La signora dei collezionisti del verde

Postfazione in forma di intervista a Lucilla Zanazzi, Uomini e piante. Le passioni dei collezionisti del verde, pagg. 400, €22 DeriveApprodi, 2013
uomini e piante Lucilla Zanazzi

La signora dei collezionisti del verde
Tutti la conoscono nell’ambiente degli appassionati del verde. Lucilla. Signora delle piante e dei fiori senza snobismi di complemento ma con quella sapienza un po’ poetica e perciò maieutica di chi come per caso è arrivato a distillare multiformi sensibilità e immaginifiche piste di cultura in movimento. Curiosità, empatia per la vita (financo quella degli umani), sempre filtrata con lo sguardo traverso, sbarazzino, tra il beffardo e il benevolo.

L’andamento del suo ragionare rammenta quello, spezzato, imprevedibile del volo di una farfalla che ci fa attento lo sguardo. Assieme alla trama del volo e a tutto quel su cui si posa. Disegnando paesaggi. È l’andamento del suo incedere tra i giardini raccontati, le mostre organizzate (la Festa delle rose di Castel Giuliano), i dibattiti suscitati, l’amorevolezza per le vite narrate dei suoi «amici delle piante». Accogliente, irrituale, provocatorio non per il gusto di esserlo, spiazzante per l’imprevedibilità del punto di vista da dove ci induce a vedere altrimenti cose che pensavamo di saper bene come guardare.

Eccolo allora ancora all’opera in questa conversazione a margine di un libro che d’altro canto tutto per sé si tiene nella sua essenzialità. Un’estorsione di considerazioni ulteriori, cui con inattesa condiscendente sopportazione Lucilla si presta.

Eppure, considerazioni importanti non foss’altro che per la tagliente lucidità di testimone pure fortemente implicata in un futuro da costruire a partire da una vigile coscienza critica, operativa nell’oggi. Per la rara libertà di pensiero che riversa nelle questioni che pone, suggerisce, interroga.

Lucilla, direi che il piacere della lettura delle pagine di questo tuo Uomini e piante, significativamente intitolato a Le passioni dei collezionisti del verde, pagine dove risuonano emozioni e competenze, scelte di vita e amore per la bellezza, incontri particolari più o meno botanici, questo piacere di lettura va oltre la varietà, la ricchezza, la profondità delle singole esperienze che tu riesci a animare dando fiato alla passione della vicenda di ciascuno degli intervistati. E, proprio nel sommarsi di tutte queste irriducibili storie singolari che però si assomigliano, si intrecciano e incrociandosi, come diresti tu, si ibridano, si avverte delinearsi in controluce una fisionomia nota, uno scenario comune, dai molti tratti condivisi.

Se dovessi, fuori da ogni pretesa di sistematicità, assecondando piuttosto un tuo qual certo andamento… da rabdomante, sfocare il primo piano di queste umane individualità e spostare l’obiettivo sul campo lungo, sapresti indicarci quali snodi e direttrici generali incarnano e raccontano queste storie? Quali linee di tendenze vi si debbono rintracciare e con quali stasi e accelerazioni? Quali relazioni tra contesti e protagonisti vi si possono riconoscere, qual è in questa trama l’addensarsi di nodi tematici e problematici?

Qui ho scelto di raccontare le storie che conoscevo: molti dei loro protagonisti sono legati a me da lunga amicizia e da affetto e tutti, oltre a suscitare simpatia, hanno anche una vita particolarmente interessante. La trama di base è uguale per tutti: nascita della passione durante l’infanzia, spesso manifesta, qualche volta solo inconscia, rivelazione improvvisa e violenta nella fase matura della vita, ansia di trasmissione in vecchiaia. All’osso tutte le storie d’amore sono uguali e alla lunga noiose, ciò che le rende interessanti sono i contesti differenti, gli accadimenti, gli incidenti, la personalità dei soggetti e la particolarità degli «oggetti» di questo amore totale, che non sono dello stesso genere, ma altro, in questo caso piante. Quindi non amori atti alla riproduzione della propria specie, ma di più, alla conservazione della Terra, forse. La dimostrazione che su questa palla siamo tutti uguali, che gli istinti e i meccanismi sono gli stessi. Animali e vegetali e forse anche minerali…

Purtroppo qui non ci sono tutte le storie che avrei voluto. Per esempio, manca quella di Elidono Catalano, forse il più simpatico e stravagante, una specie di guru per gli appassionati siciliani. Ecco, lui è il vero biofilo. Conoscitore della fauna marina e del fondale del Mediterraneo, al punto di scoprire specie di pesci ritenuti estinti e per questo motivo cooptato dall’Università di Palermo e citato nei libri come fonte. Ha anche una collezione importantissima di succulente che tiene nel suo giardino in riva al mare, custodita da un vero esercito di galline delle razze più strane e invaso da migliaia di bottiglie di plastica verde, con le quali sogna di costruire una grande zattera, forse per navigare per sempre sul suo Mare Magno. In due non siamo riusciti a far funzionare il registratore. Poi, sempre per motivi «tecnici» (sempre quello) non sono riuscita a raccogliere l’intervista di Nicola Del Roscio nel suo meraviglioso giardino di palme di fronte alla cdi Gaeta. Anche qui mi è dispiaciuto tanto, perché il signore è anche un grande conoscitore d’arte contemporanea e la sua storia con le piante non nasce solo dal sogno, ma anche da un’assidua frequentazione dei mari del Sud. Il registratore mi ha abbandonata anche con Isabella e Vicky Ducrot, viaggiatori per professione, essendo Vicky il proprietario di una importante agenzia di viaggi e uno dei più grandi conoscitori della storia e dell’arte dell’India e del Sud-Est asiatico. Durante i loro viaggi hanno raccolto una quantità incredibile di rose botaniche e ibridi trovati in vecchi giardini, rose che poi hanno sistemato intorno alla loro casa vicino al lago di Corbara. Isabella è una famosa pittrice e anche in questo caso avrei avuto la connessione tra arte e botanica. Poi il magistrato Vittorio Aliquò, ora in pensione, ma che ha fatto parte del pool anti-mafia di Palermo, collaboratore e amico di Falcone e Borsellino, lui è il più grande esperto di coleotteri siciliani, che ovviamente non sono fiori, ma come si sa, tra fiori e coleotteri c’è una grande famigliarità. L’ho conosciuto all’orto botanico della sua città, dove esponeva la sua eccezionale collezione di questi insetti. Peccato che quella mostra non sia andata in giro per l’Italia…

Gaetano Palisano e le sue succulente. Fin da piccolo le aveva piantate nel suo giardino tra gli aranci. Le aveva studiate, ci aveva fatto una tesina per la sua laurea e quando da Bagheria si era trasferito a Roma per insegnare scienze, aveva preso l’abitudine di andarle a trovare regolarmente. Nella capitale aveva continuato a raccogliere le sue amate e quando nell’appartamento in cui abitava non c’è stato più spazio, ha preso un vecchio camioncino, vi ha sistemato tutti i doppioni e ha cominciato ad andare in giro per la città a venderli. Poi, come da copione, ha lasciato l’insegnamento e ha aperto un vivaio di piante succulente rarissime. E il suo giardino di Bagheria? Io l’ho visto nei primi anni Novanta ed è stato anche documentato per Rai 3. Le piccole grasse che Gaetano aveva piantato nell’infanzia erano diventate monumentali, certe si erano alzate fino al tetto della casa. Un giardino bellissimo, unico. Poi un giorno una parente si è stancata di quelle spine, ha fatto tagliare tutto e buttare. Forse, se avesse conosciuto il valore economico che aveva gettato in discarica, non lo avrebbe mai fatto. È un mio carissimo amico e gli dicevo sempre: «Per ultimo intervisto te», invece è rimasto fuori. Come è rimasta fuori la mia amata amica Alessandra Orsi, la donna ape, che «vola» di fiore in fiore e quando ne trova uno nuovo non può fare a meno di coltivarlo e di proporlo agli altri.

Ne ho tralasciati tanti, tanti amici, perché in questo ambiente ci conosciamo tutti, siamo una grande setta non segreta. La «Benevolent Mafia» come disse l’elegantissimo direttore dei Kew Gardens a Gian Lupo Osti.

Bene. È chiaro che non cadi nella trappola delle generalizzazioni. Che a premere sono ancora, sempre le storie. E che non riesco a tirarti sul «piano trasversale». A ciascun lettore, se ne avrà voglia, la bega di ricombinare le urgenze delle vicende narrate. D’altra parte è giusto. Qui le domande le fai tu! Ma allora dicci ancora delle comunanze, delle regole tacite della «vostra» setta.

Io sono una di loro, ma non ho la stessa determinazione, sono troppo pigra e amo più le idee dei fatti. Insomma mi piace chiacchierare, infatti lo sto facendo anche qui. Il vero amante delle piante è un lavoratore infaticabile, un attento osservatore, uno studioso, anche se, e in parte è vero, come dice Tiziano Caronello, se impari il linguaggio delle piante e sai da dove provengono, non ti servono tanti libri. Però devi avere la sensibilità di Tiziano. No, non si parla con le piante, a loro non importa nulla delle parole affettuose e neppure dell’anidride carbonica del tuo alito. La comunicazione passa attraverso l’accudimento e l’attenta osservazione: le piante che coltiviamo sono in nostra completa balìa, soprattutto se provengono da un contesto climatico diverso e sono coltivate in vaso e in serra. Il giardiniere non ha tempo per lunghe vacanze al mare e nemmeno gli interessano, piuttosto, se può, viaggia verso i luoghi da cui esse provengono per vederle e sapere come vivono in natura, viaggi mirati più all’apprendimento e alla ricerca che al turismo. Il libro di Oliver Sacks, Diario di Oaxaca, descrive in modo molto divertente il viaggio in Messico di un gruppo di appassionati di felci americani. Da New York a Oaxaca solo per vedere le rare felci endemiche del luogo. Scrive: «Tutti dilettanti, autodidatti spinti dalla semplice passione e non appartenenti a nessuna istituzione; talvolta avevo l’impressione che vivessero in un mondo idilliaco, una sorta di eden…»; poi ancora: «Un’atmosfera professionale discreta, incontaminata, governata dal piacere dell’avventura e della conoscenza, piuttosto che dall’egoismo e dall’ambizione sfrenata, sopravvive ancora oggi da qualche parte, per esempio in certe associazioni di naturalisti, o in certe associazioni di astronomi o archeologi dilettanti, le cui vite tranquille ma essenziali, sono sconosciute al grande pubblico». Sacks descrive anche l’atmosfera eccitata e ridanciana che aleggia sul gruppo ed è la stessa che mi ha raccontato Pietro Puccio, quando parte da Palermo con i suoi amici per andare in giro per l’Europa a cercare rivenditori di piante rare. Durante il viaggio si uniscono altri amici e insieme macinano migliaia di chilometri, formando allegre carovane di macchine capienti.

Non si parla con le piante, ma attraverso le piante si parla eccome. La passione, la ricerca, il lavoro dei personaggi che racconti ha influenzato e in che misura la conoscenza, nuove forme di dimestichezza, un certo gusto per il verde? Resta un discorso interno ad una cerchia ristretta o riesce ad allargarsi a un pubblico di curiosi almeno apparentemente in grande espansione? E se sì, tramite quali tragitti, strumenti, passaggi?

Dunque questi appassionati di piante sono esseri speciali. La loro passione è passione e basta, senza secondi fini, al di fuori di ogni interesse economico, mai ho sentito uno di loro dire:

«Questa pianta vale un sacco di soldi!», ti dicono: «Questa è una delle più rare che ho». E alla rarità non è detto che equivalga un valore in denaro, anzi, la maggior parte della gente non la nota nemmeno. Purtroppo neppure quelli che lasciano la professione precedente per dedicarsi alla diffusione delle loro beniamine, creando così cultura, riescono a sopravvivere facilmente. Hanno dei vivai troppo sofisticati e spesso molto d’avanguardia per incontrare il gusto della «massa», così il loro campo d’azione si limita solo a certe mostre specializzate, dove fanno la gioia di noi acculturati, che spesso, per forza maggiore, non siamo troppo spendaccioni.

Sono quasi tutti naturalisti dilettanti nel gruppo che ho scelto io, solo Manlio Speciale e Giuseppe Barbera lo sono di professione, e proprio questo fatto di non aver fatto studi accademici e di non essere costretti a seguire routine di ricerca obbligate, di non subire certi meccanismi burocratici e di carriera, dà loro una libertà incredibile. La storia della botanica è piena di naturalisti dilettanti e Darwin ne è certamente il prototipo. Anche nel nostro gruppetto ne abbiamo parecchi niente male, per esempio due piante, una in Cina e una a Socotra, portano il loro nome.

Contraddicendomi, insisto. E ritorno alla prima domanda. Certo, in questo libro dai voce ad appassionati amanti delle piante che diventano tra i maggiori conoscitori di specie predilette, studiandole nel loro ambiente o in giardini dalle più disparate situazioni di acclimatazione. Certo, sono una setta ristretta che pure si scambia esperienze, condivide progetti. E pure diffonde nuovi punti di vista. Non credo che questo lavorio non abbia trovato modo per disseminarsi oltre le mostre per amatori.

Che ruolo giocano questi testimoni nella recente e certo parziale, multiforme vicenda che li ha visti (con te, vi ha visti) protagonisti del precisarsi anche in Italia di una cultura (almeno in nuce) diffusa, cioè di un’educazione e di un certo gusto al giardino e al paesaggio? Conosco e in buona misura condivido il tuo giudizio severo e non voglio fare l’ottimista della volontà a tutti i costi. Ma seguire le tracce delle poche piste feconde.

Quali sono stati nei decenni della tutto sommato lunga esperienza che descrivi le leve, gli strumenti e le modalità di questo operare? Appunto, le mostre, ma anche gli interventi sulle riviste di settore, la divulgazione «come si deve», il ruolo delle reti degli orti botanici o delle associazioni di settore degli scambi di semi, o dei progettisti del paesaggio riuniti nell’associazione di categoria Aiapp, e che altro?

Quali di questi veicoli sono eventualmente traghettabili all’oggi e quali vanno reinventati? Quali i nuovi?

Bella domanda! Sulle associazioni degli amanti delle piante si potrebbe scrivere un libro. Tutto si può dire su questa categoria di persone, meno che sia composta da esseri solitari. Noi ci riconosciamo a distanza, siamo in pochi, ma fraternizziamo subito. Una delle mie più care amiche di pianta l’ho conosciuta venticinque anni fa in treno tornando a Roma da Milano. Era seduta davanti a me silenziosissima, ma aveva sulle spalle una bellissima sciarpa di seta dipinta di fucsie di tutti i colori. «Che bella! Dove l’ha trovata?». Io sono un’attacca-bottoni inguaribile. «Le piace? L’ho comperata in Olanda a un’esposizione di piante». Così venni a sapere che era di origine olandese e che abitava nei dintorni di Firenze, dove aveva un bel giardino di rose antiche, che cinque anni prima aveva visitato nel suo paese d’origine Floriade, la più grande mostra di giardini e piante del mondo, che la fucsia le piaceva tanto, che era il fiore della sua infanzia, ma a Firenze veniva malissimo perché le estati erano troppo calde. Parlammo fitto fitto per due ore, scoprimmo che avevamo amici comuni, scambiammo esperienze e cominciammo a darci del tu. Prima di scendere dal treno mi diede il suo numero di telefono e salutandomi disse: «Non do mai a nessuno i miei recapiti, ma tu sei un’amante delle piante!». Ci siamo telefonate spesso, incontrate tutti gli anni a San Casciano Val di Pesa in occasione di Le Corti in Fiera, poi in occasione di altre mostre. A maggio è venuta a Castel Giuliano presso il lago di Bracciano alla Festa delle Rose, per vedere la mostra e il giardino e per incontrare me.

Anche Elisabetta Margheriti, la figlia di Mario, il grande vivaista di Tor San Lorenzo, l’ho conosciuta in treno. Tra noi due aveva messo una bellissima pianta di Lavanda stoechas.

D’altro canto mi viene in mente un altro viaggio in treno. Con Danilo Bitetti stavamo tornando da Bologna, dove avevamo incontrato Antonio Curti, parroco di un paesello sulle colline, dove teneva una collezione di plumerie pazzesca. Ne aveva regalate tre a Danilo. In treno le sistemammo sul tavolino tra noi due. Erano bellissime e mandavano un profumo che stordiva. Ebbene, nello scompartimento affollatissimo, nessuno le degnò di uno sguardo. Ecco, ci sei o non ci sei e in quel caso non c’era nessuno che lo fosse.

Ti ho raccontato queste storie per spiegarti come gli amanti dei fiori fraternizzino facilmente tra loro e di come siano una casta a parte, casta in cui non esistono differenze sociali, di nazionalità o di razza. Come gerarchia sociale è riconosciuto solo il livello di conoscenza. Poi abbiamo sempre qualche cosa che ci faccia riconoscere dagli altri: un capo di abbigliamento, una rivista, un libro o addirittura, quando capita, una pianta in vaso. «Benevolent Mafia».

Tutto sommato in Italia siamo in pochi, ma le associazioni sono tantissime. È incredibile, ma la prima in Europa è nata a Firenze nel 1773 e si chiamava Società botanica fiorentina, confluita poi, nel 1888 nella Società botanica italiana. Esiste ancora, ma è molto elitaria. Per noi comuni mortali, amatori spesso abbastanza ignoranti, in compenso, ci sono tante altre associazioni. Ce n’è una per ogni pianta e si prefigge lo scopo di farla conoscere, di proteggerla e spesso anche di salvarla da estinzione. Ogni associazione tiene un’assemblea annuale, pubblica dei bollettini spesso molto interessanti, in cui vengono raccontate le esperienze dei soci, hanno un Index Seminum con l’elenco dei semi a disposizione e favoriscono lo scambio delle piante. Hanno sezioni in ogni nazione e spesso «cellule» regionali, se non cittadine. Ne ho frequentata qualcuna e la cosa più divertente che ho scoperto è che i soci sono litigiosissimi. In Italia le associazioni più numerose e frequentate sono i Garden club cittadini, che tra le loro attività inseriscono cicli di conferenze a carattere botanico, organizzazione di mostre e di viaggi in giardini italiani, ma soprattutto all’estero. Poi c’è l’A.Di.P.A. di cui abbiamo parlato parecchio in questo libro. Indubbiamente è l’associazione più importante e frequentata. Moltissimi dei suoi soci sono serissimi studiosi di botanica e, a differenza dei Garden Club, frequentati in prevalenza da signore di una certa età amanti del giardinaggio, è composta da un pubblico molto variegato appassionato alle piante più che ai giardini.

Un mezzo di divulgazione molto importante è l’editoria: da quando Ippolito Pizzetti diresse dal 1980 le sue prime collane di libri dedicati ai giardini, alle piante e alla natura in genere (L’Ornitorinco, Il corvo e la colomba), c’è stato un notevole movimento editoriale verso quest’argomento.

Altro veicolo sono state le riviste di settore. Fino agli anni Ottanta in Italia le riviste più importanti e più lette sono state «Il giardino Fiorito», mitico periodico fondato nel 1931 dalla Società italiana degli amici dei fiori (altra associazione legata all’Orticola di Milano) e diretta da Eva Mameli e Mario Calvino, i genitori di Italo, e «Fiori» diretta da Stelio Coggiatti e «Vita in campagna», che più che altro si occupa di agricoltura. Tutte riviste che arrivavano a casa abbonandosi. Poi nel 1984, a maggio, è uscito finalmente in edicola il mensile «Gardenia», che con la sua enorme diffusione è stato un veicolo straordinario di passione e di informazioni. Poi «Giardini», «Giardinaggio», «Giardino antico», «Ville e Giardini»…

Finalmente nel 1991 la Mostra al Castello di Masino… È stato un grande avvenimento e noi appassionati pensammo di essere caduti felicemente tra le braccia di Elisabetta II. Dopo Masino, San Casciano, poi Tor San Lorenzo, poi… Indubbiamente le mostre hanno dato un grande scossone, hanno favorito un certo vivaismo, hanno mutato il gusto del pubblico che le frequenta, hanno lanciato mode, hanno creato cultura insomma. Sono il luogo d’incontro obbligato per gli appassionati, un appuntamento fisso. Ora le mostre sono tantissime, più di cento credo, ormai ogni città organizza la sua e in parte è bene perché la «cultura del verde» viene diffusa, ma d’altro canto si è abbassato il livello della qualità, perché le loro date si sovrappongono e i vivaisti «speciali» che partecipano a questi eventi non sempre hanno il dono dell’ubiquità e la forza fisica ed economica di girare l’Italia, spesso per promuovere cultura e basta. C’è da dire che ora si sta affacciando una nuova tipologia di mostre dirette più verso l’Architettura dei giardini, l’arredamento d’esterni, i materiali, tutto ciò che finora, in una mostra di fiori e piante, era ritenuto marginale. Molto spazio è dato ai paesaggisti, soprattutto a quelli molto giovani che in quelle occasioni creano giardini effimeri di tendenza. Insomma prima il paesaggista andava alle mostre per vedere i fiori, ora ci va per mettere in mostra se stesso. Il discorso sarebbe troppo lungo se si volesse affrontare seriamente.

Beh sì, dalla passione delle piante a quella per i giardini, al paesaggismo, gli intrecci e i passaggi sono molti. Il discorso sarebbe lungo e… non è questa l’occasione. E la tv, la rete con le sue nuove soggettività e il suo particolare tessuto di relazioni?

Certo, il web è diventato uno strumento di primaria importanza per la comunicazione. La prima rivista ad apparire in rete fu Giardinaggio.it nel 1999, nel 2002 arrivò la Compagnia del Giardinaggio, Mimma Pallavicini wordpress e poi un proliferare incredibile di blog, spesso molto belli e interessanti. Gli iscritti sono varie decine di migliaia e i forum frequentatissimi. Dunque forse questi sono diventati i veri detonatori della cultura del verde, fonte inesauribile di informazioni, luoghi virtuali di incontro e di scambio, ma anche di vere amicizie. Io stessa, pur essendo una pessima frequentatrice, ne ho usufruito, lì ho incontrato Alessandra Vindrola che mi ha tanto sostenuta nella stesura di questo libro e con la quale poi abbiamo in corso uno scambio continuo di case e di figli, lei a Torino, io a Roma, poi Lidia Zitara di Giardinaggio Irregolare, con la quale ho un rapporto molto «dialettico», Cristiana Mancinelli Scotti di Salviamo il Paesaggio, Monica Sgandurra con il suo CakeGarden Project, dove mischia improbabili fantastici dolci a giardini e paesaggi fantastici, e infine devo assolutamente citare Paesaggiocritico del coraggiosissimo giovane paesaggista Francesco Tonini, che sostiene questa rivista on line, unico riferimento e fonte di notizie per i giovani che studiano o che iniziano questo difficile lavoro. È il mio preferito, tanto da essere entrata due anni fa come collaboratrice (un po’ sobillatrice di polemiche), raccontando i libri sui giardini e sul paesaggio. Poi c’è Facebook… basta.

Grande nota di demerito invece alle televisioni di Stato e non, che invece di promuovere la cultura del verde, pare che vogliano involverla a colpi di rare trasmissioncine nazional-popolari. Non voglio generalizzare, ma mi sembrano così lontani i tempi di Geo, in cui ogni giorno presentavano un documentario sulla natura e nell’ultimo periodo, sotto la direzione di Tiziana Piazza, c’era stata una particolare attenzione al paesaggio italiano e ai nostri grandi giardini.

Sul piano dei processi del modificarsi del gusto, come pure del trasformarsi del pubblico degli appassionati e anche delle forme di partecipazione e trasmissione di valori sociali connessi al verde e alla sue pratiche, che ne pensi del prodursi e del diffondersi di fenomeni come i guerriglia gardening o degli orti didattici o condivisi?

Sarebbero interessanti questi movimenti di guerriglia urbana, i Green Guerrilla, se anche loro non fossero caduti nelle trappole della moda e nell’ossessione del cibo. Ovviamente questa è una mia opinione e lungi da me la volontà di polemica. Non amo gli orti urbani, spesso sono anche molto brutti, erroneamente ritenuti veicolo di ricongiungimento degli abitanti delle città alla natura. L’orto, che ha un grande senso ed è necessario in un contesto agricolo, non avvicina alla natura, ma all’utilizzo della terra da parte dell’uomo. La terra è per l’uomo, dunque va coltivata o, peggio, cementata tutta. Noi siamo i figli di Dio e lui ce l’ha regalata. Piante e animali fanno parte del corredo e sono a nostra completa disposizione. Questo è l’assunto più sacrilego che ho sentito…

Orti negli asili e nelle scuole, così i nostri bambini imparano che l’insalata non cresce nelle vaschette di plastica del supermercato, impareranno a raccogliere i prodotti che mangiano e sapranno l’origine del loro cibo. È vero, ma allora anche il pollaio, così capiranno che il petto di pollo non è una cosa rosa, molliccia, di forma ogivale, anche quella in vaschetta. Se proprio dovessi fare un orto scolastico, io lo farei stupendo, con tutti i fiori che contrastano l’arrivo degli insetti predatori, sceglierei gli ortaggi più belli, li seminerei con i bambini (la semina piace), li accudirei e una volta pronti per la raccolta, li lascerei dove sono, manderei tutto in fiore: cavoli, cicorie, insalate, finocchi, barbabietole rosse, rape, carote, pomodori, fagioli, carciofi… in un gran bailamme colorato e poi frutti, bacche e semi e un tripudio di uccelli che verrebbero a servirsi nella loro mensa scolastica. Poco utile, ma molto istruttivo. Poi leggerei ai più grandi «l’orto di Renzo» tratto dai Promessi Sposi, scritto con grande gioia da quel grande biofilo che è stato Alessandro Manzoni.

Nessuno dei miei intervistati e conoscenti è stato introdotto all’amore per le piante e per la natura coltivando l’orto. Ah, no! Dimenticavo che Paolo Pejrone, uno dei nostri più importanti paesaggisti, allievo ed erede di Russel Page, ha iniziato la sua storia da bambino, proprio seguendo il giardiniere nell’orto della sua casa di campagna e mangiando le fragoline. Quell’orto c’è ancora, bellissimo, con le fragoline, le insalatine, gli asparagi e tutti gli ortaggi che amava da piccolo.

Bella questa visione. Quest’ortoparadosso, agente di disseminazione di cultura, di restituzione di natura… Torniamo ai tuoi amici amanti delle piante. Tu racconti di come siano spesso fulminati in questa loro passione a un certo tratto della loro vita, che così, d’improvviso, cambia. Ma anche per chi non è portato fin da bambino da questa predilezione, è in un episodio dell’infanzia che si rintraccia un innesco, magari a scoppio ritardato di quell’incanto che passa per l’appropriazione del mondo che è il nominare le cose. Perduta la mediazione di una vita in campagna, per quanto periurbana, come può nascere, oltre gli schermi dei terminali dove spesso si è confinati, un’analoga illuminazione per il ciascun giardiniere di domani, o anche, già, di oggi, e ancor più per coloro che per professione o per vocazione si vorranno dedicare alla progettazione dei giardini (anche se magari vedremo poi il nodo di quale formazione professionale, universitaria o meno)?

Credo che il contatto con le piante, ma anche con gli animali e i minerali, avvenga quasi sempre durante l’infanzia, anche se non direttamente veicolato da una persona famigliare. Luigi Guiglia spiega benissimo che il suo «ingresso» è avvenuto attraverso l’appropriazione del linguaggio («avevo sempre saputo che il cielo era blu, me lo dicevano continuamente tutti, poi un giorno, avrò avuto sei o sette anni, l’ho visto davvero»; e ancora: «Avevo sempre visto quel manto di foglie verdi che ricopriva quel muro, ma quel giorno passandogli davanti, improvvisamente mi uscì la parola “Glicine”»). Certamente quella parola «glicine» l’aveva già sentita, ma solo in quel momento lui l’ha visto come «essere» glicine e dunque l’ha introiettato.

Ippolito Pizzetti racconta che il suo «ingresso» (è un termine che gli ho rubato) è avvenuto quando era molto piccolo a Milano. Era a letto malaticcio e dal riquadro del cielo crepuscolare che sovrastava la finestra della sua camera gli arrivavano gli stridii delle rondini e quegli stridii, assieme all’Allegro iniziale del Terzo Concerto Brandeburghese che suo fratello provava al pianoforte, gli provocarono lacrime e singhiozzi irrefrenabili. Solo più tardi arrivò Trudi, la sua magica tata tedesca, che portandolo tutti i giorni al giardino pubblico, gli insegnò a vedere le piante e gli animali e a nominarli. Lavinia Taverna, l’autrice dei Giardini della Landriana, invece mi raccontava che quando era piccola, passava parte della giornata, durante le vacanze estive nella villa di famiglia sul lago di Como, appollaiata sul ramo di un cedro a osservare con un misto di terrore e di stupore un impetuoso torrente che passava sotto la casa prima di tuffarsi nel lago (nella mia testa ho sempre pensato che quella fosse la villa che Fogazzaro descrive in Malombra). Quando, più grande, ma non troppo, perché si sposò giovanissima, fu costretta a passare le sue estati a casa del suocero, nientemeno che a Villa Melzi d’Eril, mi confessò che si annoiava moltissimo e che quel giardino, peraltro famosissimo, lei lo odiava. Ritrovò la sua passione per la natura a Tor San Lorenzo, seminando una bustina di semi di godezia che qualcuno le aveva regalato. Le sue quattro figlie andavano già a scuola. L’incanto delle vacanze estive passate in campagna a giocare liberi tra prati e alberi segnarono anche il destino di Giuseppe Barbera, Paolo Zacchera, Susanna Tavallini e Anna Peyron.

Mi raccontava Gillo Pontecorvo, il regista premio Oscar de La battaglia di Algeri, anche lui appassionatissimo di piante, che al suo quinto compleanno, una zia gli regalò un vasetto con dentro un’asparagina. Lui pensò: «Ma che cavolo di regalo mi ha fatto questa!», invece quella piccola pianta affidata esclusivamente alle sue cure gli suscitò un interesse incredibile, tanto che cominciò a seguire spesso all’orto botanico il fratello più grande Guido, che poi sarebbe diventato un biologo così importante da essere candidato al premio Nobel.

Un altro ingresso, quasi un portone, è la lettura. I romanzi di Salgari, di Conrad, di Verne hanno creato più fan alle piante esotiche di quanti ne abbia mai avuti Madonna con le sue canzoni. Si dice che i ragazzi non amino leggere e passino il loro tempo al computer. È vero, lo so per esperienza personale, ma finché sono molto piccoli i genitori possono raccontare loro le favole di Esopo, di Grimm, di Afanas’ev, Andersen, quelle italiane raccolte da Italo Calvino o da Emma Perodi, tanto per citarne alcune. Tutte storie legate ai nostri archetipi, quando l’uomo era ancora intimamente legato alla natura e quello stupore misto a terrore ancora ce lo comunicano.

Se mi chiedi come oggi un ragazzo possa avere l’illuminazione, non lo so. Anzi mi divertirò a fare un piccolo censimento su Facebook (perché non ci ho pensato prima?). Forse anche loro durante l’infanzia hanno oziato seduti sulla riva di uno stagno, si sono arrampicati sui rami di un albero sempre più in alto, hanno corso in mezzo all’erba, hanno nuotato in un fiume, hanno dato la caccia alle lucertole, hanno notato che il sole tramonta, hanno raccolto nidi di uccelli, asparagi selvatici e luppoli e fragoline, hanno scoperto il posto dove fioriscono le viole, oppure hanno una nonna o un nonno che coltiva un giardino o i genitori hanno i vasi con i fiori sul balcone… hanno giocato con la terra e si sono sporcati tutti. Forse non sono neppure andati a scuola di calcio e poi in piscina e poi a karate… hanno anche oziato in preda alle fantasie più folli.

Quali percorsi di vita e di formazione, universitaria ma ancor prima civica, giardiniera vedi prospettarsi? Cosa ostacola un felice bilanciamento tra cultura compositiva e competenze orticole, tra un prevalente approccio disegnato, architettonico e una sensibilità e conoscenza botanica sempre a rischio di settorialità, che spesso stenta a farsi sensibilità estetica certo, consapevole della specificità dei luoghi e delle tradizioni, e però capace anche di osare associazioni indebite?

Sai che non sono sicura se serva una laurea specifica per far giardini e parchi pubblici?

Credo invece che una grande cultura di base sia necessaria: la storia lo insegna. Anche se poi, contraddicendomi, ho trovato molto positivo l’apertura della facoltà di Architettura dei giardini e del paesaggio, che è la dimostrazione di un nascente interesse per questa «materia» così drammaticamente trascurata nel nostro Paese. Ho avuto modo di conoscere il piano di studi, dato che mio figlio ha frequentato questa facoltà e si è laureato. Non è stato male, intanto, e non è poco, studiando e facendo i laboratori si è divertito molto e ha avuto anche l’opportunità di fare importanti soggiorni all’estero, per esempio a Mosca o poi a Kobe in Giappone. Hanno partecipato al Festival Internazionale dei giardini di Chaumont-sur-Loire, sono stati selezionati e in quel luogo hanno passato giornate entusiasmanti ad allestire il loro giardino dimostrativo. Poi la cosa che ho trovato meravigliosa è stata l’intesa con i professori, l’amicizia e la disponibilità che hanno concesso agli studenti; tuttora si frequentano e, se c’è l’opportunità, lavorano insieme. E poi l’entusiasmo. Ma in quale facoltà succede una cosa simile? Infatti quel corso di laurea è stato soppresso. È un peccato, sicuramente andava migliorato e reso più autonomo da Architettura, anche perché credo che il pensiero di un paesaggista giardiniere debba essere diverso da quello di un architetto.

È sempre e solo il mio pensiero, ma mi è sembrato un po’ carente di cultura generale. Manca totalmente la storia dell’arte, così profondamente legata ai giardini e al paesaggio italiano: penso che saper leggere un quadro sia importante come fare un corso di composizione e che avere una cognizione su dove si stiano dirigendo l’arte contemporanea, la land art, la video arte e la fotografia sia fondamentale. I grandi giardinieri del passato, ma anche molti contemporanei, provenivano da scuole d’arte. Poi anche un po’ di filosofia. L’idea del giardino nasce nella testa dell’uomo come ricerca di perfezione, è l’idea del paradiso perduto, infatti i libri sui giardini, se non sono manuali di giardinaggio, sono veri trattati di filosofia. Manca uno studio approfondito del paesaggio da un punto di vista culturale, economico e semiologico. Quasi nessuno degli studenti ha letto Storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni e preso in mano un libro di Eugenio Turri, tanto per citare un autore.

Ho sentito dire che la storia, la storia dell’arte e la filosofia fanno parte del bagaglio culturale che ognuno dovrebbe crearsi da solo, ma non è sempre così semplice, perché non tutti provengono da scuole secondarie che hanno dato loro questo accesso. Ho avuto modo di conoscere qualche neolaureato e vi garantisco che spesso sono ignoranti, ma lavoreranno lo stesso e le loro carenze culturali si vedranno benissimo.

Altro dolentissimo tasto è la conoscenza delle piante. Quando devono comporre un giardinetto li vedi spesso barcollare nel buio. Che piante metterci? Un rosmarino? Una lavanda? Un’agave o un’orchidea? Mettiamoci le fragole e l’insalata che quelle vanno sempre bene e poi si mangiano. Ecco perché la moda dell’orto urbano ha preso così piede! Come se i nostri amici vegetali fossero solo cibo o un banale ornamento. Nelle città, quasi tutti i giardini pubblici (io li chiamo ancora giardini) odierni sono spazi sterili di cemento, massi di pietre ricavate dalle nostre montagne distrutte dalle cave, qualche ulivo e a volte dei cipressi, roba che fa così italico e per aggiungere ancora un po’ di sentimento patriottico, belle aiuole ricoperte di prato a rotoloni, con in mezzo qualche strisciata di ciclamini bianchi e rossi.

Per me, un terzo del piano di studi dovrebbe essere dedicato alle piante. Botanica comparata, certo, ma soprattutto lo studio degli alberi, quanto diventano alti, la circonferenza della chioma, l’estensione delle radici, la tolleranza al clima, le specie, le varietà. Gli arbusti, che creano l’ossatura di un giardino, le erbacee, i prati, ma i prati veri. De Vico e Porcinai, tanto per citare due paesaggisti del Novecento, quando realizzavano i loro parchi urbani usavano tutta la loro monumentale conoscenza botanica e non solo la loro abilità compositiva.

Insomma la Facoltà di architettura del paesaggio e dei giardini dovrebbe essere un ibrido tra una facoltà umanistica, una facoltà scientifica e una tecnica. Invece essendo nata da una costola di Architettura è più legata all’urbanistica che alla natura.

Ho avuto tra le mani una serie di progettini dei ragazzi che frequentano ancora la facoltà, ma anche di giovani neolaureati, e mi sono resa conto che loro, più che giardinieri, si sentono architetti arredatori di spazi esterni, propensi all’organizzazione della vita fuori (tavoli, sedie e barbecue). Ho avuto l’idea, ma potrei sbagliarmi, che loro concepissero il giardino «solo» come uno spazio da utilizzare.

Bisogna far entrare prepotentemente la natura nelle città, bisogna piantare piccoli boschi, come quelli sacri dell’antica Roma, curare gli spazi condominiali come piccoli gioielli. Poi ancora coltivare l’incolto ai margini delle periferie, valorizzarlo aggiungendo addirittura gli arbusti e le erbe spontanee scomparse per un lungo sfruttamento agricolo, rilanciare il valore delle marrane, dei fossati e dei rivoli, sia per un equilibrio geologico, sia per salvaguardare la biodiversità. Ritornare al giardino.

Nel circuito virtuoso, conoscenza della natura e delle piante, emergenze di nuove consapevolezze ecologiche e rinnovato gusto per il giardino e le sue «funzioni», quali nuovi modi di fare vivaismo vedi dopo i vivai specializzati? Quali proposte ti senti di poter anticipare dal tuo osservatorio privilegiato?

Spero che questi piccoli vivai di appassionati abbiano ancora la forza di andare avanti nelle loro ricerche: è difficile lavorare in Italia, dove l’eccellenza non è premiata. In Inghilterra le collezioni di piante e i giardini di un certo valore sono sostenuti economicamente dallo Stato, da noi… L’esempio più eclatante viene dal Roseto Carla Fineschi a Cavriglia, creato e sostenuto economicamente esclusivamente dal professore, che ha investito lì tutti i guadagni di una vita trascorsa ad aggiustare con successo le ossa di tutti, comprese quelle di un Papa. Quando ha incominciato a trovarsi in difficoltà, perché era vecchio e non poteva più lavorare come prima, ha chiesto aiuto allo Stato, agganciandosi al codice Urbani, che prevede anche la tutela, la gestione e la valorizzazione di beni culturali di particolare interesse pubblico. Ci fu tutta una serie di incontri con la regione Toscana, preposta all’erogazione del denaro, ma poi non se ne fece nulla, perché, almeno così mi raccontò il professore, essendo una collezione privata e per di più un roseto, non sapevano sotto che voce farcelo entrare. Sta di fatto, ora che è mancato, le tre figlie, che non hanno certamente le entrate del padre, fanno molta fatica a mantenerlo e le rose muoiono e, se non avranno un aiuto, tra poco un grande patrimonio andrà perduto.

Le collezioni, questi nuovi vivai specializzati, la cui particolarità è soprattutto la produzione delle loro piante, le associazioni, le riviste di giardinaggio, i blog e le mostre, sono comunque riusciti a creare un movimento di persone che hanno percepito una cultura del verde e soprattutto hanno sviluppato un’attenzione particolare verso il nostro paesaggio così bistrattato. Anche i garden center si stanno adeguando a questo nuovo mercato, infatti sui bancali espongono piante diverse dalle solite begoniette e gerani edera, magari acquistate in Olanda o in Belgio, dove c’è una industria dei fiori fiorentissima, anche terrificante se si va a vedere come allevano i loro «prodotti».

Per tornare allora ai tuoi appassionati di piante, com’è il loro giardino? Com’è il tuo giardino?

Ebbene, capita anche che non abbiano un giardino e che il loro campo d’azione sia un terrazzo stipato di vasi e c’è chi come Annalisa Perna, amica di Patrizia Ianne che le ha dedicato una delle fucsie che ha creato, non ha neppure quello, ma davanti a una pianta veramente interessante non riesce a trattenersi: la compera e poi cerca tra gli amici il più adatto per darla in affidamento. Pare che vada a trovarle regolarmente tutte.

Quando ci sono, i nostri giardini sono bellissimi, ma li capiamo solo noi. Ricordo che anni fa, quando ancora mettevo in terra forsennatamente le piante più rare e belle, venne l’amministratrice del condominio a dare un’occhiata e disse: «Lucilla, qua vengono solo le erbacce, vero? I condomini si lamentano.Ti conviene dare una passata di cemento, che almeno è pulito e ordinato». Che offesa! Io che di mattina non vedevo l’ora di uscire in giardino per avere gli occhi sgranati davanti a tanta bellezza! A noi non importano i giardinetti con il praticello verde e il dondolo! Vogliamo altro, vogliamo che il verde ci invada, ce lo portiamo dentro e qualche volta gli permettiamo di nascere dentro casa, come è successo a Maria Cristina Leonardi, l’organizzatrice della mostra La conserva della neve, che ha scoperto che nella vaschetta dello sciacquone del bagno era nata una bellissima felce. La foto di quell’Adiantum capillus veneris ha fatto il giro d’Italia.

Mi piacciono le violette e i bucaneve, poi i fiori dei prati della Val d’Aosta e lo splendore di una cava abbandonata all’ingresso di Palombara Sabina o quello di una scarpata sul raccordo anulare di Roma in una giornata di fine maggio. Per questo quando ho letto Il Terzo paesaggio di Gilles Clément mi sono sentita così felice!

Quali sono allora i giardini che ti piacciono, dove ti ritrovi o che pensi oggi abbia senso progettare e abitare?

Odio i nuovi giardini pubblici, così asettici con la loro brava pavimentazione e qualche accenno di prato più finto di una moquette, senza cespugli fioriti dove nascondersi per gioco, con brutte panchine, senza fontane e laghetti… mi raccontava mio marito che quando era piccolo andava sempre con i compagni a giocare al Giardino del Lago a Villa Borghese, dove c’era un ruscello nel quale facevano navigare le barchette di carta. Quel ruscello c’è ancora, ma è solo un solco secco, forse quel rigagnolo d’acqua era pericoloso. Già! A Venezia tutti i bambini muoiono affogati nei canali senza parapetti e per questo in Italia c’è una legislazione micidiale sulla sicurezza in un parco pubblico, anche se non mi risultano morti ammazzati da giardino. Poi ci sono i giochi per i bambini all’aperto, ignobili scacciapensieri per criceti, creati per farli muovere senza pensare, non lasciando alcuno spazio alla fantasia. Invece di avvicinarli alla natura li tengono sempre più lontani. Paura.

I giardini… invecchiando mi piacciono sempre meno, eppure sono stati la cornice dei giochi della mia infanzia e la delizia della mia maturità, non tanto il mio, ma quelli degli amici che ho avuto modo di frequentare così assiduamente. Ninfa, La Landriana, Hortus Unicorni, Valleranello di Maresa del Bufalo, La Cannata, San Liberato e naturalmente quello di Umbertina Patrizi a Castel Giuliano. Mi sono un po’ stancata di magnifici luoghi chiusi a un esterno sempre più angoscioso. Ho voglia di prati in fiore, di boschi… di paesaggio. Sono uscita dal recinto.

Non possiamo stare senza verde intorno, soffriamo, ormai la linfa scorre nelle nostre vene. Una magnifica ossessione.

Per concludere, replicando anche con te il gioco per cui ognuno dei tuoi intervistati ha intestata un’identità botanica. E tu…. che pianta sei?

Io? Ma una dalia, mio caro… una dalia sfiorita.

Lucilla Zanazzi e Andrea Di Salvo