Botticelli dei fiori. Un’interpretazione botanica della Primavera

Nel succedersi di letture e interpretazioni che dalla fine dell’Ottocento – con la nuova attenzione preraffaellita e poi lo scandaglio da parte di figure come Aby Warburg e Ernst Gombrich – investono la fortuna critica di Botticelli e in particolare della sua Primavera, un capitolo a sé è costituito dal primo tentativo di censimento e identificazione puntuale delle numerosissime specie floreali raffigurate con minuzia e disseminate nel dipinto con un protagonismo pressoché inedito. Per misurare poi, nel fitto sovrapporsi e intrecciarsi di associazioni e significati simbolici che spesso in quelle presenze vegetali si condensano, la distribuzione e il rilievo che giocano nell’evocare avvenimenti storici, idee, filosofie sottese.

Opportunamente contestualizzato nella più ampia vicenda storiografica da Lucia Tongiorgi Tomasi, viene ora proposto da Olschki il pionieristico volume pubblicato in inglese nel 1983 dalla storica dell’arte italoamericana Mirella Levi D’Ancona, La Primavera di Botticelli. Un’interpretazione botanica, pp. 93, € 20.00. Con le avvertenze che se la nuova attenzione per il mondo vegetale, anche nella sua dimensione medicinale o nella pittura – da Gentile da Fabriano all’Angelico, a Filippo Lippi – dev’essere ricondotta pure alla presenza fisica di giardini spesso anche a Firenze occasione di convegno per politici e diplomatici, umanisti e accademici, nella sua lettura occorre sempre comprendere la complessità di livelli e la pluralità di accezioni proprie dei significati simbolici floreali: in relazione a differenti contesti e fasi e rispetto a tipologia e intenti delle fonti.

Anche con riguardo al loro associarsi e alla posizione nel dipinto, Levi D’Ancora identifica quaranta tipi di piante, restituite con appositi schizzi numerati e quindi in un riepilogo dei significati per ciascuna, ripercorsi a corredo, o smentita, delle diverse fonti e interpretazioni dell’iconografia del dipinto.

Zefiro tra due alberi di alloro, diversi per grandezza, attributo forse di Lorenzo il Magnifico e del suo pupillo e cugino Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici

Tra i protagonisti, articolato in gruppi di figure sulla base delle Stanze per la Giostra di Angelo Poliziano e specialmente dei Fasti di Ovidio, Zefiro (tra due alberi di alloro, diversi per grandezza, attributo forse di Lorenzo il Magnifico e del suo pupillo e cugino Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, detto anche “il Lorenzo Minore”) che nella leggenda aggredisce la ninfa Cloris divenuta poi sua moglie come Flora, divinità che presiede il mondo vegetale. Al centro della scena, Venere, dea dell’amore e del rigenerarsi della vita, che nel richiamo religioso del gesto benedicente si volge a destra mentre sopra di lei si libra in volo suo figlio Cupido, e ancora, a sinistra, il gruppo delle Tre grazie impegnato in un’avvincente danza nuziale, seguito, a chiudere, dall’ultimo personaggio, Mercurio.

Questo, nell’interpretazione ripresa da Levi D’Ancona che ipotizza il dipinto concepito inizialmente, all’incirca nel 1476, per celebrare l’amore tra Giuliano dei Medici e Fioretta Gorini e modificato successivamente, con la raffigurazione di Mercurio e le Tre grazie al posto di un’allegoria del Giudizio di Paride (citato in una lettera di Marsilio Ficino all’astrologo Lorenzo Bonincontri), quando, dopo la morte di Giuliano ucciso nel 1478, nel corso della congiura dei Pazzi, venne completato come dono per il matrimonio del 1482 tra Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici e Semiramide Appiani. Tantoché l’autrice identifica Talia, la Grazia centrale cui Cupido, bendato, indirizza la sua freccia, come Semiramide: rivolta a Mercurio (Lorenzo), a sua volta con lo sguardo al cielo, a significare il trascorrere tra amore terrestre e contemplazione di Dio.

Un’altra lettera di Marsilio Ficino, questa volta del 18 ottobre 1481 a Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, illustra il significato delle Tre Grazie anche dal punto di vista astrologico, secondo cui le figure del lato sinistro dovevano rinviare al mese di maggio, data in cui era previsto il matrimonio Medici-Appiani. E molte delle piante raffigurate nella Primavera rivestono un significato particolare legato proprio al matrimonio, o ne richiamano, appunto, la data.

Cloris con fiori di rosa, anemone o fragola, fiordaliso e pervinca che le escono dalla bocca, come dai Fasti di Ovidio

Come nella lezione di Ovidio, dalla bocca di Cloris, che sposandosi si rinnoverà in Flora, escono rose di primavera; mentre Flora indossa una veste bianca ornata da garofani (fiore del matrimonio) e fiordalisi (attributo della sposa felice), rose (amore trionfante) e fragole (seduzione e piacere sensuale). E porta al collo una corona nuziale di pervinche (il vincolo del matrimonio), myosotis (il ricordo) e, a simboleggiare amore eterno, un fitto intreccio di fiori di melograno e foglie di mirto, secondo la credenza che le due piante – così raffigurate anche da Francesco del Cossa nel suo Giardino d’Amore, parte del Trionfo di Venere a Palazzo Schifanoia a Ferrara – si amassero talmente da non saper vivere separate.

Nell’analisi dei fiori come chiave di lettura della Primavera vale tanto il dettaglio – come la pianta di antirrino, detta anche lanterna della fanciulla utilizzata per l’iniziazione delle giovani donne ai misteri dell’amore, raffigurata sotto la centrale delle Tre Grazie – quanto, a dare il senso dell’ambientazione generale e richiamare il Giardino delle esperidi, la presenza dell’arancio, emblema mediceo e al tempo stesso pianta della sposa. Nonché il luogo-tema del prato fiorito, sul quale Levi D’Ancora si esercita nel dettaglio.

Se, come si ritiene, l’interesse di Botticelli per il simbolismo botanico sembra potersi ricondurre anche alla traduzione in italiano della Storia naturale di Plinio da parte di Cristoforo Landino, pubblicata nel 1476, è dalla combinazione di una serie di piante, in questo caso raffigurate sotto la Grazia di sinistra, – euforbia, giglio e antirrino – che Levi D’Ancora legge un messaggio diretto a chi guarda: “guarda attentamente, affina la mente, vedi la luce”.

Mirella Levi D’Ancona, La Primavera di Botticelli. Un’interpretazione botanica, introduzione di Lucia Tongiorgi Tomasi, pp. 93, € 20.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 11 Supplemento de Il Manifesto del 14 aprile 2024

Sandro Botticelli, Primavera, 1481 c., Galleria degli Uffizi, Firenze

Il giardino in scritture

Spazio reale o trasfigurato in proiezioni ideali, innesco narrativo o teatro d’iniziazioni, protagonista primo o aggregatore di caratteri e simbologie, volta a volta o in sintesi plurale, il giardino si fa largo nella sua proiezione in scrittura tra le pagine in florilegio di oltre cinquanta tra prosatori e poeti italiani convocati da Guido Davico Bonino nel suo volumetto ora riproposto per il Saggiatore La felicità è nel giardino (pp. 184, € 16,00). Impreziosito dal corredo di illustrazioni Art nouveau di iris, nasturzi e lillà ma anche glicini, ninfee e perfino zucchette decorative raccolte nel 1896 da Eugène Grasset nei suoi studi sulle applicazioni ornamentali delle piante, si tratta di una personale guida letteraria, come recita il sottotitolo, ad ampio spettro. Che include la trattatistica del Liber ruralium commodorum del giudice ghibellino Pier de Crescenzi che nella seconda metà del Duecento scrive sull’organizzazione di spazi, viste e funzioni dei giardini di re e d’altri nobili e ricchi, come la cronachistica del frate milanese Bonvesin de la Riva che equipara la Città celeste a un giardino pieno di colori e fioriture, senza turbamenti.

Xilografia dalla Hypnerotomachia Poliphili, o Combattimento amoroso di Polifilo in sogno, attribuito a Francesco Colonna

Nei diversi contesti culturali, giardino come paesaggio ideale, filiazione dell’Eden, dalla Genesi o nella variante dell’enciclopedista Fazio degli Uberti, in quella dell’Alighieri del ventottesimo canto del Purgatorio, ma anche per contrappunto nel giardino del Veglio della montagna descritto da Marco Polo. Poi, giardino come modello umanistico, snodo relazionale della “vita in villa”, utile, commoda, conveniente, come la codifica Leon Battista Alberti nel De re aedificatoria.

Tra descrizioni di giardini reali – in terra di Francia “i due orticelli adatti quant’altri mai al mio gusto” di un Petrarca che meticolosamente annota il suo diario botanico – e immaginari – quelle evocate da Boccaccio o esemplate per forme e modelli in quel catalogo di un giardino già rinascimentale che è il Sogno di Polifilo nell’edizione originale aldina del 1499 e attribuito a Francesco Colonna –, è invece un gioco di mutue rifrazioni a governare l’ingannevole continuum di pitture, giardino e viste sul giardino, raccontato da Vasari nelle Vite, riferendo della logge affrescate della Villa Farnesina.

Fitte le presenze vegetali evocate a costituire ecosistemi, quinte corali. Dal Giardino della viola dedicato a Isabella d’Este dal notaio bolognese Giovanni Sabadino degli Arienti, dove son “erbe olenti, mazorane [maggiorane], serpilli timi e salvie in pallidetta foglia … E da questo prato, passando in fra il mezzo delle murate banche, entrammo sotto un lungo pergolato voltato di vite con egregia arte, producente uve lugliatiche e moscatello: e dai lati sono rosari bianchi e rossi e osmarini e lavande delli cui fiori si fanno odorifere acque”. Al giardino di Careggi di Lorenzo de Medici, descritto da Alessandro Braccesi per come si presentava a inizio Cinquecento: dove assieme ai consueti protagonisti si registrano “pepe, garofano, basilico, nardo balsamico, mirra, loto, cicoria, cannella, cedro e la nobile canna profumata” . Mentre, tra allegoria e realistica descrizione da botanico dilettante, Manzoni scrive della vigna di Renzo come di una “marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, d’acetoselle …” .

Ippolito Pindemonte, Dissertazione sui giardini inglesi, 1817

Dalle pagine qui collezionate affiorano una serie di temi “giardineschi” come il rapporto con una natura reinventata, secondo la moda settecentesca del giardino paesaggistico all’inglese illustrato in Italia da Ippolito Pindemonte nella sua Dissertazione sui giardini inglesi , oppure la sensibilità al trascorrere continuo del giardino nel bosco – nelle memorie dello scrittore e patriota mazziniano Ippolito Nievo, e già in Sannazzaro che parla di una disposizione naturale degli alberi come se “maestra natura vi si fusse con sommo diletto studiata in formarli” . Ma anche la disputa sulla valenza produttiva o meno degli alberi, ed è il caso del napoletano Giambattista Marino nel suo Adone , oppure sul serrato convivere tra orti e giardini, come quando il granturco che straborda nelle aiuole più formali del giardinetto pensile che invece a immagine e similitudine del personaggio Franco, nel Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, con archi rivestiti dalle passiflore dai grandi occhi celesti, cerca di contemperare gli “ideali orticoli del povero custode”.

Fino poi a lasciar intravedere, nelle descrizioni di un racconto milanese di Giovanni Verga, la dimensione cittadina e sociale, di rappresentanza, del giardino pubblico che si afferma, dove, nel folto del verde cantano gli uccelli e “sotto, nel largo viale, la città arriva ancora col passo affaccendato di qualche viandante, col lento vagabondaggio di una coppia furtiva” .

Tra protagonismi vegetali nel gioco dei ruoli, se nella seconda metà del Settecento Gasparo Gozzi metteva in scena un dialogo morale tra garofani rose e viole, e Leopardi in un brano dello Zibaldone raffigurava il giardino come “quasi un vasto ospitale e se questi esseri [vegetali] sentono, o vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere ”, nel racconto di Pirandello, Di sera, un geranio, il protagonista, cui è stato diagnosticato un male incurabile, desidererà soltanto, farsi erba, vasca, giardino .

Guido Davico Bonino, La felicità è nel giardino. Una guida letteraria, il Saggiatore, pp. 184, € 16, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 9 Supplemento de Il Manifesto del 31 marzo 2024

Usi culturali dell’albero, nel mondo romano

Nel novero di un incombente, ancora stentato processo di ripensamento dell’attuale visione del vivente dove mondo umano e universo animale e vegetale risultano ordinati secondo tratti di irriducibili alterità, come ambiti distinti e non comunicanti, può tornar buono considerare l’eco pervasiva degli usi culturali che gli antichi han fatto dell’albero nei loro racconti, miti, riflessioni, metafore, forme lessicali. Nel segno di evidenziare – pur nel vivo delle diffuse pratiche di sfruttamento intensivo di boschi e risorse naturali secondo logiche di controllo politico di territori e commerci – i tratti di un’ideale relazione reciproca che si sviluppa lungo un asse di continuità. Relazione di prossimità tra uomini e alberi di cui, in prospettiva etnobotanica, Mario Lentano evidenzia il rilievo nel protagonismo che pioppi, fichi, mirti, palme e cipressi, prugni e noci, viti, querce, cornioli, … si ritrovano a giocare nella cultura greca e soprattutto in quella romana, ambito privilegiato della sua indagine. Nel volume «Vissero i boschi un dì». La vita culturale degli alberi nella Roma antica, Lentano indaga infatti, nei più diversi domini, dalle biografie alla religione, al diritto, alla medicina, una gran varietà di pratiche discorsive, funzioni narrative, inneschi simbolici, forme lessicali, specialmente nelle fonti letterarie, nella storiografia, nella trattatistica (Carocci editore, pp. 257, € 24,00).

Si vien così profilando in filigrana per il mondo romano una possibile antropologia dell’albero, a partire da alcune sue affordances, volta a volta caratteristiche biologiche e ragioni empiriche, suggestioni onomastiche o valenze simboliche, specialmente efficaci nei processi di significazione.

Villa di Livia, dettaglio

Se  la durata secolare del ciclo vitale di un albero, il suo proiettarsi a coprir d’ombra quel che lo circonda si prestano a rendere con immediatezza il progredire di successi di una città o di un impero, i modi della sua crescita, verso l’alto e in ampiezza, e il suo articolarsi per diramazioni successive risuonano tanto nel dispiegarsi in successione delle generazioni di un gruppo familiare, quanto come modello analogico inteso a figurare il progressivo determinarsi delle membra del bambino nel grembo materno.

Così, a partire da analogie funzionali o morfologiche, assonanze, usi linguistici (predicati come “vivere”, “essere in salute”, “invecchiare” attribuiti agli alberi) e le frequenti metafore vegetali nel campo della parentela, si riverberano nel nutrito lessico condiviso tra mondo umano e mondo vegetale. Come pure, nell’espediente narrativo del sogno, il ricorso a una metafora vegetale evidenzia il rilievo del compiersi di un processo, del divenire (piuttosto che, in quella animale, tesa a esprimere tratti della personalità).

A evidenziare la continuità tra vegetale e umano, oltre alle figurazioni del mito che, sotto il segno della metamorfosi leggono pioppi, cipressi, lauri derivare da esseri umani – da Mirra a Dafne, da Ciparisso alle sorelle di Fetonte –, specialmente donne, il filone dei racconti sugli alberi antropogonici e che nutrono l’umanità primitiva riconduce invece l’origine dei primi esseri umani a querce, frassini, ontani, allori, pini, progenitori vegetali che li avrebbero generati dal loro tronco, trasmettendo quasi in eredità una serie di tratti caratteristici.

Ciparisso, casa dei Vetii, Pompei

Numerose evidentemente risultano le piante coinvolte nella sfera del sacro, in un rapporto di triangolazione come elementi dell’identità distribuita degli Dei. Mentre alcuni alberi son chiamati ad amplificare o presagire la vicenda di loro illustri corrispettivi umani: doppi vegetali implicati in un fitto rimpallo di simboli e metafore: principi e poeti (la fioritura prodigiosa di un ramo d’alloro e l’altezza strabiliante del pioppo piantato alla nascita di Virgilio), gruppi sociali (le alterne vicende dei due mirti di fronte al tempio di Quirino a figurare destini di patrizi e plebei), dinastie (l’appassire di un boschetto di allori a rivelarne la fine imminente, il risollevarsi di un cipresso abbattuto, a dire delle incipienti fortune di un’altra) e persino un’intera comunità politica (a rischio, con il disseccarsi di un fico o corniolo legati alla vicenda del fondatore di Roma).

Paride sul monte ida, da Pompei, Museo archeologico, Napoli

Così, ripercorrendo tra analogie morfologico-funzionali e matrici di tipo genealogico, ruoli e funzioni assolte dagli alberi nel pensare il mondo dei romani, s’impone nel dibattito filosofico e scientifico il tema dello statuto da riconoscere ai vegetali fino a parlare anche per le piante di un’anima, come modulo iniziale di un processo per aggiunzioni progressive, comune a tutte le manifestazioni del vivente.

Nell’idea di un continuo trascorrere della materia tra le forme, uomini e vegetali son mondi separati non tanto da una differenza ontologica, quanto da passaggi tra confini porosi, tra elementi comuni che si caratterizzano per correlazioni biunivoche.

Pur tenendosi stretto alle categorie del mondo romano, e rifuggendo da presunti archetipi universali come pure da inattuali proiezioni, ben di qua del paradigma cartesiano, il mondo antico nella lettura di Lentano ci restituisce una particolare, opportuna, attenzione per un mondo naturale di cui siam parte in relazioni di prossimità diverse tra organismi viventi.

Mario Lentano, «Vissero i boschi un dì». La vita culturale degli alberi nella Roma antica, Carocci editore, pp. 257, € 24,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 7 Supplemento de Il Manifesto del 17 marzo 2024

Villa di Livia, dettaglio

Laura Pirovano, tra il verde e le ombre

Al centro dell’orchestrazione della vita nei giardini, la dialettica luce-ombra vien spesso letta per abbaglio o strabismo tutta a vantaggio della prima. Mentre l’approfondimento della conoscenza delle molte fisionomie di quell’ombra che è componente essenziale, specie per quelli mediterranei, fin dall’archetipo dell’oasi, e tantopiù in vista dell’incombente riscaldamento climatico, innesca una gran ricchezza di spunti di lettura e occasioni compositive.

Si può trattare, per scelta, dell’intento di dar ritmo a un giardino soleggiato con pause, zone di quiete, riposo, riflessione, cui di solito si associa la presenza dell’ombra, tramite il filtro del fogliame delle volte di alberi che si intrecciano, pergolati, percorsi ombrosi o, invece, di dover trovare soluzioni compositive al vincolo indotto da contesti oscuri. Dagli angoli più bui dei giardini di campagna agli ambienti urbani dove, come spesso accade, all’esposizione modesta si somma l’ombra portata dalla densità del costruito. Rivestendo magari, con cascate di piante, cupi cavedi o spazi comuni, affacci di verde dagli open space degli uffici, patio, terrazzi interni che si animano di colonnati d’edera: e ciò per il tramite delle suggestioni ispirate ai giardini boschivi, con le loro complesse stratificazioni di piante in comunità, diversificate per condizioni di luce via via ridotte. D’altro canto, non è a caso, che della radura che interrompe l’ombra fitta della foresta si è parlato come occasione di innesco dei primi giardini.

Ombra fredda, piena, profonda. Penombra, mezz’ombra, ombra portata, filtrata, aperta, leggera. Diverse per qualità, densità, spessore e trasparenze, son le gradazioni che la paesaggista Laura Pirovano ci avvia a intravedere, percepire, discernere nel suo repertorio di Giardini d’ombra, e a saperne trarre partito compositivo, ispirazione (Libreria della natura, pp. 414 con ricco corredo fotografico di piante e contesti, € 32). 

Ombre a macchie, sotto le volte di alberi dalle foglie rade, ombre lacunari, arcipelaghi d’ombra, ombre totali sotto chiome persistenti, ombre ai piedi di un muro o di una siepe, o in un cortile senza sole.

Ombre che però danno risalto, restituiscono tridimensionalità, creano profondità.
Ombre come criterio di classificazione del tipo di piante. In particolare quelle che han finito per tollerare e perfino prediligere questa condizione. Ombrivaghe o sciafile, amanti dell’ombra e dell’umidità, hanno sviluppato foglie larghe, tondeggianti, appiattite, intensamente verdi, di molte tonalità di verde. Con forme articolate, perfino traforate, in certi casi riflettenti, per catturare e far passare tutta la poca luce disponibile. Con fioriture ridotte e la predilezione per le variegature.

Henri Le Sidaner, Le jardin blanc au crépuscule, 1912

Con la sapienza di queste alleate, in un giardino d’ombra occorrerà perciò accentuare il ritmo screziato dei pochi giochi di luce, orchestrando le variazioni tra forme, portamenti e architetture, e dimensioni, trame, tessiture del fogliame, moderando contrasti eccessivi, giocando sulla variegature, specie quelle color crema o argento, e procedendo per giustapposizioni cromatiche di colori chiari e delicati, in combinazioni assortite di begonia evansiana e persicarie, sassifraghe, anemoni, ajughe e farfugium.

Sullo sfondo di uno scenario di transizioni sempre scandite dal variar delle ombre, delle loro diverse temporalità, nel corso della giornata e dell’anno, e dalla costante proiezione in filigrana del loro alternarsi a passo di danza con la luce. In una risonanza così mirabilmente racchiusa nell’espressione giapponese komorebi, letteralmente “luce che filtra tra gli alberi” che fin dall’ultimo film di Wim Wenders pervade il trascorrere delle cose evocando la lezione della complementarità e dell’impermanenza, della costante mutevolezza, così cara ai giardini (in specie, quelli dell’ombra).

Laura Pirovano, Giardini d’ombra, Libreria della natura, pp. 414, € 32, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 5, Supplemento de Il Manifesto del 3 marzo 2024

Terra-giardino-Grande Madre. Il giro del mondo in giardino

Sempre al traverso, come gli è congegnale, tra analisi filologiche e affondi combinati di storia delle religioni e delle idee, mitologia, storia sociale e antropologia, il filosofo Massimo Venturi Ferriolo – già docente di estetica al Politecnico di Milano e grande maestro della riflessione sul tema del giardino – torna in questa raccolta Giardino & paesaggi. Scripta minora, sui suoi temi con alcuni inediti e nuove messe a punto (Librìa editore, pp. 185, € 16.00).

Oltre a insistere sulla valenza pedagogica del rapporto stretto tra paesaggio e narrazione, viaggio e conoscenza, con riferimento alle metodologie itineranti di indagine dei luoghi messe a punto nel quadro delle molte edizioni del Premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino, capaci di ripercorrere i lasciti della memoria attualizzati però in un’etica del progetto contemporaneo che si misura in un accorto governo dei luoghi, Venturi Ferriolo torna qui a inseguire con nuovi elementi e lenti aggiornate le figure dell’equivalenza terra-giardino-Grande Madre-Maria.

Roberto Burle Marx, Mineral roof garden, Banco Safra Headquarters, 1983, São Paulo

Con uno sguardo lungo che rifacendosi all’antichissima comunione mediterranea tra mondo divino, animale e vegetale, e recuperandone anche gli strumenti di salvaguardia dei paesaggi e dell’ambiente, risale all’oggi approfondendo l’urgenza di una filosofia interculturale di paesaggio aperta al multinaturalismo e alle molteplici visioni della natura presenti nelle diverse cosmologie.

Se i paesaggi sono animati da margini e conflitti che li segnano – margini in relazione, piuttosto che identità – il giardino, da quello informale inglese del 700 che si apre agli esotismi, a quello, luogo d’incontro di rappresentanze botaniche universali nella lezione fondata sulla natura del novecentesco maestro modernista brasiliano Roberto Burle Marx, costituiscono un giro del mondo in uno spazio ristretto, che accoglie, visioni del mondo, rappresentazioni espresse in un linguaggio vegetale estetico.

Massimo Venturi Ferriolo, Giardino & paesaggi. Scripta minora, Librìa editore, pp. 185, € 16.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 5, Supplemento de Il Manifesto del 18 febbraio 2024

L’orchestra nascosta della natura

Singing Trees Nadine Schütz_2022_4_©Nadine Schütz, ADAGP Paris_© photo Johannes Berger_Sonic Topologies

Intervista a Nadine Schütz, artista del suono e paesaggista a cura di Andrea Di Salvo pubblicata su Il Manifesto del 18 febbraio 2024 in occasione delle Giornate internazionali di studio sul paesaggio organizzate dalla Fondazione Benetton studi e ricerche: Soundscapes. L’esperienza del silenzio e del suono nel paesaggio (Treviso, 22-23 febbraio 2024)

Assieme alla considerazione sempre maggiore riservata a una dimensione corporale del paesaggio che, oltre il “visuale”, si dilata in percezione e commistione polisensoriale, e dopo la lunga incubazione dei soundscape studies e relative analisi critiche, s’impone una complessiva riflessione sulla dimensione sonora dei paesaggi.

Merito del tema messo a sistema dalle Giornate internazionali di studio sul paesaggio che si terranno a Treviso oggi e domani presso la Fondazione Benetton, orchestrate da Luigi Latini, docente di Architettura del paesaggio allo Iuav di Venezia, e di Simonetta Zanon, rispettivamente presidente e responsabile ricerche e progetti della Fondazione

Sotto l’ombrello di un titolo ricco di echi e implicazioni, Soundscapes. L’esperienza del silenzio e del suono nel paesaggio, si annunciano interventi (che si possono anche seguire on line) sul dibattito relativo alle estensioni del concetto di paesaggio nelle diverse variabili del sonoro, dai silenzi geografici a suoni e rumori della foresta, dalle isole di quiete restituite alle città al variare di gradiente di un margine rurale da attraversare in ascolto.

Alla luce di un interesse nuovo nei confronti della dimensione uditiva, l’attenzione è sui diversi, molteplici protagonismi nell’uso di codici sonori nell’esplorare e connettersi con l’ambiente, sulle valenze del silenzio tra suono e parola, sulla difesa degli ecosistemi dall’inquinamento acustico e il ruolo dell’ecoacustica nell’ecologia della conservazione del paesaggio sonoro.

Nell’incrocio di temi e prospettive – dall’ecologia del paesaggio alla letteratura, dall’architettura, al cinema, all’arte dei giardini – si affaccia il fondamentale contributo creativo e di riflessione teorica portato da esempi diversi di installazioni, performance e progetti acustici. Tra arte, scienza, progetto e divulgazione, dagli interventi di arte sonora site-specific nel Parco di Scania all’indagine dell’intersezione tra pratiche del giardinaggio e della creazione musicale, ai giardini sonori di Nadine Schütz.

Cultivating Sound_Nadine Schütz_Fieldwork Shisendo Kyoto_2015_© photo Kyoto Institute of Technology

Intervista a Nadine Schütz

Nel segno dell’approccio interdisciplinare, ormai una consuetudine per le annuali Giornate internazionali di studio sul paesaggio, oggi e domani a Treviso, presso la Fondazione Benetton studi e ricerche, convergono alla ribalta della ventesima edizione, in questa occasione intitolate a Soundscapes. L’esperienza del silenzio e del suono nel paesaggio, specialisti del campo, progettisti e ricercatori dalle competenze più diverse – ecologia, geografia, biologia, architettura del paesaggio, urbanistica. Ma anche artisti del suono e compositori.

Tra i protagonisti a confronto, interroghiamo Nadine Schütz, artista del suono di origine svizzera ed esperta di acustica del paesaggio, con base a Parigi, autrice di molte opere integrate in progetti architettonici, paesaggistici, urbani, nonché di ambienti acustici, installazioni temporanee, performances, scenografie e inneschi sonori progettati per musei, mostre e giardini. Modalità diverse attraverso cui esplora la dimensione sonora del nostro esser parte del paesaggio, distillandone strumenti di analisi e di intervento per confrontarsi con urgenti criticità ambientali.

Come lei sostiene, siamo perlopiù adusi a una lettura privilegiata, quando non a senso unico, di paesaggi e giardini attraverso lo sguardo. Una lettura che, pur nella sua presunzione d’insieme, resta comunque lineare, sequenziale. Mentre sottostimiamo quanto la dimensione acustica ci ponga invece in una interrelazione totalizzante, immersiva, con gli ambienti che abitiamo assieme con le altre voci del vivente. Cosa ci dice, in più, nella sua esperienza di progettazione del paesaggio e di intervento artistico, l’attenzione al sonoro che lei sollecita e che è al centro delle riflessioni delle giornate del paesaggio?Nei luoghi soliti della nostra esperienza quotidiana, come in quelli dell’arte?

La dimensione sonora dei paesaggi si rivela innanzitutto a livello dell’ascolto. Un ascolto che va oltre la semplice capacità fisiologica umana di ricevere e classificare le onde sonore. L’ascolto implica un atto empatico, un’attenzione verso gli altri, siano essi i nostri vicini o esseri viventi non umani o, ancora, quelle dinamiche naturali geologiche e atmosferiche che tendono a sfuggire al nostro senso del vivente. La particolarità della percezione sonora è in questo senso il suo carattere presenziale. Il paesaggio risuona qui e ora, in uno spazio-tempo condiviso e concreto. E per quanto noi sentiamo il canto di un merlo o il gorgoglio di un piccolo ruscello, sentiamo anche un suono tonale, melodico e articolato che scompare, appare e si muove con il passare delle ore, oppure un suono più rumoroso e continuo la cui presenza varia su orizzonti temporali molto più estesi, quello delle stagioni meteorologiche e degli anni climatici.

È a questa consapevolezza di condivisione spaziale e temporale obbligata che mi appello, ma anche a un’altra nozione di tempo, più complessa, quasi rinaturalizzata, che dà voce a cicli celesti e terrestri, meteorologici e organici. Allo stesso modo, l’ascolto del paesaggio ci porta a una nozione molto eterogenea di spazio, o meglio di spazialità. Il risultato non è soltanto una maggiore consapevolezza della diversità percettiva, ma anche un’intelligenza sensibile (naturale) che potrebbe aiutarci a condividere uno spazio limitato.

Penso che si tratti di aspetti strettamente legati al quotidiano, ma anche in grado di offrirci scoperte poetiche all’interno dei nostri luoghi abituali. I luoghi dedicati all’arte possono offrire un campo di sperimentazione allargato, ma l’arte può anche essere un modo per ancorare queste sensibilità nell’ambiente quotidiano.

Singing Trees_Nadine Schütz_2022_5_©Nadine Schütz, ADAGP Paris_© photo Johannes Berger_Sonic Topologies

Nei suoi progetti lei utilizza spesso tracce sonore, che sono esito dei luoghi ed espressione dei contesti dove si producono e vengono raccolti, come il vento, il sole o la pioggia, ma anche il passaggio di un treno, per restituirli in partitura così che divengano una forma musicale. Quale è la relazione tra la loro reale vita autonoma (i paesaggi che “involontariamente” ci additano) e la percezione che nei suoi progetti si innesca, magari con l’effetto di identificare, o creare luoghi inediti?

Nella mia tesi di dottorato Cultivating Sound – The Acoustic Dimension of Landscape Architecture (Coltivare il suono – La dimensione acustica dell’architettura del paesaggio), presentata al Politecnico di Zurigo nel 2017, ho esplorato l’idea che l’acustica sia una dimensione inerente elementi fisici del paesaggio che siamo abituati a modellare (topografia, vegetali, acque, ambienti). Accostando l’esplorazione acustica di questi elementi alle mie osservazioni sulla percezione del suono ambientale, ho potuto evidenziare il legame diretto tra sonorità e materialità. Mi sono anche resa conto di quanto la questione della generazione o della produzione del suono venga trascurata nei comuni approcci acustici architettonici e ambientali messi in atto nell’ambito della valorizzazione delle nostre città e dei nostri paesaggi. Da qui è nato un approccio ambientale che potremmo definire “strumentale”, presente in diversi miei progetti recenti.

In questo senso, le mie creazioni non riguardano tanto la partitura quanto il dispositivo musicale o sonoro. Come possiamo rivelare, trasmettere, tradurre o trasporre le molteplici voci del paesaggio senza al tempo stesso strumentalizzarle, ma piuttosto creando un dispositivo, un’interfaccia che permetta loro di farsi sentire, diventando esse stesse musiciste? Voglio creare esperienze in cui queste voci e sonorità del paesaggio diventino agenti. Allo stesso modo, invito il pubblico, le ascoltatrici, gli utilizzatori a diventare essi stessi coltivatori e coltivatrici del loro paesaggio sonoro, e non più semplicemente a subirlo, ma a entrare in dialogo attraverso un ascolto attivo, a remixarlo attraverso i loro corpi e movimenti, e a diventare parte di esso attraverso dispositivi sonori interattivi.

Il suo lavoro mira a rendere evidente il ruolo del suono in quanto dimensione centrale, intrinseca del paesaggio inteso come esperienza sensoriale immersiva e interattiva. Mira a rivelare le molte articolazioni di un suono spesso ridotto invece in modo binario a rumore o alla sua assenza, in una indicazione riduttiva di silenzio. Per questo, lei sembra proporre un nuovo lessico del paesaggio sonoro. Può farci qualche esempio di come risuona questo vocabolario?

Prendiamo la nozione di spazialità sonora, che preferisco a quella di spazio. Questa spazialità è ben lontana dall’essere un semplice contenitore. È una qualità percettiva a sé e un’impressione relazionale complessa. Riunisce i diversi domini dello spazio uditivo: sonotopico (sentire un suono vicino o lontano, dalla nostra sinistra o dalla nostra destra), spettro-temporale (percepire una distanza tra due suoni a causa della loro diversa composizione di frequenza e dinamica) e intersensoriale (sentire un effetto di raffreddamento quando si sente il fruscio delle erbe nel vento). In pratica, tenere conto di questa eterogeneità spaziale caratteristica del paesaggio sonoro ci permette di concepire lo spazio in modo più efficace. Considerando la differenza qualitativa come alternativa alla distanza metrica, ad esempio, aumentiamo lo spazio per una potenziale coesistenza, anche in ambienti urbani densi. La separazione spaziale ad opera di strutture fisiche lascerebbe così il posto a una differenziazione sonora, un approccio che probabilmente corrisponde meglio alla natura relazionale dello spazio pubblico e che chiamerei orchestrazione.

Un secondo esempio di vocabolario che gioca un ruolo centrale nelle mie ricerche è la nozione di vivacità. Le sottili interazioni di suoni che appaiono qua e là, vicino e lontano, trasmettono una doppia voce al nostro ambiente: una composizione dinamica di esistenze sonore multiple e singolari, che animano e rivelano collettivamente una distesa fisica con caratteristiche acustiche particolari e interconnesse. Se il paesaggio è sonoro, la natura è correlata a una presenza vivente, che potrebbe condurci a una comprensione più sfumata del silenzio dei nostri desideri come coscienza uditiva e relazionale, la consapevolezza e il coinvolgimento nella vita che ci circonda

Giornate internazionali di studio sul paesaggio 2023 organizzate dalla  Fondazione Benettonstudi e ricerche, ventesima edizione: Soundscapes. L’esperienza del silenzio e del suono nel paesaggio, giovedì 22 e venerdì 23 febbraio 2024, Auditorium spazi Bomben, via Cornarotta 7, Treviso e online
Intervista a Nadine Schütz a cura di Andrea Di Salvo su Il Manifesto del 18 febbraio 2024

Singing Trees_Nadine Schütz_2022_2_©Nadine Schütz, ADAGP Paris_© photo Johannes Berger_Sonic Topologies

L’antropocene paesaggistico d’Europa

Muovendosi a cavallo tra storia naturale e ambientale, ma con l’ambizione di integrare questi due approcci pur nelle relative, irriducibili specificità, la storia ecologica, ricompone le tracce delle fisionomie e dei processi di trasformazione dei paesaggi – comprese quelle impresse nei secoli dall’impronta dell’uomo – attraverso una pluralità di dimensioni spaziali e scale temporali.

Dai tempi geologici, lunghi o lunghissimi della tettonica alle variazioni dei cicli glaciali e interglaciali, fino a quelli più rapidi, biologici ed ecologici. Con un’attenzione in particolare alle interdipendenze tra diversi sistemi ambientali.

Difficile dunque il tentativo di catturare tali protagonismi in divenire, fluidi e che si configurano diversamente a seconda degli sguardi disciplinari con i quali li si intende. Tantopiù se si ritaglia come soggetto, seppur convenzionale, un continente.

Ed è quanto Emilio Padoa-Schioppa si propone nel suo La Storia ecologica d’Europa. Un continente nell’Antropocene, dove disarticola e riordina per ripercorrerle in caleidoscopio il contrappunto di visuali d’insieme e peculiarità che la compongono (Il Mulino, pp. 230, € 22,00).

Volta a volta leggibili in dimensione geografica, o in quella politica di insediamenti, ordinamenti e Stati, nella lettura geologica della divisione in placche, in quella delle carte bioclimatiche, e altrimenti nelle proiezioni di lingue, usi, culture. Da seguire fin anche nei segni tracciati in proiezione su altri continenti, fuor dall’Europa, con espansioni, invasioni di suoi popoli, morali, interessi. Ciascuna con cartografie di forme diverse e dai confini spesso sfocati (specialmente quelli orientali e meridionali), per un’Europa di cui raccontare la storia ecologica attraverso contesti e protagonisti. E quindi montagne, acque, foreste, isole, pianure, da un lato e gli organismi – come piante, animali e, buon ultimi, gli uomini – per il loro ruolo nel costruire e modificare i paesaggi, concorrendo alle dinamiche dei luoghi.

Ferrovia del Moncenisio, «Fell», piana San Nicolao

Mentre si sofferma su alcune peculiarità della storia naturale europea – in termini di specie, endemismi, eventi specifici, paesaggi particolari – poste in relazione alla scansione di grandi snodi correlati – estinzioni dei grandi mammiferi, avvento di agricoltura e domesticazione, globalizzazione economica e omogeneizzazione ecologica con l’apertura al nuovo mondo, accelerazioni, almeno quelle della rivoluzione industriale e del XX secolo – Padoa-Schioppa si concentra in particolare sul tempo recente degli ultimi 10.000 anni, quindi sull’interrelazione stretta tra fattori naturali e agire dell’uomo. Testimoniando nella sua analisi, come, con tutte le evoluzioni di significato del primo termine e la pluralità di accezioni del secondo, l’ecologia del paesaggio proceda nel suo trasformarsi da scienza descrittiva in direzione e dimensione quantitativa e predittiva.

In un intersecarsi di variabili e approcci, dall’influenza del clima nell’indirizzar paesaggi, faune e flore, all’impronta umana legata a una agricoltura che modifica habitat e suoli, altera cicli biogeochimici, modellando società, si trascorre alla zoogeomorfologia che studia i modi in cui gli animali posson cambiare i paesaggi, nonché al ruolo che nell’immaginario collettivo essi svolgono per come contribuiscono a dargli forma, e all’”inquietudine migratoria” che caratterizza noi umani, con i suoi derivati, l’iperurbanizzazione e le nuove sfide ecologiche connesse, i paesaggi dell’energia così dirimenti in questa fase di transizione.

E se si evidenzia così da un lato come in buona misura è a partire dalle grandi, più recenti trasformazioni, avvenute proprio in Europa, che ci stiamo inoltrando nell’Antropocene, la buona nuova e che, essendo perlopiù umana la responsabilità della crisi ambientale dovrebbe esser possibile se non invertir direzione, almeno variare, e, talvolta, astenersi.

Emilio Padoa-Schioppa, La Storia ecologica d’Europa. Un continente nell’Antropocene, Il Mulino, pp. 230, € 22,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 5, Supplemento de Il Manifesto del 4 febbraio 2024

Caspar Wolf, Lauteraar, 1776

Le molte alleanze, tra umani e popolo delle piante. Via psicoattivi

Informatico, poeta, etnobotanico, oltreché gran conoscitore di piante e droghe psicoattive, nonché sperimentatore su di sé dei loro effetti, che così ci descrive in prima persona, Dale Pendell, si è mosso per anni a cavallo tra ricerca scientifica su fisiologia e poteri venefici delle piante – tutte le sostanze derivate da quelle che lui descrive agiscono sul corpo umano come droghe, quindi come veleni –, e la prassi dei loro usi storici e culturali, dallo sciamanesimo alla creazione artistica, per via di mitologie, condivisioni con demoni, poi dall’antropologia all’erboristeria, dall’etnobotanica all’etnofarmacologia fino alle neuroscienze. Indagando in particolare l’intersecarsi tra composti psicoattivi derivati da quelle distillatrici esperte di sostanze chimiche che sono le piante, e, oltreché insetti e uccelli, tra gli animali, specialmente gli umani. Una relazione, quella tra umani e popolo delle piante, che esiste in ogni parte del mondo sin dall’antichità, dalle “felci frattali” alle “rose algoritmiche”, di cui evidenzia le forme e la dimensione di alleanza, in particolare con le piante maestre, nonché il riconoscimento a esse di uno statuto di soggetto.

Tabac, da Jean-Jacques Grandville, Les fleurs animèes, 1847

Dopo la traduzione in italiano del primo e del terzo volume della serie Pharmako, rispettivamente dedicati a Poeia Veleni e arti erboristiche e a Gnosis, su allucinogeni e piante visionarie come ipomea, funghi psilocibina, peyote, Mimosa hostilis, la trilogia di Pendell si completa ora con Pharmako/Dynamys.Piante eccitanti, pozioni e la via venefica, traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli, (ed. or. 2002), add editore, pp. 307, € 25,00.

Empathogenica, come noce moscata, MDMA, Ecstasy, GHB, ma soprattutto Excitantia – caffè, tè e cacao, collocate nel loro contesto storico, per come quasi contemporaneamente arrivarono in Europa verso la fine del 600, con al seguito zucchero per addolcirle e un Voltaire che Pendel definisce “il quintessenza dello sciamano del caffè”, nonché poi in relazione con l’affermarsi dell’industrializzazione – ma anche mate, Cola nitida, betel, canapa gialla, khat, Erythroxylum coca.

Diagramma delle Classi di Pharmako

Come in un’assortita guida di riferimento si susseguono e intersecano indicazioni botaniche e di proprietà terapeutiche, tassonomie e informazioni pratiche (la parte usata della pianta, il modo di assumerla e le descrizioni degli effetti, composizione chimica della sostanza che ne deriva, indicazioni farmacologiche), ma anche note etnobotaniche, citazioni bibliche, letterarie, ragionamenti su Questioni di stato e libertà, dipendenze, implicazioni storiche, effetti sociali dell’uso degli psicoattivi.

Ad ogni pagina, un catalogo di poesie, citazioni, illustrazioni, che vanno da Goethe a Edgar Allan Poe, al poeta amerindio Tlaltecatzin, da Bruegel a Dürer a Max Ernst, passando per foto etnografiche, diagrammi chimici, maschere rituali, poster, tappeti. Continuamente ci si perde e ritrova in una selva di corrispondenze, liste, classificazioni magiche e formule divinatorie, racconti di sperimentazioni personali, illusioni, saperi indigeni, incontri con piante maestre, persone-albero.

Se l’editore raccomanda di contestualizzare conclusioni e affermazioni alla personale visione del mondo dell’autore, che per parte sua avverte il lettore della struttura “tridimensionale e olografica” del testo, di certo, Pendell, consapevole che “i libri stessi sono veleni”, nel suo stile evocativo che procede tra virtuosistica erudizione e scrupolosa, autoironica pratica alchemica, scienza, folklore e poesia, tenta a ogni passo di incorporare la dimensione della coscienza nell’approccio della tradizione scientifica.

Jean-Jacques Grandville, Les fleurs animèes, 1847 (tavola di correzioni: Erratum)

Nella costruzione del testo, in interlocuzione serrata con quella dell’autore si intromette – segnalata in corsivo – la voce della pianta-farmaco: l’Alleata. Se voci diverse evocano molteplici letture e livelli di analisi dell’opera, alla maniera di una sorta di alchimista, sciamano e poeta, oltreché ricercatore, Pendell consulta qui e fa parlare piante e sostanze alteranti in quanto alleate. Affermando come con le loro molteplici abilità trasformative, insite nella natura ambivalente dell’esser pharmakon, rimedio e veleno assieme, costoro risultino perciò interlocutrici a pieno diritto in un dialogo aperto tra diverse soggettività.

Dale Pendell, Pharmako/Dynamys.Piante eccitanti, pozioni e la via venefica, traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli, (ed. or. 2002), add editore, pp. 307, € 25,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 3, Supplemento de Il Manifesto del 21 gennaio 2024

I meccanismi del giardinaggio e la scienza

Dall’attenzione alle variabili del microclima che la coltivazione accorta di ogni giardino impone, a quella per la vita del suolo che lì calpestiamo – un ecosistema dinamico di microrganismi, funghi e batteri –, fino alla consapevolezza delle fisionomie botaniche delle piante che decidiamo di trapiantarvi – e quindi dell’habitat di provenienza di cui occorre tener conto –, la lezione del giardinaggio comporta un continuo sguardo interrogativo che dalla relazione quotidiana con la vita vegetale si dilata alla conoscenza dei meccanismi sottesi al dispiegarsi del vivente in quest’artefatto dove tentiamo di orchestrarli al passo della nostra immaginazione.

Con spirito pratico e il piglio dissacrante della divulgazione di tradizione anglosassone, Stuart Farrimond, ci conduce a indagare come La scienza del giardinaggio rivesta un grande ruolo in ogni piega delle sue attività (Dorling Kindersley-Gribaudo, pp. 224, € 26,90).

Mr Digwell’Gardening Book, anni Cinquanta

Dalla fisiologia vegetale al suolo osservato in relazione alla sua struttura, acidità, dalla fotosintesi al programma del seme e ai suoi fattori di sopravvivenza, vengono via via ripercorsi i meccanismi sottesi: cicli della dormienza (proteine che bloccano la crescita, endodormienza), con un controllo di sicurezza che evita loro di ripartire troppo presto, capacità meristematica di riprodursi per via vegetativa (a prescindere dalla via dei semi) da cui la passione dei giardinieri per le talee, ragioni della diversità della scelta dei colori dei fiori in relazione ai diversi impollinatori con cui le piante son coevolute, quelle del fenomeno dell’alternanza di produzione dei fruttiferi tra annate molto produttive e raccolti scarsi, il meccanismo che consente alle piante che fioriscono soltanto a maturità, dopo molti anni di vita, di calcolare il passare delle stagioni necessarie. E così, a seguire.

A corredo, i protagonisti della chimica, l’acido abscissico rilasciato dalle radici come segnale che il terreno è troppo secco o la capacità delle piante rustiche di affrontare il freddo intenso trasformando l’amido immagazzinato in zuccheri e producendo proteine antigelo (ragione per cui alcune verdure con il gelo hanno un sapore più intenso).

In un contesto dove sempre più vengono rilevate le forme di intelligenza di piante in grado di percepire l’ambiente, svolgere compiti complessi, comunicare, nonché i ruoli sociali e civili assolti dal giardino – dai suoi effetti terapeutici al rilievo della presenza del verde molecolare nelle aree urbane, con i noti vantaggi di assorbimento di inquinanti nell’aria, riduzione delle isole di calore, raccolta e rallentamento del deflusso delle acque delle precipitazioni estreme, costituzione di corridoi verdi come rifugio di vita animale e vegetale, piccole galassie, dagli insetti agli uccelli, organismi del suolo aperto – è proprio nel giardino che in dimensione di pratica immediata vanno affermandosi una serie di idee e sperimentazioni – anche estetiche. Che prospettando un cambio di mentalità e l’assunzione di pratiche e saperi volti a cooperare con la natura, comprendono il ritmo delle successioni naturali e si ispirano alle associazioni tra specie in natura, le consociazioni, tendono all’autosufficienza, alla conservazione e al riuso, ispirati alla circolarità.

Consentendo all’irrinunciabilità dell’uso della nomenclatura latina, Stuart Farrimond dispensa consigli ragionati su tagliare o meno i fiori appassiti, dare il giusto peso alle piante autoctone – definizione certo non univoca – pure meglio sincronizzate con il clima e l’entomofauna locale, valutarne opportunità e modi della potatura a partire dall’illustrazione dei meccanismi che vengono così indotti. E, sempre scientificamente, vengono sfatate una serie di leggende del giardinaggio, dal fatto che i frammenti di coccio alla base delle piante favoriscano davvero da soli il drenaggio senza calcolare la tensione superficiale dell’acqua che la fa aderire ai pori del substrato, o di quanto l’aria risulti depurata dalle piante negli appartamenti, a meno che non ne ospitiate alcune centinaia. Mentre certo, il diffuso vezzo di parlare con loro, visti gli alti livelli di anidride carbonica emessi dal respiro umano potrebbe, oltreché rassicurarci, esser affatto gradito …per la loro fotosintesi.

Stuart Farrimond, La scienza del giardinaggio, Dorling Kindersley-Gribaudo, pp. 224, € 26,90, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 1, Supplemento de Il Manifesto del 7 gennaio 2024

Dar voce alle pietre

In un contesto di piena crisi ecologica, dominato ormai da preoccupazioni, ansie climatiche, sensi di colpa ambientali, nostalgie per ecosistemi a rischio o già scomparsi, si afferma seppur per barlumi la consapevolezza di dover ripensare forme e categorie interpretative dei modi in cui condividiamo il pianeta con molti soggetti non-umani, altre specie di viventi, ma anche entità litiche, acquatiche, atmosferiche.

Riprendendo il titolo di un breve testo dove Italo Calvino dà voce a una roccia che in soggettiva restituisce il suo punto di vista sul mondo, Federico Luisetti, nel solco degli studi post umanistici, proprio a partire dalla soggettività litica prende in conto il campo relazionale dove gli esseri umani si definiscono attraverso il loro rapporto con il mondo non umano. Una ecologia della vita che mette in crisi la distinzione tra quella organica e l’esistenza inorganica (Essere pietra. Ecologia di un mondo minerale, Wetlands, pp. 112, € 16, 00).

Una visione della natura dove presenze naturali come montagne, fiumi e foreste vengono sussunte nel concetto antropologico degli esseri-terra. Soggetti politicamente rilevanti, con capacità di agire, esistenze multiple dai tratti compositi, risultanti della sfera naturale come pure catalizzatori di mitografie e rituali, simbolici e politici, entità non umane da considerare – assieme alla natura composta degli altri esseri viventi, animali, piante, funghi – soggetti ecopolitici. Montagne e ghiacciai, parte del mondo abiotico, ma anche corpi geologici, massi erratici, concrezioni sferiche di arenaria, pietre sacre, sassi modellati da fiumi.

Dalle pietre scheggiate del paleolitico – che secondo l’archeologia cognitiva di Lambros Malafouris, nel rapporto stretto mano-pietra della fabbricazione degli strumenti litici hanno strutturato la percezione e il pensiero umano per modificar l’ambiente – ai lapidari, dalle rocce sacre che fin dal neolitico accompagnano la vita quotidiana e alimentano connessioni simboliche e pratiche cerimoniali alla più recente Land art, l’universo litico, con il suo persistere oltre la misura dell’umano ha da sempre significato anche nell’ambito della cultura occidentale (e ben altrimenti in Oriente) una imprescindibile alterità. Passando per miti di creazione, sistemi cosmologici e leggende di pietrificazione, minerali rari per colori e luminescenza, pietre animate, quelle della tradizione classica, del trattato di Teofrasto, della cultura popolare, che ritrovano la strada o che ricrescono se vengon seppellite, l’homphalos di Delfi, la pietra nera della Mecca o quelle della Teogonia di Esiodo, le concrezioni sferiche di arenaria, le pietre sacre dei lacota…

Soggetti non biologici la cui esistenza contempera inconciliabilità nell’essere e mette in discussione la concezione biocentrica della vita e della persona, soggetti che peraltro resistono all’estrattivismo planetario della globalizzazione neoliberale della natura, come confermano tante lotte e politiche indigene contro le privatizzazioni dei beni comuni dagli anni 80 di acqua foreste terreni agricoli e sottosuolo in cambio del credito o della riduzione del debito.

Alternativo al paradigma della competizione tra individui biologici autonomi, è l’approccio multispecie e collaborativo della simbiosi universale dove agli organismi biologici si riconosce un’identità composita che supera confini tra specie e individualità. E non è un caso che diversi innovativi studi recenti su intelligenza, socialità e sensibilità delle piante insistano sul tema della comunicazione tra specie, in un consesso della vita dove si è piuttosto parte di alleanze e scambi orizzontali.

D’altro canto, questa indistinzione, assieme all’allargamento agli esseri non umani di una soggettività politica, e quindi di una personificazione giuridica della natura “senza distinzioni tra esseri organici e inorganici specie origine” come recita la Dichiarazione universale dei diritti della Madre terra (2010) che apre la strada al riconoscimento di diverse formazioni naturali come entità viventi dotate dello status giuridico di persona (il Gange riconosciuto dall’Alta corte giuridica indiana, il dibattito sul ghiacciaio francese della Mer de glace, il conferimento di personalità giuridica ad un ecosistema come la laguna costiera del Mar Menor in Spagna nel 2022) si scontrano con la nozione occidentale di persona che a partire da un rigido fondamento biocentrico fatica ad attribuire una soggettività politica autonoma a entità quali piante o pietre.

Con la loro dimensione ibrida e irriducibili alle forme di individualità caratteristiche degli organismi biologici, gli esseri-terra, mettendo in relazione mondi tra loro diversi, obbligano a ripensare la frattura tra natura e società operata da un pensiero coloniale ed evidenziano la dimensione relazionale del mutuo determinarsi – tra esseri naturali, umani, formazioni geologiche, entità inanimate – attraverso pratiche fondate su attenzione e reciprocità.

Così, essere soggetti ecologici, sociali e politici ed essere persone “sono esperienze che non coincidono”.

Federico Luisetti, Essere pietra. Ecologia di un mondo minerale, Wetlands, pp. 112, € 16, 00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 49, Supplemento de Il Manifesto del 24 dicembre 2023