I giardini penna e cesoie degli scrittori

Sempre così fecondo per varietà d’esiti e movenze, l’inestricabile passo doppio di penna e cesoie, zappa e scrittura, che avvince molti letterati amanti delle piante si dispiega a tutto campo proprio nella coreografia dei loro giardini: spazi che ne incorniciano vite e opere, alimentando e scandendo il ritmo serrato dello spartirsi di energie e attenzioni in un tale concorrer di passioni.
E questo vale, sia che si tratti di un rifugio bucolico dove tornare per scrivere, alternando l’amore per le piante a quello per i viaggi (Rudyard Kipling), come di una palestra botanica dove testare trame di racconti gialli (Agatha Christie), magari per il tramite dell’alter ego letteraria Miss Marple tra citazioni floreali sugli effetti venefici di alcune piante, o ancora di un gabinetto vegetale, sorta di esilio botanico volontario dove condividere intenzione pedagogica e conforto dell’ordine del mondo vegetale (Jean-Jacques Rousseau). Si tratta altrimenti, di luoghi perno di un’intera esistenza trascorsa in amicizia con le piante, tra missive-erbario e boccioli di rosa cuciti al foglio di una poesia, che si fa viatico, forma di linguaggio naturato (Emily Dickinson). Spesso è un luogo ispiratore dove leggere in controluce scenari letterari come La porta stretta che si affaccia al fondo del giardino di Cuverville, non lontano da Dieppe sulla costa Normanna, con la serra fatta arrivare dall’Inghilterra, dove André Gide ricorda nei suoi diari dei momenti trascorsi insieme a Paul Valéry e al pittore Paul Albert Laurens. E senza peraltro dimenticare quei giardini pubblici volta a volta adottati come occasioni di passeggio botanico e ispirazione, dove magari incontrare i propri personaggi sulle panchine (Javier Marías).

Agatha Christie e suo marito a Greenway Devon, the National Trust

Luoghi minori, talvolta remoti, che ci appaiono però subito familiari, ospiti inattesi di biografie di vite e di opere in filigrana di autrici e autori che lì si svelano giardinieri competenti, sperimentatori di novità esotiche. Dove si circondano di piante, curandole personalmente, seminando, trapiantando, innestando. Mettendo insomma le mani nella terra, sovente con la medesima maniera compulsiva riservata alla scrittura (Christie) – magari per rammaricarsi poi del troppo tempo dedicato al giardino a scapito della letteratura (Gide) – e anche a costo di investire i pochi denari dei primi guadagni letterari per sperimentare nuove varietà di rose (George Orwell).
Son luoghi tutti da visitare con la giuda intrigante del volume che Luca Bergamin dedica a I giardini degli scrittori. Viaggio nei luoghi botanici dell’ispirazione (EDT, pp. 334, € 16.00). Analizzati nel loro contesto paesaggistico e nello specifico dell’architettura vegetale, oltreché della duplice, reciproca relazione creativa con quei loro abitatori, e relative predilezioni botaniche – quelle di Henri James per il glicine e le rose, e però anche per tutte le vistose fioriture del giallo; il gusto per l’integrazione tra giardino e fiume e l’affetto per magnolie, ortensie, camelie e alberi da frutto della Christie, fino agli estremi della sua vera e propria mania per le felci.

Duncan Grant, Garden Path in Spring, 1944

Interpellati, anche sulla base di citazioni, letture, autobiografie, taccuini dal giardino, erbari, annotazioni su calendari, elenchi di semi e di attività, evidenziano saperi pratici, competenze giardiniere, corrispondenze, immaginazione e capacità progettuali. Nella disposizione delle rose – puntigliosamente denominate per tipologie in lettere e romanzi – del cottage dal tetto di paglia di Chawton, nella campagna dell’Hampshire sulla costa meridionale dell’Inghilterra, rifugio letterario degli ultimi otto anni di vita di Jane Austen che immagina un giardino un po’ selvatico, ma con elementi come grottesche, tempietti, siepi, viali di ghiaia, un frutteto con fragoline di bosco. Nei progetti dei giardini, come testimonia l’autografo di Kipling per la sua tenuta nel Sussex dove inventa un’articolazione di spazi che va dal frutteto bordato di siepi di tasso al Giardino del gelso, al roseto vicino allo stagno delle ninfee. O come nel caso di Monk’s House, opera botanica pervasa da una dimensione affettiva che nel 1919 Leonard Woolf crea insieme a Virginia e per lei non distante da Londra, con diverse stanze all’aperto differenziate per temi e colori di fioritura e uno studiolo per scrivere ricavato da una rimessa per attrezzi nel giardino, al margine del frutteto.

Virginia Woolf davanti Monk’s House, agosto 1931

Anche il newyorkese Henry James, che dal 1897 si trasferisce nel Sussex, a Lamb House nella casa di stile georgiano scelta specialmente per gli spazi esterni, prevede un edificio autonomo, una Garden room, al centro del giardino sul retro progettato con l’amico specialista Alfred Parsons, a smentire così di fatto il suo iniziale timore quando in una lettera al fratello confessava “sono senza speranza riguardo al giardino”.
Oltre a quelli degli scrittori coltivatori, a definire le diverse gradazioni di prossimità con i loro luoghi d’elezione, Bergamin ordina i suoi reportage per categorie, distinguendo i giardini degli osservatori, degli esteti, quelli di idealizzatori, architetti disegnatori, e fin degli indifferenti apparenti.
Il cambio di scenari, contesti botanici, rifermenti letterari va ben oltre il godimento della rassegna. Ciascuno con il proprio genius, dal parco della tenuta abitata e coltivata da Lev Tolstoj vicino a Tula nella Russia europea così pervaso dal ricordo della madre al giardino di famiglia a Calcutta del nobel Rabindraht Tagore, animato di piante come sacrali presenze ispiratrici, dalla dimora con vigne nella Svizzera di Hermann Hesse alla casa con grande giardino a Milano dove Alessandro Manzoni pianta lui stesso molti alberi scegliendoli nello stile romantico imperante, a conferma di una sua competenza botanica, rivelata anche nelle accurate descrizioni di paesaggi ne I promessi sposi, che va assieme a una passione per i fruttiferi, gli innesti, gli esperimenti con gli agrumi, nonché per le recenti curiosità botaniche come cotone e caffè.
Con Neruda poi l’esuberante universo botanico esemplificato dalle svettanti araucarie, che tornano salde nei suoi versi, come in un legame tra creature viventi respira allo stesso ritmo delle abitazioni – animate di materiali, posizione, intrinseche facoltà espressive.

Lev Tolstoj a Jasnaja Poljana, vicino a Tula, Russia, anni 1890

Ma anche soltanto la frequentazione più o meno assidua e ispirata da parte di alcuni scrittori diventa occasione per ripercorrere storia, fisionomie e vicende di giardini illustri. Vale per la scenografia dei Boboli fiorentini frequentati da Fëdor Dostoevskij specialmente nella parte del Giardino delle rose di Giove come già dal Marchese de Sade, passeggiatore abituale che pure li descrive.
Se i versi di Montale ispirati dalle false rovine e la Casa dei cigni introducono alla vicenda architettonica e botanica del Giardino inglese del parco di Caserta e gli sguardi a passeggio per i viali di Villa Medici di Chateaubriand si allargano al panoramico parco di presenze scultore e delizie botaniche, è all’indirizzo del Jardin de Luxembourg, con il portato della sua vicenda storica, il bacino ottagonale, il gioco di alberature e viali frequentati giorno e notte negli anni del suo esilio parigino da Emil Cioran, che vien ricondotta la sua cittadinanza letteraria, in una sorta di studiolo diffuso en plen air.

Henry James a Lamb House

E se uno scrittore tutto politico come George Orwell, che pure annota meticolosamente le sue attività orticole in dettagliatissimi diari domestici, trova nei suoi due giardini un modo per radicarsi nel regno delle percezioni, anche riconoscendo loro una valenza politica, capace di farsi talora atto di resistenza, è nell’immersione in una diversa misura dello scorrere del tempo e nell’interazione stretta con un vivente plurale che perlopiù il giardino degli scrittori entra in risonanza.
Piantando i suoi alberi, Manzoni scrive “se vivo abbastanza verranno un giorno a trovarmi dalle finestre” e, sempre a farne persona, Virginia Woolf, nei suoi Diari, a proposito della sua casa immersa nel giardino, descrive evocando: “specie la nostra grande camera da pranzo salotto con le sue cinque finestre, le travi in mezzo a fiori e foglie che annuiscono tutto intorno a noi … Nel frutteto c’erano ventiquattro meli, alcuni un po’ pendenti, altri che venivano su dritti con un impeto che dal tronco si spandeva nei rami e andava a formare gocce rotonde rosse o gialle”.

Luca Bergamin, I giardini degli scrittori. Viaggio nei luoghi botanici dell’ispirazione, EDT, pp. 334, € 16.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 14, Supplemento de Il Manifesto del 27 aprile 2025

Vanessa Bell, Garden at Monk’s House, Sussex, 1947

Uomo-natura nel Medioevo

La verifica sul piano dell’analisi storiografica dei modi in cui il rapporto dell’uomo con l’ambiente si è andato caratterizzando nel lungo corso del Medioevo risulta particolarmente interessante per la varietà di forme espresse, nelle pratiche e nelle rappresentazioni della natura, nei diversi contesti e nel succedersi dei secoli.
Ad affrontare la sfida, indagando nel suo ambito un tema di estrema attualità e al centro di una riflessione multidisciplinare che vede ripensare la categoria stessa di natura e dell’opposizione consueta cultura-natura, interviene ora il medievista Michele Campopiano.
Tenendosi metodologicamente stretto all’idea di natura come entità separata dall’agire umano e con sullo sfondo la lezione di Marc Bloch sulla centralità di forme e modi di affermazione del potere su uomini e terre come leva e motore principe nella trasformazione di territori, società e ambiente naturale. Nella stretta, interdipendente relazione che li traversa, l’autore individua nel suo stimolante volume di sintesi dedicato alla Storia dell’ambiente nel Medioevo. Natura, società, cultura, le fasi essenziali e gli snodi concettuali di questo multiforme processo (Carocci editore, pp. 173, € 17).
In prima battuta, l’eredità del mondo classico e della prima cristianità che si proietta nel Medioevo, con le sue definizioni di natura, la visione gerarchica di un cosmo che per gradi discende da Dio, la corrispondenza tra macro e microcosmo che si riproporziona nell’uomo facendone misura e compendio e significandone centralità e superiorità; ma anche nell’aspirazione pratica al controllo dell’ambiente che si intravede in filigrana nelle tracce della ripartizione dello spazio dei campi con la centuriazione anche dopo il disarticolarsi delle strutture politiche ed economiche dell’Impero.

Novembre, da Les Très Riches Heures du duc de Berry, codice miniato dei fratelli Limbourg, 1412-1416

Quindi, dopo un alto Medioevo caratterizzato da un legame di grande prossimità tra essere umano e natura in riscossa, nello snodo dei suoi secoli centrali, con il diversificarsi di paesaggi, coltivazioni e usi, anche comuni, delle risorse nelle comunità di villaggio – tra coltivi, pascoli, macchie, boschi – e l’affermarsi dell’idea di una natura come ente a sé, con una propria fisionomia che finisce spesso per essere resa in persona.
La riflessione aristotelica su una natura segnata dal movimento si orienta verso la ricerca di un ordine in quel mutamento, verso le cause seconde che regolano l’universo di cui l’uomo soltanto rileva la ratio, unico dotato, a differenza degli altri animali, di un’anima immortale. È questo ordine comune della natura che, delineatosi soprattutto nel 13° secolo, consente di distinguere il naturale dal soprannaturale: mito, miracolo, mirabilia.
Alle grandi attività di trasformazione dell’ambiente che caratterizzano i secoli centrali del Medioevo – disboscamenti e bonifiche, intensificazione di pesca e attività estrattive – corrispondono giustificazioni teoriche, teologiche e rappresentazioni ideologiche, declinate spesso a cavallo tra cura e dominio, tra colonizzazione e l’idea d’essere responsabili di un ordine da disporre, di cui esser custodi.
Volontà di controllo sul mondo naturale che intreccia dominio e desiderio di legittimazione, curiosità, sete di conoscenza, interesse per l’osservazione e la comprensione della natura. Che si traduce in regolamentazioni, norme statutarie, diritti sull’incolto o sulle acque, come pure in elaborazioni teoriche, dibattiti, manuali tecnici, trattati.
Finché le molteplici crisi del tardo Medioevo, in parte anche connesse alle sregolate pratiche di sfruttamento dell’ambiente come i disboscamenti con conseguenti dissesti idrogeologici o l’alterazione dell’equilibrio tra coltivazione e allevamento con relative riduzioni delle rese, induce una progressiva messa a fuoco del nodo della gestione delle risorse naturali.
La riflessione sull’origine di catastrofi anche naturali, alluvioni, terremoti, epidemie ed altri eventi che si fanno sempre più frequenti, vien messa in relazione, oltreché come conseguenza dei peccati dell’uomo – e assieme –, come risultato dei cambiamenti imposti da quest’ultimo all’ambiente, specialmente attraverso particolari interventi sul paesaggio.
Una consapevolezza che si traduce nei primi atti di un progressivo governo del territorio, fatto di limitazioni, regolamentazioni e fin anche pratiche preventive e nell’idea – amplificata dal processo di personificazione della natura – che essa sia comunque un agente. In grado, pertanto, di reagire a forme di sfruttamento eccessive.

Michele Campopiano, Storia dell’ambiente nel Medioevo. Natura, società, cultura, Carocci editore, pp. 173, € 17, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 13, Supplemento de Il Manifesto del 20 aprile 2025

Antico Egitto, archeologia dei giardini

La centralità della gestione delle risorse idriche in una terra come quella dell’antico Egitto, mosaico di ecosistemi attorno all’instabile asse della fertile pianura alluvionale e del delta del Nilo, trova nella diffusa realizzazione di giardini una delle sue espressioni distintive.
Oltre le pratiche di un’agricoltura che è fondamento di quell’antica civiltà così com’è da presso riflessa nei suoi calendari e come ulteriore vicenda di resistenza e adattamento nel contrasto tra l’aridità del deserto che vive di sottili, spesso invisibili, equilibri e il solitario rigoglio delle oasi, i giardini evidenziano qui in varie forme la volontà umana di misurarsi con la natura e regolarla.
Come emerge dall’intreccio di fonti che Divina Centore ridispone oggi nel suo Faraoni e fiori. La meraviglia dei giardini dell’antico Egitto, anche alla luce delle più recenti scoperte archeologiche, le testimonianze che si possono ricavare su entità così fragili e in divenire, sulle loro funzioni spesso sfumate e sovrapposte – colturali, ornamentali, civili, simboliche, religiose, funerarie – vanno ripercorse nei diversi contesti di cui sono ospiti e protagonisti, nella lunga fase che pure tra antico e nuovo Regno non pare tutto sommato evidenziare grandi cambiamenti (il Mulino, pp. 255, € 18). Dall’ambito templare agli spazi che pur senza prevedere un tempio son connessi al soprannaturale, dalle tombe ai recinti sacri, ai contesti abitativi privati, certo più complessi da identificare anche in ragione delle pratiche di riutilizzo.
Riguardo i primi, dedicati in particolare al culto postumo del faraone all’interno di un tempio, dove i giardini esemplano il ricorsivo ciclo della natura, la relazione tra umano e divino, tra faraone divinizzato e forza rigeneratrice della natura, il più antico, identificato nel 2012 è il tempio a valle della piramide romboidale fatta costruire dal faraone Snofru come tomba (ma mai utilizzata) nella zona di Dahsur. Una scelta che immaginando un giardino in un territorio privilegiato dal punto di vista della conservazione delle spoglie ma privo di acqua che occorre trasportare fin lì, destinandolo a uso rituale lo significa come elemento rilevante di una più ampia intenzionalità progettuale. Dai ritrovamenti di una serie di fosse scavate su più file nella sabbia, riempite di terreno fertile e servite da canali di irrigazione si ipotizza la presenza di palme e sicomori, sulla base delle analisi polliniche di cipressi di origine siriana, nonché di mirra e incenso raffigurati sui rilievi, per circa 300 alberi in filari in un modulo non dissimile da quello del viale alberato, spesso presente nell’architettura di templi e luoghi sacri e dalla funzione assieme pratica e simbolica.

Tomba di Ipuy, Scena di giardino, ca. 1295-1213 a.C., New York, Metropolitan Museum

La presenza della flora risulta elemento di tutto rilievo ancora nel complesso del tempio funerario di Hatshepsut a Deir el-Bahari dove si riscontrano radici di persea, pianta di origine etiope, papiro (che simboleggia la resurrezione), sicomoro, tamarisco, acacia, palme da dattero e perfino di alberi di mirra portati qui dalla lontana Terra di Punt, dove la regina aveva organizzato una spedizione scolpita sulle pareti del tempio, con tanto di elenco dei trofei riportati, tra i quali legni profumati.
Con al centro un bacino circondato da palme e acacie, con papiri e fiori di loto (o piuttosto ninfee, a ricordare il ciclo di rigenerazione) il recinto sacro Maru Aten, nella città costruita in onore del dio sole nel deserto di Amarna dal faraone eretico Akhenaton, si articola in edifici spesso decorati con illustrazioni di giardini e paesaggi nilotici, raffigurazioni di piante, percorsi processionali, un portale di pietra con colonne dipinte di verde e decorate con fiori e foglie di ninfea, grappoli d’uva, foglie di alloro e capitelli a foglie di palma, forse anche per integrare la faticosa crescita vegetale.
Se nelle pitture dei giardini di templi dedicati alle divinità si raffigurano tutte le essenze coltivate per lo svolgimento dei rituali – come per la Tomba delle viti dove su gran parte del soffitto della camera funeraria è disegnato un pergolato – il piccolo giardino funerario (3 mt x 2) scoperto nel 2017 a Bra Abu el-Naga è concepito invece come un modello in miniatura destinato ad accompagnare il defunto verso la vita eterna, esaltandone lo statuto.
Scarse le testimonianze archeologiche di giardini in contesti abitativi per i quali ci si deve affidare perlopiù a evidenze architettoniche, tracce testuali e archeobotaniche e pitture. E per quanto si sia 66 ipotizzato che alcune rappresentazioni di giardini possano riferirsi piuttosto a luoghi ideali, diverse indicazioni forniscono riferimenti puntuali. Come nel caso dei giardini di Deir el-Medina, un villaggio che ospitava i lavoratori impegnati nella costruzione delle tombe reali, quando, tra melograni, fichi, papiri, fiordalisi e fiori di ninfea, nella Tomba di Ipuy due giardinieri son ritratti nell’atto di irrigare un giardino, o nella già citata città del sole di Amarna dove pure si riscontrano molte aree verdi, anche al di là dei luoghi sacri. Mentre nell’insediamento degli orti di Giza sulla riva occidentale del Nilo, destinato ad accogliere le migliaia di lavoratori impegnati nella costruzione delle piramidi, nel quadro di una organizzazione urbanistica pianificata, si registrano sofisticati sistemi di irrigazione e abitazioni con stanze prive di soffitto che sembrerebbero esser state utilizzate come cortili e giardini a quota ribassata.
Alle evidenze archeologiche – buche scavate nel terreno contenenti veri e propri vasi di terracotta per ospitare le varie specie botaniche –, ai dipinti – come le pitture funerarie nel giardino di Nebamun, dominato da una piscina piena di uccelli e pesci che nuotano tra fiori di ninfea papaveri e papiri, palme e sicomori – si affiancano disegni architettonici con indicazioni di geroglifici e misure, modelli in legno che in miniatura raffigurano giardini come quello con portico rinvenuto nella tomba di Meketra a Deir el-Bahari e analisi paleo botaniche che consentono di studiare resti fossili di piante, come semi e pollini.
Perfino nei rari documenti come la stipula di un contratto che ne specifica le mansioni, restano vaghi i tratti della figura del giardiniere che pure per operare nelle difficili condizioni climatiche e per l’importanza che i giardini rappresentavano nella cultura del tempo e nello stile di vita delle classi elevate, presupponeva invece conoscenze accurate, una lunga formazione ed esperienza. Per quanto annoverato dalla satira, nel genere letterario degli insegnamenti ai figli, come uno tra i mestieri più faticosi e da evitare, occorre distinguere diversi livelli e il ruolo di rilievo di alcune figure con funzioni di responsabilità e coordinamento. Indicate con titoli ufficiali a dar conto della considerazione in cui erano tenuti personaggi come Nakht, “giardiniere delle offerte divine di Amon”, responsabile di fornire fiori per le cerimonie nei templi, con tanto di titoli riportati su alcuni sarcofagi e cariche tramandate di generazione in generazione.
Mentre sfugge il senso di un’improbabile storia dei giardini in sedicesimo che in coda al volume poco indaga le vicende fondative di quello egizio e della intemerata sulla progettazione di “giardini storici in chiave moderna”, con elenco di tecnologie e futuribili prospettive, a margine dell’importantissimo, invece, tema del restauro storico dei giardini, un suo certo interesse rivela il repertorio delle piante incontrate nei giardini e menzionate nel volume: sorta di erbario tematico in appendice, con trascrizione in geroglifico di alberi ed erbe, descrizione, simbolismi, divinità associate e utilizzi, fin nella cosmesi, nella medicina, negli usi ornamentali come nelle ghirlande, e una serie di aneddoti e informazioni sui maggiori ritrovamenti archeologici. A conferma della ricchezza di presenze botaniche e dell’importanza di piante e fiori nella cultura e nella vita quotidiana dell’antico Egitto, dall’architettura che ad esse si ispira agli impieghi nei più diversi ambiti, alimentari, medici, cosmetici, negli utilizzi pratici come materiale scrittorio, abiti, calzature, in quelli cultuali, corone, ghirlande e composizioni floreali. Fino alla messa in scena, nei Canti del boschetto, con il nuovo genere delle poesie d’amore che inizia a diffondersi con il nuovo Regno, di un dialogo dove, direttamente, a prender parola sono tre alberi sotto le cui fronde si incontrano gli amanti.

Divina Centore, Faraoni e fiori. La meraviglia dei giardini dell’antico Egitto, il Mulino, pp. 255, € 18, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 11, Supplemento de Il Manifesto del 6 aprile 2025

Linneo/Buffon. Vite parallele dei due naturalisti nell’Europa dei Lumi

La diffusa passione ordinatrice che pervade il diciottesimo secolo a fronte della sempre più incalzante presa d’atto della molteplice complessità di modi e forme in cui la vita si esprime pare oscillare e divergere nella tensione tra l’anelito a fissare tutto in modelli complessivi, a incastrare la natura in strutture gerarchiche, distinguendo, assegnando etichette, e un’attitudine invece a percepirla nel suo fluire, a coglierla nella sua complessità in una tensione approssimata per gradi, senza imporle ordinamenti semplificatori, con l’accento posto su connessioni e somiglianze, interrogando incertezza e meraviglia. In un dibattito, quello tra sistematici e complessisisti, come allora si definivano, attorno al quale si ordinano convinzioni ideali e religiose, istituzioni scientifiche e modi di intendere la ricerca, percorsi e formazioni culturali, ma anche inclinazioni e caratteri, stili di vita, modi della scrittura e poi interessi economici e sistemi di valori, visioni del mondo.
Un dibattito che è abilmente messo in scena per il tramite del confronto tra i suoi due maggiori intrepreti, scandito quasi per vite parallele nel volume di Jason Roberts, Una prodigiosa moltitudine. Linneo, Buffon e l’ossessione per la conoscenza, Mondadori, pp. 472, € 30.
Nati entrambi a distanza di pochi mesi, nel 1707, le loro esistenze e il precisarsi delle rispettive convinzioni seguiranno percorsi molto diversi.
Elegante e disinvolto a corte come nei salotti parigini, Georges-Louis Leclerc, che aveva il diritto di farsi chiamare de Buffon in ragione del possesso dell’omonimo piccolo insediamento presso Montbard, in Borgogna, presto trasformato in un laboratorio vivente dove studia in maniera sistematica la crescita degli alberi, a 27 anni, viene ammesso all’Accademia delle scienze per le sue rilevanti dimostrazioni matematiche. Sorta di emblema della figura del savant quando sulla frontiera di una nuova scienza i primi passi si muovono piuttosto all’insegna delle società scientifiche e nelle accademie che non nelle università, nel 1739 Buffon è nominato intendente di quella istituzione unica e controversa che poco più di un secolo prima aveva insidiato l’antico monopolio dell’insegnamento della medicina alla iperconservatrice Sorbona: il Jardin du roi, con le sue collezioni di piante, i cancelli aperti al pubblico, dove si tenevano lezioni informali e dove Tournefort aveva creato il suo sistema botanico. E che aveva finito per accogliere tutte le collezioni di rarità del Cabinet du roi.

Frontespizio dell’Ortus Cliffortianus, opera botanica pubblicata da Carlo Linneo nel 1737, con le illustrazioni di Georg Dionysius Ehret

Mentre Buffon si dedica così a incrementare dotazioni e attività del giardino, e specialmente ad avviare tra cassetti di gemme, erbari e creature impagliate l’impresa dell’inventario del gabinetto alla ricerca di una nuova organizzazione e opponendosi però all’idea di tutto ridurre in rigide categorie, già nel 1730 in un opuscolo di 22 pagine che comincia presto a circolare manoscritto a Uppsala e Stoccolma, lo svedese Linneo, da sempre avvinto dall’idea di ordinare la natura in un sistema globale, propone un nuovo modello di identificazione delle piante strutturato sulla base del loro sistema sessuale, i Preludia sponsaliorum. Figlio di un ministro del culto, che a più riprese aveva sofferto l’alternanza tra la frustrazione delle sue aspirazioni accademiche e successi – una spedizione naturalistica in Lapponia con resoconti zeppi di esagerazioni e invenzioni, e per anni ai margini della vita scientifica impegnato nell’inventario della collezione esotica di Hartekamp, nei Paesi Bassi –, finalmente presidente della neocostituita Accademia svedese delle scienze e poi professore a Uppsala, dal 1742 Linneo si dedica a trasformare il trascurato giardino botanico in una delle maggiori attrazioni della città, con piante e animali esotici, mentre le sue lezioni affollano l’anfiteatro dell’università e grande consenso riscuotono anche le escursioni naturalistiche organizzate per centinaia di persone nel fine settimana, vere e proprie herbationes con una loro tariffa, l’accompagno di corni e timpani e un qual certo sapore militaresco
Recuperando anche terminologie già in uso, ma fissando per primo il loro significato e disponendole in una serie gerarchica di scatole cinesi, secondo criteri mutevoli, Linneo classifica i tre regni nel Systema naturae (15 pagine). Su quest’opera – mentre il suo sistema faticosamente si afferma tra dibattiti e convenienze – Linneo tornerà più volte, affiancandole nella Philosophia botanica la sistematizzazione della nomenclatura binomiale, una semplificazione che assieme al partito preso della sua foga classificatoria renderà quel metodo regola pratica condivisa.
Subito dopo la sesta edizione del Systema naturae dove nel prologo confuta i suoi detrattori e specialmente il suo critico più diretto, a essere pubblicati, nel 1749, sono proprio i primi tre dei quindici volumi ambiziosamente progettati da Buffon per l’Histoire naturelle, générale et particulière. Opera dal successo immediato che rende l’autore popolare forse ancor più di Voltaire, Rousseau e Montesquieu.

Georges-Louis Leclerc de Buffon

Diversamente dall’aridità compilativa della maggior parte delle opere di storia naturale, le dettagliate descrizioni in uno stile felice e avvincente ne fanno, con le incisioni a punta secca degli animali visti nel loro habitat, un’opera quasi letteraria che vale a Buffon l’elezione all’Académie française.A quella vasta diffusione delle critiche al pensiero sistematico si affianca però anche la severa censura della Sorbona nonché pesanti obiezioni di carattere religioso: anche a rischio di stemperare il suo pensiero Buffon navigherà da allora schermandosi abilmente dietro una serie di precauzionali clausole retoriche
Il discrimine, che si riverbera nella disputa sugli universali e coinvolge la possibilità di cogliere o meno l’essenza delle cose, è tra la fissità della lente della sistematica di Linneo, convinto, alla luce del racconto della Genesi che la vita sia un soggetto statico, immutata dalla creazione, e che quindi non si possa prevedere una natura che si modifica o una specie che possa estinguersi, e l’introduzione da parte di Buffon della dimensione diacronica, nella prospettiva del tempo profondo (molti i fossili da spiegare, conservati nel Cabinet du roi) e del cambiamento continuo che mette in crisi la rigidità dei confini di quelle ch’egli – pur finendo in parte per applicarle come utile strumento pratico di approssimazione – considera astrazioni nominali, costruzioni condizionate da presunzioni e limiti della conoscenza del momento.
Andando ben oltre Linneo e Buffon, Roberts allarga il perimetro fissato nel sottotitolo del volume a comprimari come Adamson, Lamarck, Cuvier, … ripercorrendo per cerchi concentrici la trama di relazioni e dibattiti – uno per tutti, sui modi della comparsa delle specie, che Lamarck, ampliando il concetto di esogenesi di Buffon, riconduce al trasformismo avversato dal catastrofismo di Cuvier – , per seguire poi gli sviluppi del confronto tra gli epigoni, diciamo così, di sistematici e complessisti.
Fino all’espandersi e oltre degli imperi coloniali, quando la sistematica sembra evocare da presso una diversa forma di conquista e il diffondersi di nuove tecniche di stampa e litografia induce l’incremento esponenziale di riviste scientifiche, e conseguente moltiplicarsi di invenzione di nuove tassonomie – anche per il marciare spesso separato di botanica e zoologia, malgrado Lamarck avesse introdotto il termine biologia per comprenderle assieme. D’altro canto, nello sforzo di circoscrivere il divenire continuo della vita e il frastaglìo delle sue infinite sfumature, gli atti linguistici si moltiplicano. Specialmente da parte di Linneo che ribattezza classi, riassegna specie spostandole da un genere all’altro. Tra attribuzioni di significati, falsi grecismi, ardite etimologie e vere e proprie invenzioni, cactus, lemure, afide, artemisia, azalea, sono alcune soltanto delle nuove etichette stabilite per dare un senso al mondo. E così pure fauna, o larva. Anche se allora le creature microscopiche e gran parte della vita microbica ancora sfuggono alla classificazione.

Carl von Linné

Ma, è già con la rivoluzione francese che si era affermata la sistematica di Linneo, reinventato eroe rivoluzionario, cui si ispira anche nel nome dei mesi il nuovo calendario – germinale, floreale, termidoro, messidoro son direttamente tratti dal suo Calendarium florae; mentre Lamarck, firmandosi “cittadino”, riesce a salvare il destino di quel Jardin compromesso fin nel nome con la monarchia, proponendo direttamente all’Assemblea nazionale di ripensarlo come delle piante del popolo, una volta ridotto a sezione del Gabinetto di storia naturale che diventa allora museo, come oggi lo conosciamo; e mentre Buffon, a suo tempo osannato come “una delle lampade del secolo dei lumi” – al suo funerale accorrono oltre 20.000 persone –, in mancanza di rivendicazione dei diritti della sua Histoire naturelle, vedrà il suo pensiero snaturato dal diffondersi di ristampe malamente ritagliate e abbreviate e la sua figura ridotta al simulacro di un eccentrico appassionato di scienza. Per quanto poi, negli anni 80 dell’800 – invitato da Thomas Huxley a leggerne l’opera –, Darwin confesserà come “intere pagine [di Buffon] sono incredibilmente simili alle mie”.


È così ben oltre le vicende del pensiero e dell’interrogarsi dei due protagonisti emblematici, che, tra debiti, anticipazioni, attribuzioni di paternità e riscoperte, il disseminarsi e riaffiorare per scie delle loro eredità vien ripercorso nel loro proiettarsi e ribalzare fin sulle soglie più recenti di genetica, genoma, sfumar di confini del soggetto e interazioni di entità sempre ulteriori.

Jason Roberts, Una prodigiosa moltitudine. Linneo, Buffon e l’ossessione per la conoscenza, Mondadori, pp. 472, € 30, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 7, Supplemento de Il Manifesto del 9 marzo 2025

Di mare e terra, se il paesaggio è anfibio

Meglio che in qualsiasi altro ambito, fatta salva forse l’implicazione “atmosferica” che avvolgendoci ci nutre, la reciproca, inestricabile complementarietà dove acque e suoli, terre e mari si incrociano e interagiscono in dinamiche di vita porta a evidenza la dimensione che sempre più si va affermando come costitutiva di un paesaggio, come ormai si usa dire, senza bordi (Venturi Ferriolo). Una dimensione topologica, che rifugge separazione e misura, per la continuità, invece, dell’incessante concorrere trasformativo di dinamiche relazionali.


È quanto con anfibio procedere ci addita in vari modi dalle pagine del suo Mare paesaggio Daniela Colafranceschi (Libria, pp. 183, € 24,00). Ingegnandosi sui molteplici piani espressivi dell’analisi teorica e del progetto di paesaggio come forma di negoziazione (è pur sempre docente di tutto questo a Napoli) come pure su quello insolito dell’intellettuale memoir di epifanie e insight, dal Bosforo ad Algeri. E, specialmente, con le suggestioni evocate dalla serie dei suoi collage paesaggio. Un abecedario in dialogo di luci e ombre, pieni, vuoti, bianchi e neri distillati da fogli difettati di spessa carta realizzata a mano. Strumenti assieme di un operare progettando e per darsi conto di cardini e funzioni del pensiero di paesaggio. In un pervasivo, inesausto disegnare riflettendo, e viceversa, storie per temi. Una vasta e complessa geografia rifratta si compone così e ricombina per orizzonti ordinatori, spazi esistenziali, venti che improntano quel che attraversano, plurali singolarità delle genti, campi tramati da quelle esistenze, paesaggi urbani, rilievi e topografie dell’aderire e manipolare a un tempo. In questo caso poi, specialmente, si tratta dell’acqua nelle sue mille forme, di isole di arcipelaghi complici, rive come limiti e passaggi, stretti come dispositivi di rispecchiamenti, e assieme di fili, trame, scritture. Con l’idea di riconoscere alla relazione tra mare e terra uno statuto di paesaggio.
Così come la terra, anche il mare è un pieno. Di flussi, traiettorie, forme d’esistere, identità, modi di percepire ed esser percepiti, consuetudini, valori. Di cui aver cura nel governo e da intendere come grimaldello, bene comune
Di questo simultaneo appartenere, nei brevi, incisivi interventi del volume, si bordeggiano varie occorrenze. Dal progetto di un parco sullo Stretto di Messina che, proprio a partire dalla discontinuità immagina un’area metropolitana su sponde opposte, alla proposta di ripensare un’ampia area di risulta fattasi negletto margine costiero. Mentre dall’una all’altra costa la trama dei raccordi visivi s’intuisce laddove i resti dei forti umbertini costruiti con l’unità d’Italia secondo le traiettorie balistiche ancora si affrontano a presidiare nello stretto il territorio d’ingresso di quel braccio di mare.
Diversi i modi del mare di infrastrutturare il paesaggio.
Se quello della laguna veneziana dove i percorsi paralleli per calli e canali si incontrano soltanto al montare dell’acqua alta, è uno spazio ibrido di piazze liquide, con le scie sommerse di antichissimi letti dei fiumi che ancora disegnano sul fondo il tracciato delle vie d’acqua navigabili replicate in superficie dai pali delle briccole, il mare interno attribuito alle Canarie sul disegno che l’arcipelago tiene assieme in costellazione e si formalizza come “oceano territoriale”, mentre la geografia in ebollizione dei Campi Flegrei con annesso territorio sommerso del parco archeologico si misura con il vacillare finanche della linea di costa in una “ terraferma che ferma non è”, e il suolo liquido del mare abitato dei Paesi Bassi nel suo continuo sperimentare soluzioni negoziali si fa innesco e laboratorio per ripensare relazioni tra natura e città nel segno della centralità dello spazio pubblico.
Come un unico paesaggio, la continuità di mare e terra si disvela anche nel ripercorrere la storia delle curve di livello che siam soliti ricondurre all’indicazione della quota dei rilievi: mentre all’origine questa convenzione rilevava invece, sotto il livello del mare, il disegno delle possibili percorrenze per la navigazione in acque basse. Per innalzarsi solo poi, fuori dall’acqua, a imprimere con la cartografia militare un’unica condizione – mare o terra che sia – nel domino dei luoghi.


Stretti, golfi, arcipelaghi, porti, città, coste, territori intermedi al variar dell’orizzonte. In questo gioco di sguardi e rispecchiamenti in direzione da terra a mare, o al viceversa, o nell’attraverso da sponda a sponda, dove il limite è anche occasione di transito, scambio, ponte, margine di identità e appartenenza, strumento nel quotidiano o via di fuga, sempre prevale la logica del riconoscimento e il rilievo delle interrelazioni. Perfino in un Mediterraneo che tiene assieme geografie, genti e culture e che oggi troppo spesso si fa muro, fossa comune, spazio di separazioni e disuguaglianze “dove l’attraversamento determina un cambiamento di statuto giuridico da persone a emigranti”.

Daniela Colafranceschi, Mare paesaggio, Libria, pp. 183, € 24, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 6, Supplemento de Il Manifesto del 2 marzo 2025

Chen Congzhou, estetica del giardino cinese

Assieme al carattere allusivo della cultura e della lingua cinese, intese ad accennare piuttosto che a definire esplicitamente, nonché a una qual certa attitudine contemplativa, la convinzione diffusa in Cina che la composizione del giardino sia da ricondursi perlopiù a una dimensione artistica capace di accordare l’invisibile al visibile (con la predilezione per velare quest’ultimo), piuttosto che a componenti tecnico scientifiche e prescrittive, sembrano davvero eludere definizioni da prontuario di norme e leggi.
Piuttosto, rinviare a una filosofia, una visione del mondo, un modo di intendere la vita dove influssi di confucianesimo, taoismo, poi del buddismo convergono in una sensibilità e cultura nutrite di testi classici, pittura di paesaggio, antico teatro, poesia, letteratura, calligrafia. E di cui il giardino è parte integrante ed espressione qualificante ben oltre le analogie poetiche e formali, tanto sul piano compositivo che contenutistico.
In questo senso è illuminante la lezione di Chen Congzhou, letterato e docente dell’Università di Shanghai, probabilmente il maggiore specialista nel 20° secolo della storia, dell’esperienza letteraria, degli stilemi e dei valori trasmessi dai giardini tradizionali cinesi, fino agli innesti della contemporaneità, con un’attenzione particolare al delicato tema del loro restauro.

Wen Zhengming (1470–1559), Giardino dell’umile amministratore, The Metropolitan Museum of Art, New York


L’arte dei giardini cinesi, viene oggi riproposto sempre nella traduzione (dove restano da identificare meglio alcuni nomi di giardini) e la cura di Maria Alessandra Bassi, e una sua introduzione che efficacemente ricorda i maggiori snodi politici e culturali della millenaria storia cinese dove troppo spesso episodi, protagonisti e realizzazioni anche dell’arte dei giardini finiscono per emergere assoluti, come in un indistinto mare magnum (iduna editore, pp. 106, € 25).
Chiave di lettura è qui nel tipo di visione del giardino: due, spesso interdipendenti – anche in ragione dell’idea del movimento nella fissità, propria dell’antica filosofia cinese – e dalla cui interazione deriva un’infinita varietà di paesaggi e vedute: quelle da fermi, in un padiglione, un cortile o un belvedere, più adatte a giardini di piccole dimensioni, come quello del Maestro delle reti e le vedute invece in movimento, prevalenti in spazi relativamente grandi, come nel Giardino dell’umile amministratore. Raramente nel giardino cinese s’incontrano prospettive aperte, mentre prevale la dialettica tra le diverse vedute immaginate nel progetto e l’esperienza del visitatore nel percorrerle, misurandole nel succedersi e mutar di sentimenti.

Shen Zhou (1427–1509), Appreciating Potted Chrysanthemum in Tranquility, Liaoning Provincial Museum, Shenyang


Rifuggendo formule fisse a favore di combinazioni complementari e pertinenza, di modo che ogni giardino sia contraddistinto – anche nel nome – per il suo scenario particolare, dove anche il modo di appender le lanterne si accordi al disegno generale come al suo carattere specifico, Chen Congzhou passa comunque in rassegna, per via di esempi specifici, criteri estetici e scelta di elementi compositivi. Sottolineando il margine di libertà che il progettista deve prevedere per future modifiche, l’importanza del preludio prima di addentrarsi nel cuore del giardino, l’accortezza di inserire piccoli giardini all’interno di giardini più grandi, suddividendo gli spazi per avvertire un maggior senso di ampiezza, l’attenzione da porre ai momenti di transizione, ponti e corridoi, ai sottili contrasti cromatici, all’importanza dell’eco, del riverbero, a non alterare le condizioni climatiche, pur nel mutar di albe, tramonti, stagioni, elementi eterei che servono a dar concretezza al paesaggio.
Imprescindibile, nel giardino cinese, è la disposizione di elementi architettonici, dai padiglioni alle finestre a grata – a rivelare ciò che all’interno merita d’essere visto o per far risaltare il paesaggio. Come importante è schermare le disarmonie e d’altro canto illuminare architetture strette di cortili e corridoi, magari con bonsai. E, ancora, il ruolo della vegetazione nella predominante disposizione di acque e rilievi – sorgenti come occhi delle montagne, fiumi e laghi che illuminano il terreno, rocce associate secondo precise norme, collegate a seconda delle venature – con alberi da piantare a gruppi perché la loro bellezza risalta maggiormente se vista da lontano, capaci di rivelare il passaggio delle stagioni, utilizzati anche per il loro significato pittorico e per le peculiarità che ne fanno caratteristica distintiva di luoghi e giardini.
Se ogni giardino vive di un’eco vicendevole tra il suo paesaggio interno – reso evidente dal[l’idea del] tracciato dei suoi confini – e il suo evocare e riflettere la natura nel suo insieme, magari tramite l’espediente compositivo della presa in prestito del paesaggio a esso esterno, non stupisce come i criteri relativi alla composizione dei giardini si dilatino al paesaggio naturale – con gli elementi architettonici a puntualizzarlo – e al patrimonio culturale, come ad esempio nel caso del sentiero che conduce al Monte Tai dove al girare di ciascuno dei diciotto tornanti corrisponde una particolare veduta a marcare percorso ed esperienza. Sempre in relazione stretta con la pratica di dare un nome a qualsivoglia luogo, visuale o prospettiva, e con il suggerimento magari di quelle iscrizioni che dalla pittura al giardino orientano possibili interpretazioni.

Chen Congzhou, L’arte dei giardini cinesi, iduna editore, pp. 106, € 25, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 4, Supplemento de Il Manifesto del 16 febbraio 2025

Wen Zhengming (1470–1559), Giardino dell’umile amministratore, The Metropolitan Museum of Art, New York

Dettagli per gioco nel giardino dipinto

È tutta all’insegna di un continuo rimpallo tra corrispondenze, associazioni e rimandi la ratio del volume per gioco che Stefano Zuffi dedica a Il Giardino dipinto raccogliendo a tutto campo raffigurazioni che anche solo incidentalmente intersecano questo tema.
Epifanie inattese, mimesi e disvelamenti, personificazioni di protagonismi vegetali in figura, camuffarsi di simbolismi e metafore: in questo caso però in una inusuale sequenza inversa. Perché, seppur tra andirivieni e ritorni, il vettore principe muove qui sempre dal particolare al generale, dal dettaglio infinitesimale che solo in ultima istanza risale all’intero, a quel contesto cui, per vari gradi di pertinenza, appartiene (Sole 24 ore cultura, 100 illustrazioni, pp. 207, € 45).
Articolato, sempre per gioco, in tre grandi contenitori, Piante, Fiori, Frutti, il catalogo rinvia difatti a un Regesto riassuntivo. Quando, soltanto in coda al volume, ognuno di quei dettagli si disvela e, da protagonista proiettato in primo piano, vien restituito al suo insieme, dove invece molto spesso figurava come comparsa, o al più comprimario.
Vinto lo spaesamento per la dismisura degli ingrandimenti a pagina piena, o doppia, e per l’effetto di strabismo di una messa a fuoco macro di particolari orfani di un contento cui agganciarsi, prevale il rilievo di presenza, suggestione, documento dell’oggetto d’indagine.
In una curiosità ludica che risale fin nella screpolatura del pigmento, nella trama del supporto, nel sovrapporsi delle velature.

Carlo Crivelli, Madonna con il Bambino, part., Ancona, Pinacoteca

Così il cetriolo, Cucumis sativus, spesso in abbinata con le mele a suggerire l’associazione tentazione-peccato, ritorna prediletto da Carlo Crivelli nella Madonna del bambino della pinacoteca civica di Ancona come pure con la zucca tra gli attributi di Pomona che resiste al corteggiamento dei satiri, ritratta da Fran Floris de Vriendt a metà 500 (o forse è l’Estate).

Tra mito, osservazione, allegoria, variamente, l’occasione è di emblematica celebrazione dinastica, come per gli allori e il boschetto di aranci della Primavera del Botticelli; nel farsi perno morale e ripartire spazi dello stentato, ma testardamente fruttifero, esile ramo di fico che ordina scena e piani, con Venezia sullo sfondo, della pala Gozzi di Tiziano; nel geometrico partecipare, tra palme ridossate e svettare di cipressi, dei paesaggi trasposti d’esotico nella Cavalcata dei Magi da Benozzo Gozzoli in palazzo Medici Riccardi, a punteggiare il corteo con Lorenzo il Magnifico e seguito degli avi, di numerose specie vegetali disposte ancora nel segno di una stilizzazione cavalleresca, e però con una ricercata attenzione naturalistica.

Se con la fine del 600, tra i trionfi di frutta di un’illustrazione ormai botanica di Bartolomeo Bimbi, il protagonismo delle pere le vedrà disposte in vassoi ordinate per mese di maturazione, numerate e identificate in cartigli esplicativi, di un altro genere son le presenze vegetali, dai cardi del frate spagnolo Juan Sánchez Cotán che metaforicamente ci interrogano alle nature morte con viole del pensiero di Henry Fantin-Latour.

Nicolas Poussin, Eco e Narciso (ca._1629-1630), Parigi, Museo del Louvre

Certo, qui non si tratta del giardino nel suo dispiegarsi di geometrie, rituali, estetiche, con strutture vegetali e assortimenti di fioriture, ma – fatto salvo nell’assortimento il peso dei diritti di riproduzione – di alcuni dei mille modi di incrociarsi con un mondo vegetale da cui si sprigionano, ricercate, ma anche inconsapevoli o impensate, relazioni e rispecchiamenti – l’autoritratto con girasole di Antoon van Dyck con l’esotico fiore in formato gigante –, affidamenti – la serie di raffigurazioni del salice piangente ripetutamente dipinto, certo non quanto le sue ninfee, da Monet –, il legame con i paesaggi, anche interiori, la prossimità impudica con i corpi come per Eco e (l’eponimo) Narciso di Nicolas Poussin, il volteggiare astratto delle roselline sul mare della Nascita di Venere di Botticelli.

Stefano Zuffi, Il Giardino dipinto, Sole 24 ore cultura, 100 illustrazioni, pp. 207, € 45, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 5 4Supplemento de Il Manifesto del 2 febbraio 2025

Antoon van Dyck, Autoritratto con girasole, 1633, coll. priv.
Benozzo Gozzoli, Cavalcata dei Magi, part., 1459, Firenze, Palazzo Medici Riccardi

Ecosistema piante. Comportamenti intesi al vegetale

Seppure con grande difficoltà, da alcuni decenni si va ormai delineando una sorta di declinazione vegetale per tutta una serie di temi di studio e ambiti di ricerca, sovente ridotti invece in formulazioni esemplate su un sistema di valori e una visione del vivente prevalentemente occidentale, zoomorfa, antropocentrica. E che costringe e semplifica ogni tentativo di lettura dell’alterità delle piante.
Così, talvolta con accenti maldestri, capita di leggere di fitolingua o fitomemoria, consapevolezza biologica, intelligenza vegetale.
A partire dal volger del secolo scorso e con recenti, grandi accelerazioni, la ricerca e l’attenzione per questi ambiti del mondo vegetale si è andata infatti dispiegando in molte, diverse direzioni. Magari con passi falsi – come per gli esiti della pubblicazione di un testo, diventato purtroppo best seller nel 1973 su La vita segreta delle piante che assortiva scienza e leggende new age – o nell’orbita incombente del paradigma genetico.

Henri Rousseau, Giungla equatoriale, 1909, National Gallery of Art, Washington DC

Con l’affermarsi e il diffondersi di tecnologie e strumentazioni sempre più sofisticate, nonché di una più ampia considerazione del vivente alla luce dell’incrocio tra scienze naturali, umane e sociali, è andato così emergendo un panorama dell’universo vegetale ricco di nuove acquisizioni, fino al dilatarsi talvolta controverso di fisionomie e frontiere stesse del soggetto di indagine e con un focus particolare sul comportamento delle piante.
Una frontiera in movimento che la giornalista ambientale Zoë Schlanger si incarica ora di ripercorrere in prima persona nel suo Le mangiatrici di luce. Il mondo invisibile dell’intelligenza delle piante, Einaudi, pp. 313, € 19, dove, in diversi incontri sul campo, tra questioni poste in sequenze serrate, resoconti di esperimenti e interviste in laboratorio e in foresta, dà conto per un ampio pubblico di come in questi ultimi decenni botanici e biochimici, studiosi delle relazioni ecologiche, fisiologi vegetali, ma anche filosofi ed ecologi del comportamento, e perfino antropologi che si occupano della cultura dei ricercatori impegnati negli studi del comportamento vegetale, siano andati interrogandosi e discutendo, sub specie vegetale, di consapevolezza e conoscenza dell’altro da sé da parte delle piante, competenze linguistiche (per via di un articolato lessico di composti volatili) e forme di comunicazione (chimica, forse elettrica) anche inter specifiche, individualità, riconoscimento parentale, interiorità e memorizzazione, delle loro capacità di raccogliere e coordinare informazioni e derivarne risposte conseguenti, preferenziali; di come facciano ricorso a strategie quali mimetismo e mutualismo, fluidità sessuale, della flessibilità e pluralità delle loro relazioni.
Dagli esempi puntuali di una relazione particolarmente stretta con i suoni di una pianta della foresta pluviale sud est di Cuba che tramite un apposito petalo riflette ultrasuoni per indirizzare i pipistrelli verso il polline (salvo poi modificare l’angolazione dopo che il fiore lo ha scaricato); al caso della Nasa poissoniana, nelle Ande peruviane, capace di memorizzare gli intervalli di tempo tra le visite degli impollinatori e prevedere quando starà nuovamente per riceverne, così da operare scelte oculate; alle ragioni di comportamenti consociativi come quelli dei fiori di astro e verga d’oro, rispettivamente, porpora e giallo, che, crescendo vicini, amplificano, per ciascuno, le attenzioni ricevute dalle api, facendo della bellezza una forma di comunicazione; e, più in generale, ai mille modi di percepire mutamenti lievissimi dell’ambiente e ricavarne informazioni per agire differentemente a seconda dei contesti, tutto è un dialogo continuo di dinamiche anche interspecifiche del tutto impercettibili per noi che suggerisce forse un cambio di prospettiva capace di assumere in una prospettiva d’insieme le piante come organismi multidimensionali, in costante movimento, con i loro tempi e la loro mobilità limitata, ma capaci di diffondersi colonizzando tutti i continenti, sistemi adattativi complessi in continua interazione biologica con l’ambiente.
Dove una serie di riflessioni a cavallo tra la capacità delle piante di valutare le condizioni in cui si trovano e di cambiare per adattarvisi – la loro agentività e la plasticità estrema di quelle invasive –, le fluidità delle loro strategie riproduttive, il facile travalicare i confini interspecie, la socialità complessa che è della capacità delle radici di comportarsi come uno sciame, inducono nello sfumare dei confini ad adottare una molteplicità di punti di vista che consideri ogni organismo come un ecosistema in relazione al resto, avviandoci ad accogliere le piante nella nostra immaginazione etica, con il rilievo del diritto che, allargando la sua sfera a gruppi di nuovi soggetti, finisca per dotare anche loro di personalità, fin giuridica.

Zoë Schlanger, Le mangiatrici di luce. Il mondo invisibile dell’intelligenza delle piante, Einaudi, pp. 313, € 19, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 52 Supplemento de Il Manifesto del 19 gennaio 2025

La progettualità dell’incolto

Nel convergere di letture critiche intese a destrutturare la dicotomia che nel pensiero egemonico occidentale nettamente separa cultura e natura, colto e incolto, gli strumenti e le analisi dell’antropologia culturale giocano un ruolo rilevante proprio a partire da quest’ultima nozione grimaldello
Ben presente come dimensione di tramite e momento dialettico nelle società del Pacifico o dell’oltremare europeo, dove diverse l’hanno sacralizzato proteggendolo con norme e divieti, l’incolto come ci ricorda Adriano Favole, antropologo specialista dell’Oceania insulare, non funziona per opposizione: è spazio complementare, ad alta densità di vita e con un proprio potere generativo. Luogo di rifugio e riserva di cibo e risorse che “nei dintorni di quella organizzazione che chiamiamo cultura” si organizza diversamente e continuamente rinasce in un perdurante intreccio di destini, dove uomini, entità non umane, specie e fenomeni naturali appartengono a un medesimo ordine. Una natura di cui l’umano è parte (La vita selvatica. Storie di umani e non umani, Laterza, pp. 148, € 16).
La nozione di incolto – o selvatico, pur sempre ricavata per opposizione – torna perciò utile per ripensare il modello occidentale che a lungo ha visto l’essere umano imporsi su una natura pensata come altra da sé, governata da leggi meccanicistiche da piegare a proprio vantaggio e dove l’imposizione di sovranità sull’incolto, compresi i suoi abitanti non umani, è parte del processo di colonizzazione.

Ernesto Treccani, Siepe blu, anni 90

L’antropologia aiuta a tener nel conto anche quei casi in cui una relazione con l’ambiente fatta di interdipendenza e vulnerabilità, più che non di predazione e dominio, possa essere scelta e non subita. Dal doppio registro delle società eschimesi diversamente in relazione con l’incolto del clima, in estate e in inverno, al convivere nelle “società” complesse abitate da umani vegetali domestici piante spontanee, animali selvatici che sono i giardini di Futuna, in Polinesia occidentale, al concetto di incolto esteso anche ai mari laddove i diritti fondiari dilagano oltre la linea di costa, fino alla piattaforma corallina o fin dove il fondale sia ancora percepibile, agli svariati modi di abitare con l’incolto anche in città da parte dei kanak a Nouméa capoluogo della Nuova Caledonia.
Ma, così come per tante società non antropocentriche dove l’agricoltura risulta frutto della convivenza tra umani e non umani (magari da regolare tramite forme di magia agricola), così si suggerisce siano da rivedere tempi e forme del mito archeologico che associa la fondazione della società a una rivoluzione agricola che si diffuse invece soltanto con grande lentezza nel neolitico, convivendo per millenni con altre modalità di sostegno alimentare. Argomenta Favole: fu piuttosto “il passaggio da forme di convivenza con l’incolto – con o senza agricoltura – a cosmologie e forme di produzione che assolutizzarono il ruolo dell’essere umano nell’universo a creare le condizioni per uno sfruttamento senza fine dell’incolto …La creazione di un muro tra Natura e Cultura fa parte di questo processo” 51.
Se la funzione mediatrice dei boschi comunitari o il ricorso alla fecondità delle forze dell’ incolto con l’inclusione del maggese (anche da parte dei pescatori, nel mare) non è certo estranea nel passato delle società contadine occidentali, Nelle nostre società l’incolto è oggi piuttosto un residuo. Margine discontinuo, imprevisto, mal tollerato. Salvo accorgersi quanto i suoi paesaggi conservino anche qui tracce di ricchezza biologica – tra luoghi liminari e di scarto, siepi, bordure – creando vie dell’incolto, zone rifugio, beni comuni. Margini anche di diversità culturale e sociale.
Dipendenti (come siamo) in tutto dalla vita vegetale; e avvinti con i non umani in relazioni tanto pervasive quanto inavvertite, perlopiù in dimensione macro, dai sempre nuovi paesaggi determinati dal variare di temperature, confini di foreste e oceani o dall’attività di vulcani, al micro del nostro biota; sempre condizionati nel nostro rapporto con i luoghi, sotto il segno del paradigma estrattivista – dalla serie di ricadute a catena determinate attorno a competizioni come il commercio della noce moscata nel 600, all’uso massiccio di quell’incolto fossile formato da idrocarburi e gas che nel suo distribuirsi naturale vien modellando la geopolitica contemporanea – siamo pur sempre, tutt’ora, una società di raccolta.
Sulla scorta dell’incrocio di attenzioni come quella che Darwin dedicava al ruolo fondamentale dell’azione dei vermi sulla vita del suolo (e a cui dedica il suo ultimo libro prima della morte nel 1881) o riservata ai giardini di corallo di cui Malinowski evidenzia la funzione di innesco di costruzioni di biodiversità e culture, l’indicazione è a riconoscere nell’incolto un assemblaggio di progettualità altre. Implicando, con l’importanza del lato selvatico della cultura, un nuovo mondo di partecipazioni, somiglianze, relazioni.

Adriano Favole, La vita selvatica. Storie di umani e non umani, Laterza, pp. 148, € 16, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 50 Supplemento de Il Manifesto del 5 gennaio 2025

Jérôme Sueur, le sonorità della natura

Onnipresente e costitutivo di ecologie e paesaggi, il suono si confonde con l’ambiente senza cui non esisterebbe. Aria, acqua, piante, pietra… son loro che in realtà lo propagano. Trascorrendo nella dimensione di una temporalità evanescente, nasce da un movimento, da una deformazione dell’ambiente, con ciò rivelandone il cambiamento di stato.
A contraltare di un’attenzione al paesaggio sonoro, soundscape nella definizione anni 60 di Raymond Murray Schafer – l’insieme dei suoni che possono esser sentiti in un luogo e in un momento precisi –, dove, da musicista, la percezione e la lettura del mondo son preminentemente consegnati all’ascolto umano, e di un approccio alla storia del sensibile alla Alain Corbin dove componenti fondamentali come suono e silenzio in dialettica vengono presi in conto e interpretati nel loro contesto culturalmente determinato, Jérôme Sueur si concentra sulla dimensione sonora della natura. Interrogando le sue molteplici forme e interrelazioni, da naturalista ad ampio spettro e direttore del laboratorio di ecoacustica al Museo nazionale di storia naturale di Parigi (Storia naturale del silenzio, Nottetempo, pp. 247, € 18,90).
Dall’ascolto sensibile e analitico di una natura dove ogni specie e ogni individuo percepisce l’ambiente in funzione delle proprie capacità sensoriali, modalità di ricezione e emissione sonora, risulta una sorprendente varietà acustica, di segnali incidentali e intenzionali, di modulazioni, tempi, ritmi, sfumature, timbri.
Tante quante sono le funzioni comportamentali, sociali, ecologiche di suoni emessi, percepiti e interpretati, così molteplici sono i tipi di silenzio: di gruppo, di disciplina, amoroso, di battaglia e, specialmente, di sopravvivenza: motore di un’intera ecologia.

Felix Valloton, Il vento, 1910, National Gallery of Art, Washington DC

Tra i molteplici criteri per tentare di ordinare questo vasto assortimento acustico – proprietà fisiche, origine, mezzo di propagazione, funzioni –, congeniale è la classificazione di Bernie Krause che articola la sonosfera dei paesaggi naturali in tre grandi insiemi sulla base della natura delle loro fonti.
Di base, la componente della geofonia, l’insieme cioè dei suoni abiotici ma naturali, dallo scorrere delle acque di un ruscello alla risacca del mare, al fischio del vento rivelato dall’ostacolo di alberi e rocce, al sobbollire delle effusioni magmatiche, allo sfregare dei ghiacci in scivolata, che ha a lungo dominato – quasi 4 miliardi di anni – su una terra peraltro mai silenziosa; poi, in relazione a fasi alternate di aumenti e crisi della biodiversità sotto e sopra l’acqua, l’affermarsi della biofonia che riunisce tutti quelli di origine vegetale (gli schiocchi di chicchi di granoturco) e animale. Volta a volta colti come indicatori di sorveglianza e sopravvivenza o emessi come intenzionali, anche in forma di comunicazione intraspecifica – dalle stridulazioni degli insetti ai canti armonici delle balene –; con le mille forme della loro proiezione nell’ambiente, veicolate da specifiche anatomiche come dall’uso di oggetti esterni: “grilli che utilizzano foglie come diffusori, grillotalpe che scavano gallerie come cornetti acustici, rane che si siedono dentro tronchi vuoti e risonanti, pesci che brontolano all’interno di ostriche perlifere la cui conchiglia funge da amplificatore”.
Fino alla comparsa, durante il Quaternario dell’antropofonia degli esseri umani del genere Homo: con i loro spostamenti, voci, musiche utensili, tecniche, macchine. E con la prepotente invadenza di suoni – e il loro farsi rumore, semplificando suoni che disturbano segnali e informazioni – a distorcere il silenzio naturale (di biofonia e geofonia).

John Constable, Helmingham. The Silent Pool, c. 1800, Yale Center for British Art


Nel moltiplicarsi dei silenzi del vuoto, misura della recente, drastica riduzione delle biodiversità, la pervasiva, finanche negli ambienti acquatici, impronta sonora dell’uomo comporta enormi costi sociali e ha effetti deleteri per la complessiva salute ecologica che vanno ben oltre l’evidente – obbliga ad esempio gli uccelli, per esser sentiti, a cantare più forte o più a lungo.

Nel lungo termine, l’inquinamento acustico antropofonico altera le interazioni tra le specie e incide su funzioni ecologiche come l’impollinazione e lo sviluppo dei semi,
E poco ci rassicura il silenzio nuovo del sopraggiungere inaspettato nelle nostre strade dei taciturni motori delle automobili elettriche.

Jérôme Sueur, Storia naturale del silenzio, Nottetempo, pp. 247, € 18,90, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 48 Supplemento de Il Manifesto del 22 dicembre 2024

Nikolaï Doubovskoï, Silence, 1890, Musée réserve de Vladimir-Souzdal