito archeologico che associa la fondazione della società a una rivoluzione agricola che si diffuse invece soltanto con grande lentezza nel neolitico, convivendo per millenni con altre modalità di sostegno alimentare. Argomenta Favole: fu piuttosto “il passaggio da forme di convivenza con l’incolto – con o senza agricoltura – a cosmologie e forme di produzione che assolutizzarono il ruolo dell’essere umano nell’universo a creare le condizioni per uno sfruttamento senza fine dell’incolto …La creazione di un muro tra Natura e Cultura fa parte di questo processo” 51.
Se la funzione mediatrice dei boschi comunitari o il ricorso alla fecondità delle forze dell’ incolto con l’inclusione del maggese (anche da parte dei pescatori, nel mare) non è certo estranea nel passato delle società contadine occidentali, Nelle nostre società l’incolto è oggi piuttosto un residuo. Margine discontinuo, imprevisto, mal tollerato. Salvo accorgersi quanto i suoi paesaggi conservino anche qui tracce di ricchezza biologica – tra luoghi liminari e di scarto, siepi, bordure – creando vie dell’incolto, zone rifugio, beni comuni. Margini anche di diversità culturale e sociale.
Dipendenti (come siamo) in tutto dalla vita vegetale; e avvinti con i non umani in relazioni tanto pervasive quanto inavvertite, perlopiù in dimensione macro, dai sempre nuovi paesaggi determinati dal variare di temperature, confini di foreste e oceani o dall’attività di vulcani, al micro del nostro biota; sempre condizionati nel nostro rapporto con i luoghi, sotto il segno del paradigma estrattivista – dalla serie di ricadute a catena determinate attorno a competizioni come il commercio della noce moscata nel 600, all’uso massiccio di quell’incolto fossile formato da idrocarburi e gas che nel suo distribuirsi naturale vien modellando la geopolitica contemporanea – siamo pur sempre, tutt’ora, una società di raccolta.
Sulla scorta dell’incrocio di attenzioni come quella che Darwin dedicava al ruolo fondamentale dell’azione dei vermi sulla vita del suolo (e a cui dedica il suo ultimo libro prima della morte nel 1881) o riservata ai giardini di corallo di cui Malinowski evidenzia la funzione di innesco di costruzioni di biodiversità e culture, l’indicazione è a riconoscere nell’incolto un assemblaggio di progettualità altre. Implicando, con l’importanza del lato selvatico della cultura, un nuovo mondo di partecipazioni, somiglianze, relazioni.

Adriano Favole, La vita selvatica. Storie di umani e non umani, Laterza, pp. 148, € 16, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 50 Supplemento de Il Manifesto del 5 gennaio 2025

Jérôme Sueur, le sonorità della natura

Onnipresente e costitutivo di ecologie e paesaggi, il suono si confonde con l’ambiente senza cui non esisterebbe. Aria, acqua, piante, pietra… son loro che in realtà lo propagano. Trascorrendo nella dimensione di una temporalità evanescente, nasce da un movimento, da una deformazione dell’ambiente, con ciò rivelandone il cambiamento di stato.
A contraltare di un’attenzione al paesaggio sonoro, soundscape nella definizione anni 60 di Raymond Murray Schafer – l’insieme dei suoni che possono esser sentiti in un luogo e in un momento precisi –, dove, da musicista, la percezione e la lettura del mondo son preminentemente consegnati all’ascolto umano, e di un approccio alla storia del sensibile alla Alain Corbin dove componenti fondamentali come suono e silenzio in dialettica vengono presi in conto e interpretati nel loro contesto culturalmente determinato, Jérôme Sueur si concentra sulla dimensione sonora della natura. Interrogando le sue molteplici forme e interrelazioni, da naturalista ad ampio spettro e direttore del laboratorio di ecoacustica al Museo nazionale di storia naturale di Parigi (Storia naturale del silenzio, Nottetempo, pp. 247, € 18,90).
Dall’ascolto sensibile e analitico di una natura dove ogni specie e ogni individuo percepisce l’ambiente in funzione delle proprie capacità sensoriali, modalità di ricezione e emissione sonora, risulta una sorprendente varietà acustica, di segnali incidentali e intenzionali, di modulazioni, tempi, ritmi, sfumature, timbri.
Tante quante sono le funzioni comportamentali, sociali, ecologiche di suoni emessi, percepiti e interpretati, così molteplici sono i tipi di silenzio: di gruppo, di disciplina, amoroso, di battaglia e, specialmente, di sopravvivenza: motore di un’intera ecologia.

Felix Valloton, Il vento, 1910, National Gallery of Art, Washington DC

Tra i molteplici criteri per tentare di ordinare questo vasto assortimento acustico – proprietà fisiche, origine, mezzo di propagazione, funzioni –, congeniale è la classificazione di Bernie Krause che articola la sonosfera dei paesaggi naturali in tre grandi insiemi sulla base della natura delle loro fonti.
Di base, la componente della geofonia, l’insieme cioè dei suoni abiotici ma naturali, dallo scorrere delle acque di un ruscello alla risacca del mare, al fischio del vento rivelato dall’ostacolo di alberi e rocce, al sobbollire delle effusioni magmatiche, allo sfregare dei ghiacci in scivolata, che ha a lungo dominato – quasi 4 miliardi di anni – su una terra peraltro mai silenziosa; poi, in relazione a fasi alternate di aumenti e crisi della biodiversità sotto e sopra l’acqua, l’affermarsi della biofonia che riunisce tutti quelli di origine vegetale (gli schiocchi di chicchi di granoturco) e animale. Volta a volta colti come indicatori di sorveglianza e sopravvivenza o emessi come intenzionali, anche in forma di comunicazione intraspecifica – dalle stridulazioni degli insetti ai canti armonici delle balene –; con le mille forme della loro proiezione nell’ambiente, veicolate da specifiche anatomiche come dall’uso di oggetti esterni: “grilli che utilizzano foglie come diffusori, grillotalpe che scavano gallerie come cornetti acustici, rane che si siedono dentro tronchi vuoti e risonanti, pesci che brontolano all’interno di ostriche perlifere la cui conchiglia funge da amplificatore”.
Fino alla comparsa, durante il Quaternario dell’antropofonia degli esseri umani del genere Homo: con i loro spostamenti, voci, musiche utensili, tecniche, macchine. E con la prepotente invadenza di suoni – e il loro farsi rumore, semplificando suoni che disturbano segnali e informazioni – a distorcere il silenzio naturale (di biofonia e geofonia).

John Constable, Helmingham. The Silent Pool, c. 1800, Yale Center for British Art


Nel moltiplicarsi dei silenzi del vuoto, misura della recente, drastica riduzione delle biodiversità, la pervasiva, finanche negli ambienti acquatici, impronta sonora dell’uomo comporta enormi costi sociali e ha effetti deleteri per la complessiva salute ecologica che vanno ben oltre l’evidente – obbliga ad esempio gli uccelli, per esser sentiti, a cantare più forte o più a lungo.

Nel lungo termine, l’inquinamento acustico antropofonico altera le interazioni tra le specie e incide su funzioni ecologiche come l’impollinazione e lo sviluppo dei semi,
E poco ci rassicura il silenzio nuovo del sopraggiungere inaspettato nelle nostre strade dei taciturni motori delle automobili elettriche.

Jérôme Sueur, Storia naturale del silenzio, Nottetempo, pp. 247, € 18,90, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 48 Supplemento de Il Manifesto del 22 dicembre 2024

Nikolaï Doubovskoï, Silence, 1890, Musée réserve de Vladimir-Souzdal

L’erbario compagno di Rosa Luxemburg

Neanche la serie dei lunghi, ripetuti periodi trascorsi in carcere riuscì a interrompere l’attività di raccolta e catalogazione botanica di Rosa Luxemburg testimoniata nel suo erbario. Che va letta nel quadro di una sua forte inclinazione per le multiformi manifestazioni della vita naturale, dall’osservazione degli uccelli alla prediletta botanica (ora in una bella edizione, Elliot, pp. 415, € 50). Una passione sottotraccia che sempre accompagna la sua vocazione principale di militante e teorica della politica. E proprio Scienze naturali deciderà di studiare in un primo tempo, quando, giovane attivista, fuggirà a Zurigo nel 1890, per passare poi due anni dopo a Giurisprudenza e Economia.
Per molti anni, a più riprese, compilerà di piante essiccate e pressate una serie di 17 quaderni di scuola: dalla primavera del 1913 all’autunno del 1918, poco prima del suo assassino nel gennaio dell’anno successivo per mano di un gruppo militare controrivoluzionario dopo l’insurrezione spartachista che con Karl Liebknecht avevano guidato contro il governo socialdemocratico di Weimar.
Quasi 400 piante, perlopiù ordinarie, montate su fogli di carta con indicazione di luogo e data di raccolta, talvolta del periodo di fioriture e fragranze, spesso accompagnate da brevi descrizioni e schizzi accurati a integrare parti mancanti.

Ptelea trifoliata raccolta da Rosa Luxemburg nel 1918 a Berlino

Piante incrociate in vari contesti, da quelle di campo della periferia di Berlino che danno avvio all’erbario, alle viole del pensiero del suo balcone, dai fiori comprati a quelli che le vengono spediti o regalati dagli amici che vanno a visitarla in carcere a quelle da lei raccolte in quei cortili smorti, alla foglia che si affaccia alla finestra della sua cella.
Nell’aprile del 1915 dalla prigione di Berlino scrive al suo compagno di allora, Kostantin Zetkin: “sto facendo di nuovo botanica qui! Ho con me i miei album … e a volte ricevo qualche fiore in una lettera della signorina Jacob [una primula, indicata con il nome popolare]. Ho iniziato un nuovo album per i fiori secchi (l’undicesimo! e come primo fiorellino ho inserito il bucaneve”.
Due anni dopo, dalla prigione di Wronki vicino a Poznań, dove le era permesso muoversi e persino curare un piccolo giardino, rivolgendosi alla moglie di Kautsky, Luise, confida: “ogni mattina ispeziono accuratamente lo stato dei boccioli di tutti i miei cespugli, e ogni giorno visito una coccinella rossa con due macchie nere sul dorso”. E, ancora, trasferita a Breslavia, in una prigione con minor libertà di movimento, nella primavera del 1917 scrive sconsolata: “non c’è alcuna possibilità di ‘scoprire’ nulla qui nel grande cortile lastricato”. Ma pochi giorni dopo parla di due strette strisce di erba malata e calpestata dove “in condizioni precarie; alcune piante di achillea di dimensioni nane stanno fiorendo e una dozzina di piante di biancospino stanno sollevando le loro teste gialle e soleggiate (sicuramente le conoscete anche senza saperne il nome botanico); assomigliano al dente di leone, solo molto più piccoli).
Da Breslavia, l’ultima annotazione dell’erbario è del 15 ottobre 1918, a presentare un verbasco bianco raccolto nel cortile della prigione. Poi ancora le foglie di tre piante, che non saranno però mai etichettate.
Assieme ai corrispondenti delle lettere – sempre ricche di dettagliate descrizioni su nuvole, insetti o temporali, canti di uccelli o fruscii di rami – l’erbario è certamente stato un fedele compagno del tempo carcerario scandito dai cicli di crescita delle piante. Rosa scrive da Wronki nel 1917: “Un’intera generazione di fiori sotto il mio sguardo vigile si è aperta alla vita, poi è appassita ed è morta”. Mentre in un post scriptum puntualizza: “Ieri è passato un anno da quando ho iniziato a sedere qui, e il 10 sono passati due anni da quando sono stata arrestata per la seconda volta. Ho messo una pianta di fagioli in un vaso per me; è diventato un grande cespuglio con grandi fagioli”.

Orchideacea, regalo della segretaria Mathilde, 12-7-1918

Ma la sua ininterrotta relazione con la natura, così come con la politica, si rivela forma di un prender parte a qualcosa cui si è interni. Non un rifugio o uno sfondo ma una pratica, occasione di cimento dove impegnarsi nel mondo contermine, adoperarsi, interagire. Se si preoccupa della scomparsa in Germania degli uccelli a causa della riduzione dei loro habitat ad opera dell’uomo – e associa questa estinzione alla cacciata dei pellirosse dai loro territori da parte degli uomini civilizzati– nel suo giardinaggio dedica un bel po’ di tempo ad annaffiare e spruzzare “tutte queste ‘piccole persone’ ogni mattina” (sue le virgolette). E prosegue riferendo di aver “convinto una fucsia” – così dice – a fiorire una seconda volta in ottobre “evitando la pratica di noi umani sconsiderati che tagliano sempre i fiori sbiaditi”.
Non occorre arrivare ad anticipare a tutti i costi un’attenzione per la fratellanza con il non umano, o una più o meno chiara consapevolezza ecologica di una mercificazione della natura, via estrattivismo coloniale delle pratiche imperialiste, per sottolineare la coesistenza in Rosa Luxemburg della multidimensionalità dei suoi modi di interrogarsi e impegnarsi per cogliere e operare con la complessità del mondo e le molteplici forme che – anche in gestazione: i boccioli che così spesso ritornano – la vita assume: capace com’è di leggere con l’arrivo della primavera, “anche se con molta esitazione. Nel mio piccolo giardino qui non si vede ancora il verde. Ma dopo la comparsa di boccioli ho già tutti i cespugli e mi aspetto una magnifica fioritura. Tra questi ci sono: due giovani platani, un grande pioppo argentato, una “acacia” (o così la chiama la gente, in realtà è Robinia), due piccoli castagni, due ciliegi ornamentali (come quelli che avete all’ingresso del vostro giardino, con il fogliame rosso sangue), diversi cespugli di ribes ornamentale (il ribes a fiore giallo), diverse bacche di neve [symphoricarpos], un cornus rosso, che ha fiori bianchi e bacche blu, alcuni cespugli di ligustro, due cespugli di nocciolo, e inoltre molti lillà! Questi cespugli fioriranno l’uno dopo l’altro in modo meraviglioso, e io lo aspetto senza impazienza, perché già solo i boccioli mi danno una grande gioia”.
Anche nelle sue lettere i richiami a queste molteplici forme che la vita assume figurano sempre intrecciate da presso alle riflessioni sugli accadimenti contemporanei, all’analisi delle radici storiche, sociali, economiche, alla proposta politica. Tanto che, sempre dal carcere, confessa a Sonia Liebknecht: “Suppongo di essere fuori luogo per sentire tutto così profondamente. A volte, però, mi sembra di non essere affatto un essere umano, ma un uccello o una bestia in forma umana. Mi sento molto più a casa anche in uno scampolo di giardino come questo, e ancora di più nei prati quando l’erba ronza di api che in uno dei nostri congressi di partito – e chiosa con qual certa autoironia – posso dirlo a voi, perché non mi sospetterete subito di tradimento al socialismo! Sapete che spero davvero di morire al mio posto, in una battaglia di strada o in prigione”.

Rosa Luxemburg, Herbarium, Elliot, pp. 415, € 50, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 48 Supplemento de Il Manifesto dell’8 dicembre 2024

Antirrhinum majus, 1918

Paesaggio rurale italiano, il diletto della produttività

Se certo tutti i casi esaminati nel volume Bellezza e produttività nel giardino e nel paesaggio rurale italiano variamente rispondono all’assunto di un’idea dominante che vuole la villa periurbana perno di un sistema di paesaggio che sulla lunga durata – dal secondo 400 e rifacendosi alla ripresa umanistica di modelli classici, con vari sviluppi fino al 900 – correla giardino e unità produttive agricole, è piuttosto nell’articolazione di variabili ed eccezioni raccontate nei contributi a conferma da ricercatori e specialisti che si misura la fecondità della proposta.
Esito del lavoro di ricerca del Gruppo Giardino Storico dell’Università di Padova, oggi coordinato da Antonella Pietrogrande, con il contributo dell’Orto Botanico e dell’Associazione parchi e giardini d’Italia, si indaga qui il binomio del titolo a partire dalla considerazione del sistema di villa – nella sua articolazione di edificio padronale, servizi, giardino, campi e poderi – anche come centro di conduzione agraria e controllo del territorio (Olschki, pp. 298, €35).
Epicentro espressivo e tipo architettonico dunque, ma anche entità pensata e vissuta non soltanto per il ‘diletto’. Al centro di un tessuto di relazioni immateriali e materiali, visive e funzionali, di rappresentanza e produttive.
Così, si evidenzia come costante nella storia delle residenze romane anche in area urbana o periurbana la compresenza di spazi di delizia e attività agricole, con vigneti frutteti e orti a fianco dei giardini formali (Campitelli). Certo, con prevalenza di questi ultimi fino ai nuovi assetti ottocenteschi, quando saranno ridotti a vantaggio di colture produttive, o con la Seconda guerra mondiale infiltrati da “orti di guerra” come nel caso di Villa Borghese.

Giandomenico Tiepolo, Contadini a riposo (part.), Villa Valmarana ai Nani, Vicenza


Mentre il ruolo non certo accessorio di organizzazione produttiva e governo del territorio del sistema delle ville che traduce la predilezione delle aristocrazie veneziane per i possedimenti di terraferma si palesa con il loro collocarsi in posizione strategica sulle sponde di fiumi e canali in forte integrazione con la trama del reticolo idraulico. A costituire paesaggi anfibi dove elementi come peschiere e vasche, e successivamente laghetti dalle forme irregolari, si integreranno con il disegno del giardino (Rallo).
In Salento, poi, il diffondersi di ville e casini di campagna, fino a fissare con il secondo 700 nuove tipologie insediative, va di pari passo con la riorganizzazione di pratiche agricole e la diffusione di nuove colture, nuovi rapporti tra contadini e proprietari, nuovi modi di abitare da parte dei possidenti che nei casini e nelle masserie rese ville trasferiscono moduli dell’architettura cittadina e nei loro giardini (spesso produttivi, di agrumi o di api) elementi come edicole, pergolati, sedili. Ma anche pozzi e cisterne da cui si diramano canali di irrigazione per le coltivazioni (Cazzato).
Anche in area lombarda, e maggiormente a seguito delle riforme introdotte dal governo austriaco all’inizio del secolo XIX, il sistema villa-giardino-paesaggio agrario assume una propria specificità come centro di gestione del territorio, come per il caso esemplare della Villa Reale di Monza, a un tempo azienda agricola e tenuta di cacia, con giardini e un parco in relazione stretta con il paesaggio agrario e boschivo della Brianza (Pelissetti, Lavisco).
La presa d’atto delle forti intersezioni tra progettazione e costruzione dei giardini, dimensione estetica e funzione agricola o di presidio del territorio – sintetizzata nel sistema di villa – si inquadra nella sempre maggiore attenzione alla tutela del paesaggio come patrimonio. Con l’introduzione della categoria di ‘paesaggio culturale’ anche in sede UNESCO e il lavoro dell’ l’ICOMOS (International Council of Monuments and Sites) per promuovere conoscenza, conservazione e gestione del paesaggio rurale.
Ma è nel suo evolversi in contesti diversi quanto a fisionomie produttive e ruoli espressivi e simbolici che il sistema di villa assunto come categoria risulta utile per la comprensione e la classificazione del paesaggio rurale: sempre facendo perno sull’elemento privilegiato giardino-villa. Nella consapevolezza di quanto ogni chiave di lettura estensiva o attenzione predominante rischi di escludere soggetti e tipologie che ad essa sfuggano, nella varietà, tra altro, di forme di insediamento, spazi urbani aperti, pratiche consuetudinarie, immaginari e valori comunitari.

Bellezza e produttività nel giardino e nel paesaggio rurale italiano, a cura di Antonella Pietrogrande, Olschki, pp. 298, €35, Gruppo Giardino Storico dell’Università di Padova con il contributo dell’Orto Botanico e dell’Associazione parchi e giardini d’Italia , recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 46 Supplemento de Il Manifesto del 24 novembre 2024

Cesare Vecelio, Primavera, Palazzo Piloni, Belluno

Il giardino, fuori di sé

Tra le molte rivoluzioni del gusto che scandiscono la storia del giardino, ve n’è una che si ritroverà poi sottotraccia variamente declinata tra molteplici ritorni e divagazioni fin nell’incrocio di implicazioni etiche e estetiche, politiche e ecologiche di quello dell’oggi.
È la vicenda del giardino naturale teorizzato e praticato a fine 800 dall’irlandese William Robinson in opposizione al nuovo formalismo di quello vittoriano sostenuto da Reginald Blomfield (Il giardino formale in Inghilterra, 1892) e che muove e si afferma sullo sfondo di una critica morale antiurbana, di un nostalgico ritorno alla terra – e alla natura – anche sull’onda delle idee di intellettuali come John Ruskin e William Morris, del movimento Arts and Crafts e dei preraffaelliti. Risponde anche a mutate condizioni economico sociali: con il costo sempre maggior di vetro e riscaldamento per le serre, e della manodopera nella conduzione delle grandi tenute dei giardini, per le quali è venuta meno la base di riferimento, mentre si affaccia un nuovo pubblico le cui finanze consentono piuttosto la coltivazione di piante rustiche e semi-rustiche, che non la sostituzione di specie delicate prevista a ogni stagione di un giardino ad aiuole.

Alfred Parson, Trillium grandiflorum

Siamo nel 1870. E nel suo Il giardino naturale Morris riscopre, individua e indaga protagonisti e spazi del giardino in una combinazione per molti tratti inedita. Un libro infinite volte ristampato, anche, poi, con le meticolose illustrazioni realizzate di concerto con Robinson da Alfred Parson. Ora nuovamente per Elliot, e peccato senza che se ne circostanzi retroterra e attualità, com’è ormai purtroppo uso corrente per troppi recuperi editoriali che si presentano sprovvisti di ogni viatico (pp. 82, € 20)
Letteralmente, qui si tratta di Boschetti e arbusteti resi belli dalla naturalizzazione di piante esotiche resistenti, come recita il sottotitolo dell’edizione originale, poi, per maggior chiarezza integrato in un’edizione di poco successiva (ben sette son quelle che l’autore vide e su cui rimise mano), proprio sottolineando il loro naturale associarsi.
Il giardino naturale di Morris si caratterizza proprio per il propugnato diffondersi, combinarsi e naturalizzarsi di piante rustiche – sia quelle esotiche che le autoctone, e qui, anche i fiori britannici rari o da recuperare, ma di climi e habitat compatibili – da collocarsi in luoghi diversi dal giardino “tutto previsto e regolato”, in condizioni che ne favoriscano l’adattamento per la crescita.

Alfred Parsons, Narciso dei poeti e sassifraga


Un naturale da non confondersi però con il selvatico, né con il pittoresco. Che vede invece l’apertura all’uso come giardino di luoghi altri. In un ampliarsi di possibilità, protagonisti, combinazioni.
Tra i vari tipi di giardino naturale vengono esplorati boschetti e sentieri, fossati e stradine ombrose, muri e rovine, rive di paludi, corsi e specchi d’acqua, frutteti perfino.
Dove rose selvatiche, caprifoglio, clematis siano liberi di impossessarsi di siepi noiosamente tosate e di drappeggiare alberi morti, dove tra l’erba si recuperano arbusti, erbacee perenni, bulbose, dove viti selvatiche si diramano sugli alberi come per il tronco del salice piangente avvolto dalla vite canadese e per il luppolo che inghirlanda le foglie verde scuro di un tasso.

Alfred Parson, Achillee bianche all’ombra di alberi e arbusti


Dove sarà meglio perciò evitare di rasare così frequentemente l’erba e vangare le aiuole degli arbusti disturbandone le radici.
Dove, soprattutto, liberandosi da “inutili e sgradevoli stravaganze geometriche”, moltiplicare le possibili combinazioni dei “nostri” fiori selvatici più belli con specie simili di altri paesi (e l’esempio è della la Scilla campanulata assieme a quella nutans), profittando dell’enorme varietà di piante che possano naturalizzarsi e ,crescendo in autonomia anno dopo, diffondersi, divenendo permanenti.
Riunirle e associarle seguendo ciò che la natura fa. Osservando singolarità e processi, rispettando e ispirandosi alle loro abitudini di crescita, studiando aggregazioni spontanee di fiori selvatici, il loro coesistere per colonie e raggruppamenti. Accogliendo e integrando il cambiamento continuo.
In ambienti, pur regolati, votati alla creazione di comunità vegetali viventi in un contesto progettuale in divenire.
Ispiratore di un gusto che privilegia l’uso della diversità della flora spontanea cosmopolita, Robinson propende insomma per un dialogo più stretto con il contesto e il paesaggio che riaddomestica natura con botanica e orticoltura in una successione graduata di nuove occasioni per il giardino. Per tanti versi così attuale.

Alfred Parsons, Colonia di narcisi tra gli arbusti

William Robinson, Il giardino naturale, illustrazioni di Alfred Parson, pp. 82, € 20, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 44 Supplemento de Il Manifesto del 10 novembre 2024

Alfred William Parsons, Garden in Bloom, coll. priv.
Sigillo di Salomone e Paris quadrifolia in un boschetto vicino a un ruscello

Il sempre mutevole mondo degli agrumi

Mandarino, pomelo e cedro. Sulla base dell’analisi del genoma, sembrerebbe che oggi siano state finalmente individuate le tre specie ancestrali che avrebbero dato origine a tutti gli altri agrumi. Ma è proprio la multiforme biodiversità degli appartenenti a questo consorzio – da sempre implicati in un continuo rimescolamento di ibridi, mutazioni, varietà e manipolazioni indotte –, a costituire la costante che finisce per conformare la loro ingarbugliata, cangiante vicenda ecologica e culturale.

Protagonisti di sistemi agricoli e paesaggi percepiti gli agrumi pervadono le nostre vite nei più diversi contesti. Dalle campagne produttive alle dinamiche dei mercati, agli usi alimentari, alla valenza estetica del corredo di sensazioni, sapori e profumi in cui si incappa per via di giardini e limonaie, per ritrovarli poi evocati in sensazioni e memorie, proiettati in romanzi e poesie, riflessi in dipinti, essenze profumiere, partiture musicali.

Il carattere della rifiorenza dei limoni, e della contemporanea presenza sulla pianta di fiori e frutti, è uno dei temi ricorrenti già con Teofrasto e poi nella letteratura, da Boccaccio, Ariosto, al Tasso del giardino di Armida. Come pure la particolarità della forma perfetta dell’arancia, del suo sapore come un fuoco d’artificio, nei versi di Apollinaire (Les collines, in Calligrammi, 1918), del suo colore (Gadda la vuole “imbibita di tramonti”), così come del suo profumo: quello che avvolge e stimola alla scrittura Rousseau (“circondato dall’odore di fiori di zagara scrivevo in un ininterrotto incanto”), o il condensato di fioriture delle campagne del Gattopardo racchiuso nelle tre gocce di bergamotto versate sul fazzoletto del principe Fabrizio.

Ma se è l’asprezza il tratto comune e ragione etimologica del termine ombrello per cedri, aranci, limoni che in italiano appare nell’Economia del cittadino in villa del bolognese Vincenzo Tanara del 1644 – agrumi – al centro del volume che oggi ci introduce al loro mondo per la penna di Giuseppe Barbera – dal perspicace sottotitolo braudeliano Una storia del mondo –, è posta lo specifico di una loro mediterraneità (Il Saggiatore, pp. 318, € 25,00).

Per mille ragioni più ampie, ma anche perché, come ci si spiega: “il clima mediterraneo subtropicale porta a maturazione, per l’equilibrio tra zuccheri e acidi, frutti di qualità irraggiungibile da quelli tropicali, dolciastri e senza contrasto organolettico”.

Claude Monet, Limoni a Bordighiera, 1884, Ny Carlsberg Gypsotek Copenaghen

Con uno sguardo ben ampio, dove botanica e agronomia si incrociano con la complessità di sistemi ecologici, strutture sociali, valori culturali ed estetici, Barbera si diffonde in un caleidoscopio di excursus che – come i suoi frutti – ricombina carotaggi e divagazioni.

Il metamorfico manifestarsi degli agrumi vien ripercorso nei miti. E’ cosi che i pomi d’oro del giardino delle Esperidi delle fatiche di Ercole verranno identificati – in piena riscoperta della classicità – da Giovanni Pontano nel suo De hortis hesperidum del 1503 proprio con questi frutti. Con successiva consacrazione da parte di Giovan Battista Ferrari, gesuita e curatore dei giardini dei Barberini al Quirinale (su raccomandazione di Cassiano dal Pozzo) che sulla base dei campioni raccolti nella sua esperienza correda di numerose, accurate tavole botaniche la sua trattazione pomologica Hesperides, sive de malorum aureorum cultura et uso (1646).

Vincenzo Tanara, Economia del cittadino in villa

È poi la complessa trama delle migrazioni degli agrumi a venir esplorata, dalle regioni tropicali e monsoniche verso lidi sub tropicali. Dalla Cina – dove nel XII secolo si riferisce di questioni di etichetta su come sbucciarli a corte – e dall’India a Gerusalemme, alle terre dell’antico Islam – protagonisti delle sperimentazioni di quella rivoluzione agricola –, da lì ad al-Andalus dove il patio de los naranjos della moschea di Cordoba con i suoi alberi allineati tra canaline d’irrigazione diverrà modello da replicare, fino alla Sicilia arabo normanna. In percorsi e incroci di cui si riscontra traccia in tanti etimi, proverbi, canzoni popolari.

Una vera e propria mania si profila nel clima di una nuova attenzione al mondo naturale della rinascimentale accademia neoplatonica e nei giardini medicei dove, tra naturalia e mirabilia, gli agrumi saranno oggetto di incontenibili collezioni. Occasione di celebrazione dinastica, come nel boschetto di aranci della Primavera del Botticelli e misura delle prime ansie classificatorie che traspaiono dalle tele di Bartolomeo Bimbi dove si fa ritratto di oltre un centinaio di agrumi, compresi di cartigli identificativi e descrittivi.

Con la scoperta dell’America e il trasferimento incrociato di piante, animali e microorganismi tra i due mondi, da subito son coinvolti anche gli agrumi. Già nel 1493 Colombo li porterà con sé nel suo secondo viaggio, dando avvio a una vicenda per cui il continente americano diverrà poi tra i maggiori produttori – e consumatori – di agrumi, ben davanti i paesi mediterranei. Mentre nella dialettica tra nord e sud del vecchio continente, assurti a elemento emblematico del paesaggio mediterraneo, e della sua idealizzazione da parte di tanti viaggiatori in formazione negli anni del Gran Tour, gli agrumi sono evocati nel celeberrimo lead di Goethe Conosci tu il paese dove fioriscono i limoni, musicato poi da Schubert, Beethoven e Schumann. Nonché, ricorda sempre Barbera, in opere come Carmen, Bohème, Cavalleria rusticana

La passione o mania per gli agrumi (che si è preteso di coltivare finanche in Germania e nell’Europa orientale fino in Russia lungo il Mar caspio), combinata all’esigenza di proteggerli da temperature troppo rigide, specialmente ostili per limoni e pompelmi, produrrà il fiorire di ripari, conserve, cedraie, arancere, giardini d’inverno. Come la limonaia della villa medicea di Castello con la sua stordente camera dei profumi. Di gran moda, spesso scenario di feste e ricevimenti, dilagano serre e orangerie. A Versailles una galleria centrale di 155 metri è affiancata da due laterali e aperta sul gran parterre; nel giardino della neo palladiana residenza di Lord Burlington a Chiswick una ricca messe di specie e varietà animano un Anfiteatro di agrumi.
E agrumi in vaso figurano anche sui balconi della Certosa di Parma di Stendhal.

Francisco de Zurbarán, Natura morta con limoni, arance e una rosa, 1633, Norton Simon Museum, Pasadena

Ma a segnare paesaggi e immaginari saranno anche le architetture dedicate alla coltivazione – specialmente a scopi alimentari. Dopo quelle elaborate già dai francescani nel XIII secolo per coltivare limoni in piena terra, quelle ordinate su gradoni chiusi su tre lati da alti muraglioni nella terraferma veneziana, ricordate nel 1483 da Marin Sanudo. E, soprattutto, gli spericolati terrazzamenti della riviera ligure e gli agrumeti produttivi della costa amalfitana e sorrentina all’ombra di pergole collegate al muretto della piazzola superiore.

Sul crinale tra paesaggi culturali e produttivi, il ruolo degli agrumi muta di segno con lo scarto tra frutto da ornamento nei giardini di piacere e coltura estensiva in vista di una produzione commerciale di ampia scala, capace di modificare i paesaggi fino agli eccessi speculativi o alla loro cancellazione, con le trasformazioni urbane e industriali.

Resta da chiedersi se, a corollario della loro instancabile mutevolezza e variabilità, e nella dialettica con i più recenti mutamenti climatici e dei sistemi produttivi, gli agrumi di oggi, non solo siano gli stessi del passato – come direbbe Barbera, bisognerebbe chiedere a Teofrasto –, ma come domani… diverranno.

Giuseppe Barbera, Agrumi. Una storia del mondo, Il Saggiatore, pp. 318, € 25, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 40 Supplemento de Il Manifesto del 13 ottobre 2024

L’arte involontaria delle cortecce

Tratto distintivo degli alberi anche in quanto elemento costutivamente dinamico per come, continuamente crescendo, si riconfigura, la corteccia esige un’attenzione che se da un lato la assimila al soggetto di cui è veste e interfaccia, al tempo stesso, da questo la isola in una sorta di straniamento. Perché specialmente per indagarne il dettaglio che fa inesauribile la varietà di combinazioni delle sue forme e colori, la corteccia va osservata a sé, da vicino, isolata, quasi riquadrata.

O, almeno, questo è l’assunto da cui parte il fotografo naturalista Cédric Pollet che all’universo delle cortecce ha dedicato un progetto decennale che lo ha portato tra i continenti a visitare 450 specie di piante per distillarne 81 ritratti, da presso (Cortecce. Viaggio nell’intimità degli alberi del mondo, L’ippocampo, pp. 192 € 25,00 traduzione Ombretta Romei).

Nel suo percorso di ricerca, l’aspetto estetico è demandato, senza nessun intervento, alla restituzione in fotografia del ritaglio dei soggetti. E soltanto in seconda battuta gli si affianca l’immagine dell’albero nel suo contesto naturale.

Considerando che già ogni corteccia ricomprende in sé un insieme di relazioni fin quasi a farsi ecosistema: si dica del caso dell’Acacia a corna di toro dove la colonia di formiche che difende la pianta con cui vive in simbiosi trova rifugio in grandi spine ormai ipertrofiche a forma, appunto, di corna di toro e piuttosto residuo segno distintivo.

Scorrono così tra le pagine ritratti di cortecce striate, screpolate, incise da verruche e lenticelle, squamate per frammenti rettangolari, lamine molteplici o strati sovrapposti, spesse, fibrose fino a essere ignifughe ricche di tannino contro funghi e insetti, percorse da placche, losanghe, bocche, cerniere verticali, lacerate orizzontalmente a intervalli regolari, crepate da solchi ritorti, tappezzate di spine

Volta a volta tracce, o sigilli ed emblemi destinati a restar fissi nel tempo o a variare per grana, cromia, iridescenze. A segnare anche il trascorrere delle diverse fasi della vita dell’albero come del volger delle singole stagioni nell’arco dell’anno: il sommarsi di strati sovrapposti di placche di corteccia rosso violaceo che crescendo conforma il pino marittimo; lo sfogliarsi con il sopraggiungere della calura estiva di frammenti rettangolari che dal tronco del corbezzolo greco si avvolgono come bastoncini di cannella svelando il fugace verde mela della nuova corteccia; il verdeazzurro che la grigia, vecchia corteccia dell’eucalipto rosso di Sydney assume subito prima di virare al cambio sui toni del giallo e poi dell’arancio.

Cédric Pollet, Betula Wakehurst Chocolate

E, allargando appena lo sguardo, i contrasti si moltiplicano: tra il fogliame grigio verde della californiana manzanita di San Luis Obispo e la sua sottile corteccia di un tenue color porpora che con la desquamazione dell’estate lascia via via apparire una favolosa tavolozza di verdi arancio, rosso scuro e viola; quello tra i rami bianchi e il tronco nero dopo un incendio che spiega l’origine del nome greco della Melaleuca quinquenervia (niauli), la cui compatta corteccia papiracea è serviva via via da isolante per le case tradizionali, per cucinare e avvolgere dolcemente di neonati; o quello ancora tra i fusti spinosi dell’ocotillo e le miriadi dei suoi rossi fiori melliferi che fugacemente illuminano i paesaggi desertici dal sud-ovest dagli Stati Uniti al Messico.         

Estensivamente, oltre a quelle degli alberi, l’autore include tra le cortecce i rivestimenti anche di bambù e felci arboree, di liane come ilFico strangolatore della Florida, di erbe giganti a forma di albero, come la pirofila Xanthorrhoea australis, sorta di fossile vivente, dalla crescita che non supera il metro in cento anni, ma anche il corsetto vegetale dalle tinte policrome costituito dalla base delle foglie del sabal palmetto disposte a crociera.

Implicate in queste meravigliose forme d’arte involontaria si accompagnano soluzioni efficaci, ingegnose invenzioni dell’evoluzione. Come per la corteccia di mimetizzazione che nel pino di Bunge cambia colore a seconda delle stagioni e dell’orientamento, o nel caso delle lenticelle che sul candido tronco del pioppo bianco talvolta si uniscono a disegnare bocche – vere e proprie aperture capaci di agevolare scambi gassosi. E mentre la colorazione sul verde di molte cortecce nuove – ad esempio nel cosiddetto Blu paloverde o Parkinsonia florida – tradisce la ricchezza di pigmenti clorofilliani e la capacità delle cortecce di effettuare fotosintesi spesso in condizioni di caldo eccessivo, la vite della Namibia vira invece in estate al bianco, favorendo così una migliore riflessione dei raggi solari. In alcuni casi poi – come per il kauri neozelandese, l’albero sacro dei Maori – è l’esigenza di scrollarsi di dosso parte almeno delle piante epifite che la ricoprono a spiegare il regolare rinnovo della corteccia.

Così quest’elemento, seppur discretamente molto presente nella nostra vita quotidiana – sotto le forme più varie, sughero cannella, caucciù incenso, prodotti medicinali, pigmenti, fibre, gomme da masticare –,  si proietta a evocare paesaggi, libere astrazioni, mimetismi, carte geografiche, grafie.

Come per l’Eucalyptus sclerophylla, popolarmente detto dagli aborigeni australiani, scarabocchiato: sul cui tronco improvvisamente appare una sorta di scrittura a zigzag, articolata in una serie di diversi, riconoscibili ma incomprensibili moduli. Di cui si è decifrata l’origine soltanto negli anni 30, nel segno della larva di una piccola farfalla in azione tra vecchia e nuova corteccia, che si rivela però soltanto allo fogliarsi della prima.

Cédric Pollet, Cortecce. Viaggio nell’intimità degli alberi del mondo, L’ippocampo, pp. 192 € 25,00 traduzione Ombretta Romei, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 38 Supplemento de Il Manifesto del 29 settembre 2024

Cedric Pollet, Pandanus utilis
Cédric Pollet, Manzanita di San Luis Obispo

Le stagioni del giardiniere

È il lento mutare dello sguardo sul giardino di cui è stato apprendista e poi artefice lungo l’intero corso della sua vita quello che Herbert Pinnegar – ottantenne capo giardiniere di una signorile tenuta inglese, ormai dimissionato, e protagonista del volume di Reginald Arkel, Memorie di un vecchio giardiniere – ci restituisce, ripercorrendo stagione dopo stagione, dapprima il volgere al tramonto di un’era dalla fisionomia, anche in giardino, composta ma piuttosto inerte e senza grandi idee come quella vittoriana. Poi, sullo sfondo delle cesure imposte dalle due grandi guerre del 900, l’eco di una tormentata vicenda sociale ed estetica, nonché di intuizioni che si anticipano, con sensibilità affatto moderna per il contesto in cui Vecchia gramigna, questo il soprannome di Pinnegar, ci congeda tra i ricordi, dal cottage e dalla serra dove è stato confinato nei suoi ultimi anni (Elliot, pp. 150, € 16, edizione originale 1950).

Una parabola, dove questo prototipo di giardiniere conformato alle stagioni per anni replicherà gli insegnamenti del suo primo capo, continuando a lungo ad assortire come dietro un sipario dalie, astri e petunie, rose centifolia e garofanini.

Ma, nella sua irrequieta formazione di autodidatta, la passione per i fiori selvatici alimentata nelle passeggiate con Mary Bryan, la volitiva maestra elementare conoscitrice principe di tutti i fiori selvatici della Contea, sarà presto messa in valore dalla sua futura mentore, la proprietaria del giardino e della Villa.

Donna curiosa e appassiona lettrice di libri di giardinaggio, la signora Charlotte Charteris, già prima di sceglierlo come assistente giardiniere, aveva premiato quel timido fanciullo nel locale concorso dove il suo mazzolino di fiori acquatici (invece dei qualsiasi assortimenti proposti da tutti gli altri) rivelava come quelli che così bene crescevano assieme lungo il canale sarebbero, perciò, stati belli assieme.

Nel racconto a un tempo del carattere del protagonista e dell’esperienza di pratiche e saperi maturati in giardino convergono le inclinazioni di Arkel, giornalista dotato di humor, autore di volumi dedicati al giardinaggio e, specialmente, di libretti teatrali e musical di qualche successo tra gli anni 20 e la seconda guerra mondiale.

Emile Laus, Le Vieux Jardinier, 1885, Liège, Musée des beaux-arts

Timoroso e assennato, il suo Pinnegar è però sempre combattuto, a tratti pervaso da colpi d’ingegno. Riuscendo a far maturare in serra le fragole in aprile o a regalare un’arrembante fioritura dell’ipomea blu di cui la signora Charteris aveva portato con sé – ma con davvero poche speranze – un cartoccio di semi dai giardini della Mortola, di ritorno dal suo gran tour botanico in Costa Azzurra.

In ogni caso, e magari sulla scia dell’estetica del giardino naturale propugnato da William Robinson e Gertrude Jeckill, a Bert continueranno a piacere i fiori selvatici. Anche perché quelli coltivati risultano tanto più delicati. Così, osservando le preferenze secondo cui gli irrequieti verbaschi dalle infiorescenze a candelabro si vanno disponendo in giardino – da intrusi e tuttavia capaci di resistere alla siccità – decide di lasciarne alcuni là, enfatizzandone la coreografia. Facendoli entrare a pieno titolo nel progetto.

Tale sarà il risultato, che la signora Charteris, già per tanti versi in anticipo sui tempi, deciderà, dopo aver disposto l’invito in uffici postali e vetrine dei negozi, di aprire al pubblico quel giardino irregolare. La Villa come uno dei luoghi dove si accorre in visita da ogni dove.

Gustave Caillebotte, Orchidea, Cattleya e Anthurium, Orchidee bianche, Cattleya e piante a fiori rossi, 1893, Museo degli Impressionisti, Giverny

Con le guerre poi, il richiamo alle armi anche dei giardinieri, l’abbandono delle aiuole, la vecchiaia, i ricordi si faranno spesso confusi.

Così, dal cottage che il nuovo proprietario gli lascerà in usufrutto assieme alla serra – quella stessa che da giovane gli aveva invece ispirato la diffidenza tipica verso le …cose esotiche – Bert sempre ricorderà di quando, come in una specie di gioco al rilancio, ogni sera la signora Charteris, gli insegnava il nome latino di un fiore. Per poi interrogarlo al mattino.

Reginald Arkel, Memorie di un vecchio giardiniere, Elliot, pp. 150, € 16, edizione originale 1950, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 36 Supplemento de Il Manifesto del 15 settembre 2024

John Atkinson Grimshaw, Il pensieroso, 1875, Collezione privata

Piante coinquiline nel nuovo ecosistema urbano

Presenze permanenti della nostra vita domestica e lavorativa, le piante che teniamo in casa con noi riproducono in piccolo un frammento di natura, a surrogare precedenti relazioni pressoché perdute con ambiente e biodiversità sempre più lontani soprattutto per la specie umana, ormai prevalentemente concentrata in contesti urbani (al 55%) e ridotta a vivere (per l’80% del suo tempo) in luoghi chiusi.

E se in passato la flora da interno si diversificava in base al gusto delle culture di cui era espressione, è oramai diventata sempre più cosmopolita. Fenomeno globale, cresciuto, anche tra i giovani, con l’aumento del tempo libero e del benessere, la diversa disposizione e illuminazione delle abitazioni, la consapevolezza degli effetti benefici derivati.

Ripercorrendone la vicenda nella sua Storia botanica delle nostre case, come recita il sottotitolo del volume per il Saggiatore di Mike Maunder, Piante domestiche, si evidenzia tuttavia come oggi il ruolo ornamentale delle piante da interno si stia ampliando (pp. 253, € 24).

Nel nuovo ecosistema urbano, il più giovane del pianeta, si va comunque stringendo in una nuova intimità coevolutiva il rapporto mutualistico tra esseri umani e piante d’interno. Che, ospiti a loro volta di un’ampia varietà di intimi coabitanti, hanno anche la capacità di influenzare il microbioma domestico aumentandone la diversità, assumendo un ruolo di agenti sempre più attivi nell’ecologia dei nostri spazi vitali al chiuso. Parliamo di habitat in evoluzione dove emergono nuovi processi ecologici, con organismi che volontariamente vi introduciamo – animali domestici, piante, appunto, prodotti vivi fermentati –, e altri con cui conviviamo, come le centinaia o migliaia di specie tra cui insetti, piante, funghi, batteri.

Lucian Freud, Interior with Plant, 1967-8, coll. privata

Indagando la storia botanica del bioma umano, in un susseguirsi per fasi cicliche di passioni e abbandoni, mode e predilezioni fino al fanatismo della mania vittoriana per le felci o pteridomania, Maunder ricorda come, dopo i primi esempi d’epoca medievale di coltivazione di piante in ambienti chiusi (dianthus caryophillus), è con i grandi viaggi di esplorazione, e assieme l’effetto straordinario delle prime piante tropicali esibite nella Londra elisabettiana come esperienza mondana, che si afferma, con l’inizio del 600, una certa varietà di piante da interni: decorazioni “nei giardini entro le case” descritti da Hugh Platt nel suo Floraes Paradise. Mentre l’impiego del termine “esotico” si fa risalire all’erborista inglese John Gerard che lo utilizza nel 1597.

Una coevoluzione, quella  tra piante tropicali da interno (arrivate tuttavia dai nuovi mondi spesso senza istruzioni su come coltivarle e moltiplicarle) e vivaisti, cercatori professionisti spesso in feroce competizione, che – assieme all’affermarsi di pubblicazioni dedicate al giardinaggio, riviste, serre, verande, giardini d’inverno intesi come stanze, parte integrante della casa, ma anche terrari e teche di vetro, cornici per accogliere micromondi vegetali –, vedrà affermarsi nell’800 il gusto e la fantasia di nuove tecniche d’ibridazione.

Incroci e sperimentazioni che nel caso delle piante d’appartamento – diversamente da quelle alimentari concentrate su un numero ridotto di specie – ne coinvolgono invece una grande schiera. Per quanto, a lungo, tra dilemmi morali nel timore di interferenze con le leggi della natura (e con la religione).

Sperimentazioni alla ricerca di nuove performance creative viventi. A cavallo tra arte, tecnologia, ricerca scientifica, etica e commercio. Fino a farne una ininterrotta impresa commerciale che dall’Europa dell’800 si estende agli Stati Uniti, specialmente di Florida e California e, oggi soprattutto in Asia (Thailandia Cina Corea e Giappone). Con i relativi rischi ecologici connessi a un modello d’impresa a lungo contraddistinto da un approccio predatorio, con riduzione degli habitat e scarsa sensibilità rispetto al tema della salvaguardia della diversità, nonché da significativi costi in termini di emissioni.

In quest’intima relazione botanica che ci vede sceglierle come coinquiline, le piante da interno, oltre ad arricchire le nostre vite sul piano dell’estetica e delle emozioni, stanno anche diventando parte integrante di un inedito metabolismo della vita urbana contemporanea

Eugenio Ampudia, Concert for the Biocene, Teatro dell’opera di Barcellona, 2020, eseguito per un pubblico di sole 1292 piante

Componenti della famiglia multispecie di cui siamo parte, queste piante non son più singoli esemplari, ma veri e propri paesaggi, parte e innesco del tessuto urbano anche attraverso muri verdi o giardini verticali, infrastrutture per il nostro benessere, capaci di migliorare le condizioni di vita del bioma.

Incorporati nella progettazione, impianti vegetali estesi finiscono così, tra tecnologia e creatività, ingegneria, floricoltura, arte e scienza, per creare nuovi habitat urbani, includendovi interi sistemi viventi. Coì che gli edifici risultano spazi interni alla vegetazione e non più il contrario. Mentre il concetto di pianta si amplia includendo muschi, funghi, alghe.

https://www.ilsaggiatore.com/libro/piante-domesticheMike Maunder, Piante domestiche, il Saggiatore, pp. 253, € 24, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 34 Supplemento de Il Manifesto del 1 settembre 2024