Biodiversità, alimentare e culinaria, dei paesaggi

La complessa e multiforme variabilità che connota l’Italia nella sua morfologia come anche, storicamente, nell’intersecarsi di protagonismi e soggetti che nel corso dei secoli finiscono per ricombinarsi in sempre nuove identità, si riflette, evidentemente, anche nei suoi modelli alimentari, così come nella cultura gastronomica o nel distinguersi di molteplici paesaggi del gusto.

D’altro canto – seppure a partire da opportunità e vincoli dei territori, nella penisola tanto ricchi di episodi e contesti, così diversi l’un l’altro e così da presso in termini di suoli, orografie, climi–, i paesaggi son pur sempre l’esito, il distillato, di un incessante, continuo misurarsi dell’uomo nell’invenzione e nella costruzione di risposte a esigenze, desideri, proiezioni.

E di paesaggi del gusto, ben al di là del facile ricorso alla metafora, ragiona Massimo Montanari – dalla trattatistica medievale e rinascimentale incrociando fonti normative come gli statuti, fino a seguire il loro affacciarsi sui media a noi più vicini – nel suo Geografia del gusto. Un viaggio in Italia tra i paesaggi del cibo, per il Touring club italiano, che rinnova così e attualizza una sua storica tradizione di attenzione (€ 16, pp. 94).

Perché è a partire dal paesaggio che vanno intese le vicende di prodotti e ricette della cucina italiana. Con l’avvertenza di adottare una prospettiva ravvicinata, almeno per tutta la fase premoderna – prima cioè dell’affermarsi novecentesco di una idea della cucina italiana come cucina regionale – e poi di nuovo, oggi.

Dagli anonimi ricettari trecenteschi, espressione della corte angioina o di ambito toscano, e fino alle prime opere d’autore, come quella del Maestro Martino (Libro de arte coquinaria, anni 60 del Quattrocento), quasi interamente trascritta poi dall’umanista Bartolomeo Sacchi detto il Platina (De honesta voluptate et valetudine, c.1470), a farne il primo testo gastronomico diffuso a stampa, e con enorme successo, la trattatistica di settore trasmette il riflesso di una cultura delle élite focalizzata piuttosto su associazioni alimentari che privilegiano la mescolanza, tradiscono fascinazione per l’esotico, mal sopportano i vincoli del legame con il territorio e dei ritmi della stagionalità e che includono prodotti ritenuti rustici soltanto se nobilitati tramite manipolazioni tecniche e simboliche. La realtà di uno stretto legame con il territorio si impone invece – evidente nelle denominazioni locali di prodotti e ricette – secondo un duplice modello che pare convergere: quello di un centro-nord dove ogni città sussume il patrimonio agroalimentare del contado, e quello del meridione che rimanda a una molteplicità di centri minori e villaggi sparsi nel territorio.

Jan Brueghel il Vecchio (1568-1625) e Peter Paul Rubens (1577-1640), Allegoria del gusto, dalla serie I cinque sensi, 1617-8,  Madrid, Museo del Prado

Tra Sette e Ottocento, le prime raccolte di ricette dedicate a singoli contesti e una nuova attenzione per la cucina del territorio: tra superamento del valore del cibo come strumento di distinzione sociale; reazione all’omologazione conseguenza della crescita dell’industria alimentare; affermarsi di una nuova naturalità del gusto.

Dal 1891,con la pubblicazione di La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, accolto da un successo di pubblico che coinvolge anche i ceti rurali e più volte ristampato, si precisa la vocazione localistica e cittadina della cucina italiana, descritta nella sua ampiezza e circolarità di esperienze definendo un modello di impronta decisamente domestica pur nella circolarità fra cultura casalinga e ristorazione.

E ancora, snodi di rilievo nel processo di riconoscimento della cultura gastronomica come patrimonio nazionale, entrambi del 1931, sono il censimento operato su base locale dai soci del TCI e la Carta delle principali specialità gastronomiche delle regioni italiane di Umberto Zimelli, che visivamente identifica e associa città e territori con prodotti e pietanze tipiche.

Se il riduttivo spostamento della lente, dalle province alle regioni, adottato nella costruzione della nuova Guida gastronomica d’Italia del TCI del 1969 risponde a una logica di semplificazione amministrativa, di più lungo respiro è il processo che, con l’affermarsi del turismo come fenomeno di massa e sotto l’incalzare di un’industria alimentare che mette in scena un presunto recupero della tradizione, vede il progressivo rarefarsi di una fin lì reale consuetudine del consumatore con il prodotto, in una relazione invece sempre più spesso mediata dalla pubblicità e dalla ristorazione, di osti, trattorie, cuochi.. Con sullo sfondo magari il controcanto di inchieste giornalistiche e radiofoniche che da tempo segnalano il rapido sradicamento delle tradizioni locali (dal Viaggio in Italia di Guido Piovene del 1953-56 a quello nella valle del Po di Mario soldati, dal 1957).

A fronte di questo smarrimento di ogni consapevolezza di pratiche e saperi, del lavoro e del rilievo dei luoghi che lo rendono possibile, compare in controtendenza dagli anni 80 una rinnovata attenzione e un capillarelavoro di tutela delpatrimonio gastronomico diffuso, fin nelle sue autentiche realtà minori. Che, inequivocabilmente, valorizza e salvaguarda le biodiversità, anche culturali, dei paesaggi.

Massimo Montanari, Un viaggio in Italia tra i paesaggi del cibo, Touring club italiano, pp. 94, € 16, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 16, Supplemento de Il Manifesto del 4 maggio 2025