La trama circolare della cura dell’orto

Annotate mese per mese e raccolte in quadernetto, le esperienze del prender via via dimestichezza con la cura dell’orto ne replicano sulla pagina la vicenda e la trama circolare, ripetuta in una ricorsività che include però l’imprevisto.

Un tempo ciclico, organico, dove per piccoli segni osservare il concorrere di una molteplicità di organismi entro un sistema vivo, un nuovo inizio nel gonfiarsi delle gemme, come nel fiore dove si intravede il frutto o nel seme che incuba ripartenze. Un tempo rotatorio, di cui magari la pigrizia tende ad amplificare il raggio, fatto di storie con varianti infinite, da tenere a bada venendo a patti con la luna, inventando rituali. Un tempo ciclico, quello dell’orto, anche perché al terreno riporta quanto è stato tolto.

Le jardin au Printemps, scheda di supporto pedagocico, Anni 50, Nalliers, Musée de l’image

Un tempo reale, parallelo al fare di ogni giorno, al considerare via via il domani, che Barbara Bernardini viene ripercorrendo da inizio primavera a fine inverno nel suo volumetto Dall’orto al mondo, in una dettagliata fenomenologia del sovrapporsi e intrecciarsi di crescite, estinguersi e rinascite, che, empaticamente sincronizzata, dal tecnico scivola nel racconto, accordandosi alle movenze dei suoi interlocutori vegetali (sottotitolo, Piccolo manuale di resistenza ecologica, Nottetempo, pp. 262, € 17,00).

Dal suo minuscolo osservatorio, una striscia di terra in lieve pendenza dove tra gli ortaggi riaffiorano a tratti i tralci di un vigneto dismesso, tra provinciale e ferrovia, a mezzo tra campagna e area industriale, tra palude di bonifica e sostrato vulcanico, tra Latina e Roma, si dispiega a raggera e dilata verso temi più ampi un almanacco di lavori, progetti, buoni propositi e riflessioni ancorate alla terra.

E se da sempre le piante han viaggiato, anche prima dell’uomo, attraversando spazi e poi millenni di progressive selezioni, adattandosi e modificando le terre dove sono arrivate, cambiando il paesaggio, influenzando le abitudini degli animali e la linea di demarcazione tra erbe spontanee e coltivabili, il procedere è qui in un ciclo stretto, privo di confini netti. Secondo i tempi delle lune – che alternamente favoriscono crescita di radici e parti aeree – e i calendari delle semine. Quelli, tra divagazioni su zuppe invernali di broccoli e legumi, fantasiose etimologie di piante e consigli di manutenzione degli attrezzi, che dal lontano 1762 ancora annualmente pubblica il glorioso Almanacco Barbanera per accompagnare le stagioni.

A partir da quando la primavera stenta ancora a partire e si procede nella scelta di sementi di varietà diverse, per arrivare ai primi raccolti. Finito il tempo dell’attesa, d’un tratto la crescita accelera al punto che, dopo la raccolta del mattino, occorre tornare a vagar nell’orto per vedere quel che maturerà nell’arco della giornata.

Camille Pissarro, Potager, 1878, Tokio, Artizon Museum

Considerazioni su temi generali, come redistribuire l’accesso a coltivazione e riproduzione delle sementi, recuperare aggiornandoli alle nuove necessità e scoperte i saperi contadini, opporsi alle pratiche dell’agricoltura intensiva, della grande distribuzione e delle logiche dei brevetti sul vivente, si avvicendano a passeggiate di osservazione serali in un orto fitto di nascondigli. Dove la comunanza con animali e piante ci aiuta a rimettere in prospettiva le nostre posture, fatte di illusioni di controllo e dominio, riguardo a una natura troppo spesso percepita come separata, esterna, frequentabile nella forma residua di esperienze confezionate come prodotti di mercato.

Al ritratto tributato all’amarena prediletta, s’alternano un excursus sui carciofi, pianta che eccezionalmente traguarda le stagioni, come pure i lamponi, o la storia della zucca. Delle varie specie diffuse dall’antichità in Europa, per quanto piuttosto utilizzate per conservare e trasportare liquidi, e soppiantate dalle varietà introdotte qui da noi dagli spagnoli e provenienti da Messico e Perù dov’erano diffuse da oltre 6000 anni. Per via di incroci, anche quella a forma di turbante, detta Marina di Chioggia, innesco delle Baruffe chiozzotte del Goldoni.

Alfred Sisley, The Kitchen Garden, 1872, Kimbell Art Museum

Finché con l’orto estivo, sospeso per il caldo ben oltre l’annaffiare, tutto appare andar da sé: è un’esagerazione continua, un tripudio, un affannarsi a raccogliere. E, finita la frenesia dell’estate, dopo la giungla ormai inselvatichita di quello estivo, l’orto invernale comincia lentamente a prender forma per un nuovo inizio. Mentre il terreno si rigenera, a febbraio ancora svettano i finocchi, lasciati crescere per arrivare al seme.

Barbara Bernardini, Dall’orto al mondo, Piccolo manuale di resistenza ecologica, Nottetempo, pp. 262, € 17,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 25, Supplemento de Il Manifesto del 25 giugno 2023

Camille Pissaro, Dans le potager à Pontoise,1881

Febbre vegetale per piante da appartamento

In vari gradi di approssimazione, dai cortili di case e palazzi progettati con svettar di piante su aiuole rialzate, così da poterle osservare dall’interno, a quelle trapiantate tra le mura domestiche, in vasi e urne, serre e terrari, le presenze vegetali disseminate nei più diversi spazi abitativi vantano una loro lunga storia. Fino all’attuale, talvolta incoerente, pervasiva febbre vegetale per le piante da appartamento.

Così ci racconta, pur senza troppe pretese, Molly Williams nel suo volume La tua casa botanica. La strana e sensazionale storia delle piante da appartamento e tutti i segreti per prendersene cura, Aboca, pp. 244, € 19,50. Dall’uso romano di abbellire case e spazi pubblici con fiori recisi posti in contenitori in ceramica e fioriere rinvenute dagli scavi archeologici, anche negli atrii delle case minori, all’arte orientale di ricreare scenari naturali in miniatura, che si tratti dei cinesi penjing sistemati su scaffali di librerie o bassi tavolini, del vietnamita hòn non bô, o di quelli ormai noti come bonsai, presenza essenziale nella cultura giapponese, ma divenuti fenomeno diffuso di segno globale. Testimonianza di un esito tra gli altri della svolta costituita dall’imperialismo botanico avviato con la scoperta dei nuovi mondi, è, degli inizi del 600, la pubblicazione del primo manuale di giardinaggio con una sezione interamente riservata alle piante da appartamento. Perlopiù da quei mondi provenienti. Con fiori profumati che hanno allora anche la funzione di contenere l’assedio dei miasmi cittadini. E il grande favore che riscuotono gli agrumi che profumatamente fioriscono d’inverno – indice peraltro della ricchezza dei loro proprietari, in primis Luigi XIV con la sua collezione di oltre 3.000 piante per l’Orangerie –, o i bulbi da fiore che possono essere forzati al chiuso, anticipando le stagioni.

dal Catalogo di bulbi Roots, seeds and garden requisites (1900)

Di pari passo con il commercio delle piante rare, in particolare poi di quelle “resistenti”, capaci cioè di adeguarsi ad habitat così diversi, si va diffondendo nel 700 un vero mercato dei vasi, nonché, in epoca vittoriana, di terrari sempre più elaborati, giardini di inverno e serre riscaldate.

Fino alla realizzazione ad esse ispirata del Crystal Palace disegnato da Joseph Paxton nel 1851 per l’Esposizione universale di Hyde Park, a Londra.

Con la nuova febbre delle orchidee prosegue anche la mania per i bulbi, anche se il tulipano è stato ormai soppiantato dal giacinto. E sullo sfondo delle foto d’epoca, silhouette di palme kentia (Howea forsteriana) o aspidistre campeggiano onnipresenti tra gruppi di famiglia, e perfino tra gli sfarzosi arredi del Titanic in partenza nel 1912,dove, ovunque sui tavoli e negli angoli, figurano anche filodendri, edere e palme, indice anch’esse di un lusso consonante.

In questa fase, molti libri sulle piante da coltivare in casa vengono scritti da donne per le donne. Così come spesso saranno poi le donne, con il loro nutrito ingresso nel mondo del lavoro del secondo dopoguerra a portare con sé le piante in ufficio.

Già con la fine degli anni ’20, le piante destinate a essere coltivate all’interno risultano per la prima volta facilmente disponibili sul mercato al dettaglio, a un prezzo abbordabile. Mentre, di pari passo con i mutamenti di stile, costruttivi e di arredo, delle abitazioni – finestre più grandi, soffitti più alti, nuovi sistemi di riscaldamento –, si determinano differenti atmosfere di coltivazione. Se il liberty porta anche negli interni linee e forme naturali spesso ispirate alla vegetazione, le successive tendenze si inscrivono in un sempre più stretto rapporto tra natura e sviluppo urbano. Anche le piante si adeguano: al modernismo, nelle loro varianti più scultoree; con la Monstera deliciosa negli anni ’60; e, per i ’70, con ficus, filodendri tropicali e terrari, nonché l’iconica pianta ragno, il falangio (Chlorophytum comosum). Crescendo senza radici nel terreno, quelle epifite risultano perfette per gli uffici (assieme all’introduzione per le altre dei vasi con riserva d’acqua). Dopo la giungla domestica anni ’70, con la mania dei portavasi in macramè, rifluisce il rarefatto, disimpegnato (nella cura), minimalismo anni ’80. Fino all’emergenza delle orchidee anni ’90 e, più di recente, delle piante da lockdown, con la domanda che sale alle stelle, e l’impazzare sui social di plantfluencers di vario conio.

Anni ’60, Grandi esemplari di monstera nella Eames House, Edward Stojakovic

E con sullo sfondo la preoccupazione di come pericolosamente funzionino, oggi come ieri, pur tra reti di biosicurezza e normative doganali, le dinamiche del commercio delle piante. Magari di quelle rare, o a rischio; illegalmente sottratte al loro habitat naturale in una sorta di nuovo bracconaggio.

Molly Williams, La tua casa botanica. La strana e sensazionale storia delle piante da appartamento e tutti i segreti per prendersene cura, Aboca, pp. 244, € 19,50, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 23, Supplemento de Il Manifesto del 11 giugno 2023

Vincent Van Gogh, Ortica in vaso da fiori, 1886

La mimesi creativa delle orchidee

Come per pochissime altre piante, l’incrocio felice tra alcune delle incredibili specificità botaniche delle orchidee e l’addensarsi su di esse di significati simbolici e proiezioni culturali ha caratterizzato assieme la loro diffusione sul pianeta e la nostra consuetudine e fin dimestichezza con almeno alcune di esse.

In un lungo percorso evolutivo, affinato in una mirabile vicenda di ingegnosi intrecci e diversificazioni, questa enorme, variegata famiglia composta da migliaia di specie differenti – circa un decimo di tutti i fiori che popolano il pianeta – ridotta sotto il termine ombrello di orchidea, è riuscita, come ci racconta Alessandro Wagner nel suo Fare l’amore come un’orchidea, a colonizzare i più diversi habitat attraverso un incredibile numero di varianti in diversi formati, dai pochi grammi ai diversi metri di altezza e qualche tonnellata di peso (Storia e mirabilia del fiore più intelligente del mondo, Ponte alle grazie, pp. 246, € 18).

Per altro verso, l’assidua frequentazione tra umani e orchidee si conferma nella loro presenza nelle più remote culture. In quella orientale e nella sua estetica, già da Confucio, come emblema di purezza e di innocenza, forza d’animo, nobiltà di carattere e modestia, grazia e gentilezza. Nonché di bellezza dai tratti essenziali ed eleganti ispirata specialmente dai Cymbidium, un genere allora diffusissimo di orchidee miniature con piccoli fiori cerosi, caratterizzati da profumi soavi, colori intensi, eppure discreti, molto spesso stilizzati e raffigurati in pittura.

Marianne North, Orchidee e altre piante del Sarawak, Borneo

Poi in Occidente, dove il termine orchidea appare nella Historia Plantarum di Teofrasto, con riferimento all’aspetto dei bulbi che ricordano quello dei testicoli umani, con annessa, presunta associazione al seguito di proprietà afrodisiache. E non a caso, la bellezza dei suoi fiori verrà poi spesso collegata alla dimensione erotica e all’arte della seduzione, fino allo stereotipo che collega bellezza femminile e orchidee. Ma questo, solo in secoli recenti. Le orchidee europee, difatti, quelle conosciute dai popoli mediterranei sin dall’antichità, erano piante ben diverse da quelle oggi solitamente evocate con questo nome. Erano molto rustiche, piante annuali, minute, perlopiù terricole, che crescevano da un bulbo o un rizoma, poco vistose e interessanti sotto il profilo estetico.

È soltanto con l’epoca dei grandi viaggi di esplorazione che l’Occidente conoscerà quelle invece eleganti, appariscenti, spesso strabilianti e in gran misura rare, provenienti dalle foreste tropicali, fin lì perlopiù inesplorate, che nell’arco di pochi decenni, sbarcate dalle navi di botanici e cacciatori di piante sconvolgono, per vastità e variabilità impreviste, il panorama delle categorie vegetali europee e i tentativi di ordinamento delle tassonomie linneiane. Nuove specie, con nuovi nomi da inventare

E, proprio nelle foreste tropicali, 35 milioni di anni fa si era attuato uno dei principali snodi del percorso evolutivo delle orchidee che avevano cominciato ad arrampicarsi sugli alberi liberandosi dal vincolo di uno spazio affollato di concorrenti vegetali e animali. Anche se già un paio di milioni di anni prima, dopo la grande estinzione del Cretaceo, quando esisteva una sola linea evolutiva di orchidee, queste avevano messo a punto un’altra invenzione, quella dei pollinia, aggregazioni di polline, poi specializzati per essere affidati alla consegna esclusiva ad altri fiori della stessa specie da parte di diversi corrieri del mondo animale.

Martin Johnson Heade, Orchidea e colibrì nei pressi di Mountain Lake, c. 1875–90, Boston College

Sarà proprio ripercorrendo l’evoluzione dei diversi stratagemmi congegnati dalle orchidee per attirare i grandi insetti e i colibrì delle foreste tropicali, sviluppando fiori dalle forme e colori vistosi e dall’ingegnosa morfologia dei meccanismi funzionali all’impollinazione, che Darwin appassionato di orchidee, tra quelle selvatiche dei dintorni e una discreta collezione di tropicali, risponde, poco più di due anni dopo L’origine della specie, a quanti avevano criticavato la sua teoria. Nel 1862, pubblicando il volumetto sulla Fertilizzazione delle orchidee, sottolinea proprio nel funzionamento del loro apparato riproduttore, il rilievo della fecondazione incrociata.

Risultato, lo sviluppo di una vertiginosa differenziazione in nuove specie – fissato nelle cinque sottofamiglie – per arrivare alla più diffusa, quella delle Epidendroideae, tra le epifite, che oggi sono l’80% delle specie delle orchidee.

Con l’inizio dell’800, il massiccio arrivo in Europa delle inconsuete, spettacolari orchidee tropicali si innesta su una diffusa passione tributata alle piante del nuovo mondo, soprattutto quelle tropicali, tra l’aristocrazia e la borghesia finanziaria e mercantile, specialmente inglese.

Ma, in ragione della loro difficoltà ad acclimatarsi e dato che allora non si conosce ancora il modo per riprodurle, le orchidee risultano spesso, rispetto alle altre piante, esemplari unici, rare presenze evanescenti da collezionare. Un bene di valore da vantare e mettere in mostra, presto diventato status symbol.

Marianne North, Orchidee brasiliane e altre epifite

La maggior parte non sopravvive alle lunghe traversate oceaniche e per mantenerle in vita replicando le condizioni dell’ambiente di origine occorrevano serre estremamente costose. Almeno fino all’abolizione della tassa sul vetro nel 1845, a partire da quando, per almeno cinquanta anni, il collezionismo di orchidee conosce un grande incremento, alla frenetica ricerca di rarità. E al tempo stesso, una sorta di democratizzazione, dato che per ospitarle non occorrevano vasti possedimenti.

da un Catalogo di bulbi Roots, seeds and garden requisites (1900)

Ai cacciatori di piante inviati alla loro ricerca dagli orti botanici nelle foreste tropicali, si affiancano presto quelli delle prime ditte specializzate in orchidee che ne promuovono la vendita in aste specializzate, ricorrendo anche a spregiudicate trovate di marketing come l’enfasi sulla storia della Cattleya labiata ‘vera’, a lungo ritenuta perduta e di cui si annuncia sulle maggiori testate dell’epoca il ritrovamento in Brasile nel 1891, o sul rarissimo Dendrobium phalaenopsis varietà schroederianum, battuto, in forma macabra, per esser venduto come rinvenuto, assiema al teschio umano sul quale cresceva.

Un episodio dai tratti romanzati che ben si inscrive nel genere letterario allora agli esordi dell’Orchid horror. Dalla omonima novella di John Blunt, pubblicata sulla rivista popolare da 500.000 copie The Argosy nel 1911, dove si anticipa il filone centrato sull’identificazione fra orchidea e femminilità escogitatrice di inganni malvagi, con vere e proprie propaggini cinematografiche e un inedito intersecarsi di territori con la scienza, talché le piante finiscono per esser guardate sotto una nuova luce.

Orchidea Bionda nella rivisitazione di Mimmo Rotella

Se anche Marcel Proust utilizzerà le orchidee per due memorabili metafore, è soprattutto nel genere poliziesco che l’orchidea si ritrova associata a crimini e delitti, sulle pagine e sugli schermi. A partire da Marylin Monroe di Orchidea bionda (1948, nella traduzione italiana), Wagner sostiene non esista un altro fiore così di frequente citato nei titoli dei film (dove spesso con la trama poco davvero c’entrano le orchidee). Si tratta perlopiù di utilizzi “botanicamente” approssimativi e incongrui.

Diverso è il caso del personaggio dell’investigatore Nero Wolfe (dal 1934) e del suo creatore Rex Stout, entrambi esperti competenti (Wolfe, raffinato ibridatore, ha 10 mila piante di orchidee, Stout ‘solo’ 300) e espressione del fenomeno di un nuovo, diffuso collezionismo di orchidee che si stava sviluppando, in particolare negli Usa, tra associazionismo, concorsi, esposizioni e la corsa alla creazione di nuovi ibridi. Che nell’ultimo secolo infatti vedono aggiungere alle 30.000 e oltre specie in cui le orchidee sono andate differenziandosi nei miei primi cento milioni di anni di vita, altre 100.000 nuove, differenti orchidee create dall’uomo.

Per quanto spesso travisandone l’essenza, i successi romanzati contribuiscono alla fama delle orchidee – nonché a un protagonismo finalmente vegetale – e dal secondo dopoguerra, ben oltre il mondo di ibridatori e collezionisti amatori, l’orchidea diventa estremamente diffusa e popolare nelle sue forme più gestibili, specialmente delle Phalaenopsis, anche come pianta di appartamento, con le sue generose fioriture, economica e poco ingombrante con il suo andamento monopodiale.

E chissà che anche questa relazione non sia che una variante di un più ampio meccanismo.

Wagner sottolinea come nella specificità delle orchidee, fragilità e successo vadano insieme. In un percorso di superspecializzazione e simbiosi stretta, sempre specifica, con animali impollinatori e funghi simbionti che, soli, consentono ai semi di germinare. Con una capacità di mimesi multipla che, dall’assunzione da parte dei fiori delle Ophrys delle sembianze specifiche delle femmine dell’imenottero che hanno scelto come impollinatore (fiori che, quindi, i maschi ingannati finiscono per impollinare in una pseudocopulazione ‘mimetica’), arriva perfino, con il genere Dracula che deve attirare i suoi moscerini impollinatori,a imitare nei disegni, nella consistenza nei tessuti e nell’odore, il regno dei funghi dove questi ultimi vivono.

In questo caso, una mimesi multipla, indiretta e ancor più sofisticata. Intesa non tanto a imitare un soggetto (l’imenottero femmina) ma a ricreare un intero ambiente. E neanche copiandolo da un modello preciso, ma creando una nuova versione di fungo gradita al moscerino. Inventando un nuovo mondo, inesistente in natura.

Alessandro Wagner, Fare l’amore come un’orchidea. Storia e mirabilia del fiore più intelligente del mondo, Ponte alle grazie, pp. 246, € 18, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 21, Supplemento de Il Manifesto del 4 giugno 2023

In una particolare strategia mimetica le Orchidea Dracula imitano, nell’aspetto e nel profumo, funghi simili a quelli dai quali normalmente sono attratti gli insetti che, così ingannati, finiscono per favorire l’impollinazione dei loro fiori

In giardino, le piccole porte del padiglione per la cerimonia del tè

Come a riprodurre una percezione del tempo che in giardino scorre sempre indistinto, malgrado le stagioni, magari con accelerazioni e rallentamenti, in un divenire che prescinde dagli obiettivi, così le annotazioni ricavate da Miki Sakamoto in quel che definisce il suo percorso di accompagnamento, al giardino raccolte sotto l’impegnativo e, s’Immagina, dissacrante titolo Lo zen e l’estasi del giardinaggio. Una guida poetica alla cura consapevole della Natura, si susseguono sulla pagina come una sorta di flusso di coscienza. Un porsi domande in un dialogo di molteplici compresenze dove la descrizione delle esperienze personali, osservazioni, dubbi e intuizioni, le immagini raccolte e conservate anno dopo anno, tentano piuttosto di supplire alle parole nell’intenzione di trasmetterci l’essenza del suo comunicare con il giardino (Mondadori, pp. 192, € 13,50).

Mizuno Toshikata, Cerimonia del te, 1896

Per illustrare come lo zen vi si realizzi, prendendo in prestito dalla natura i suoi motivi, contribuendo a rivelare il paesaggio di esperienze interiori in una armonia più grande, verso una più ampia consonanza. In giardino, sostiene l’autrice con leggerezza e a tratti ironia, piccoli accadimenti, epifanie, sensazioni, confluiscono in una lettura del mondo, e quindi di noi stessi, che si fa riflessione contemplativa, esercizio di meditazione. Con un atteggiamento che consente di inserirci nella complessità di rapporti, processi, interazioni, accettarne l’impermanenza, prender parte nella pluralità del gioco dei compagni di strada al fluire di un continuo, differente rigenerarsi, del crescere e decomporsi, dell’aspettare, nell’avvicendamento di nascita e morte, di un tempo invariato.

Trapiantata ormai da molti anni in Germania, provenendo da un’antica nobile famiglia giapponese, Miki Sakamoto, che si è formata a Tokyo e poi come antropologa culturale a Monaco, scrive del suo giardino con orto nella periferia di una cittadina della Baviera sudorientale, a cinquanta chilometri dalle Alpi ma con un clima relativamente mite, a quattrocento metri sul livello del mare, tornando spesso ai suoi anni giovanili nel giardino dei nonni con annesso padiglione per la cerimonia del tè, cui si accedeva, inchinandosi, dai quattro i punti cardinali, da piccole porticine, allora ben adatte alla sua statura infantile. Oggi, il suo personale padiglione del tè consiste in un gazebo esagonale in legno nell’angolo nordoccidentale del giardino.

Le connessioni con la cultura del giardino giapponese tornano spesso nelle riflessioni, a partire appunto da questa cerimonia, uno dei possibili percorsi del buddhismo zen, così strettamente collegato al giardino con i molti suoi luoghi dove soffermarsi, fino i concetti di shakkei, il paesaggio preso in prestito, oltre i suoi confini, alla sensibilità per la cosiddetta bellezza dell’imperfezione, e fino alle differenti predilezioni, qui per la rosa, invece di quei crisantemi arrivati forse in Europa da troppo poco tempo (nel 1789) per esser considerati come in Oriente pregiate piante da giardino, espressione di raffinata modestia con cui augurare una lunga vita e divenuti invece addobbo tombale.

Spesso impigliate negli attimi, le annotazioni svisano nel volume tra considerazioni sulla vita delle pratoline, nate dove meglio credono, al mistero del come lo sbucare dei bucaneve tra il muschio e la neve conosca il suo momento propizio, su come si possa dedurre dal volo delle api che le piante di ribes e lamponi han cominciato a sbocciare, fino alla traduzione affettuosa, da lessico familiare, delle Bellis perennis come fiori “perennemente belli” e all’osservazione delle infiorescenze uscite dalle grosse gemme sui rami dei noccioli, come minuscoli polipi, e di come i fiori femminili dai filamenti rossi catturino il polline che passa loro vicino con vischiose zampette da ragno.

The Japanese Teahouse, Englischer Garten in Munich

Un inventario dove, per quanto neanche nel ristretto del giardino si colga intera la complessità di rapporti e interazioni, pur ci si dice come in essa ci si senta immersi, coinvolti, contemporaneamente osservatori e coprotagonisti nella differenza e interconnessione.

E allora vale il profumo del terriccio come respiro della terra, la consapevolezza di come la maggior parte degli alberi e dei cespugli sia una specie di lascito (e che il nocciolo è venuto su da solo), di come i giardini siano spesso tra gli ultimi spazi vitali rimasti ad api selvatiche e farfalle.

Vale, la lode di farfalle e forbicine, un fare in giardino intriso del saper aspettare e di pazienza, che pure include l’imprevisto e l’inatteso, che del giardino son propri, vale il seguire il tracciato del volo delle lucciole, che impegnando gli occhi, rallenta i pensieri, o il tempo di osservare come gli orli del calice dell’ipomoea, aperti già di primo mattino, verso mezzogiorno si riattorcigliano, per appassire al più tardi la sera. Vale il restare ad ascoltar le cinciallegre, o i richiami di un ciuffolotto che presto divengono parte di quella pacatezza attiva che il giardinaggio aiuta a sviluppare.

Miki Sakamoto, Lo zen e l’estasi del giardinaggio. Una guida poetica alla cura consapevole della Natura, Mondadori, pp. 192, € 13,50, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 19, Supplemento de Il Manifesto del 28 maggio 2023

Paleobotanica attuale delle foreste tropicali

Protagonista dello studio  della canopia delle foreste tropicali – delle sommità cioè dei grandi alberi, indagati a partire da un laboratorio sospeso tra le loro cime, il Radeau des cimes, una zattera-pallone aerostatico che fluttua nel verde – il botanico esploratore controcorrente Francis Hallé prova a definire qualcosa di così familiare, eppure irriducibile nelle sue molteplici fisionomie, funzioni e relazioni impersonate nelle realtà ambientali più diverse, com’è l’albero,  suggerendo di tener conto di molti caratteri arcaici che presentano quelli delle latitudini molto basse, a configurare una sorta di “paleobotanica attuale” e fin anche una norma tropicale, una doxa cui sarebbero naturalmente soggetti gli esseri viventi sulle terre.

Nel suo In difesa dell’albero, Nottetempo, pp. 216, € 25, analizza con un approccio architettonico il meccanismo fondamentale della crescita per reiterazione, che lascia intendere come l’albero divenga, via via, una vera e propria colonia. Con le proprietà di competizione, messa in atto tra le diverse unità architettoniche che costituiscono uno stesso albero, e collaborazione, quando queste, smettendo di svolgere le stesse funzioni, adottano specializzazioni diverse. Fino a interrogarsi sulla possibile variabilità e eterogeneità del genoma all’interno di uno stesso albero e quindi su come lo si possa considerare un organismo unitario la cui individualità si attenua a vantaggio di una condizione coloniale, o piuttosto una nuova individualità che va acquisendo caratteri d’individuo da una colonia in corso di integrazione.

Con partecipazione contagiosa Hallé racconta di specifici incontri. Della biologia come dell’importante ruolo sociale in tutta l’Asia tropicale del Durian, della sorprendente plasticità ecologica dell’Eucaliptus e della sua globalizzazione, frutto di una sfrenata arboricoltura produttivista, dell’epica storia dell’Albero del caucciù che, oltre gli amerindi, lungo cinque secoli, è andata cambiando la faccia del mondo. Dal dominio sulla foresta amazzonica e i suoi abitanti da parte dei “baroni del caucciù”, taluni famosi come Fitzcarraldo, ai tentativi di produrre gomme sintetiche… ai ritorni alla raccolta forestale durante gli embarghi imposti dalla la seconda guerra mondiale, con il collegato rilievo negli armamenti dell’impiego della gomma (tanto da imporne il riciclaggio di guerra).

Halle, Nous les arbres, Exposition à la Fondation Cartier

Oltre a interrogarsi sulle fitopratiche tradizionali (relative alla conservazione dell’acqua, l’aumento del rendimento di fruttiferi, da salvaguardare e promuovere, generalizzandole), fenomeni come la crescita elicoidale, le saldature radicali, l’avvolgimento dei ceppi, ripercorre le tappe della stretta coesistenza tra albero e uomo, indagando, tra ipotesi concorrenti, di caratteristiche riconducili anche a un modo di vita arboricolo, a partire dalla verticalità o la vita diurna, la nostra eredità arboricola, esito di una storia evolutiva comune. E l’idea che gli alberi abbiano significativamente contribuito a plasmarci.

Francis Hallé, In difesa dell’albero, Nottetempo, pp. 216, € 25, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 17, Supplemento de Il Manifesto del 14 maggio 2023

Halle, Sophora Japonica, 2019, Extrait de carnet

Trasposizioni della natura e mo(n)di per stare assieme

Malgrado il progressivo convergere di ripensamenti in prospettiva critica da ambiti disciplinari diversi, stenta ancora a farsi strada nel dibattito e nel senso comune l’urgenza di ridefinire altrimenti il binomio oppositivo natura-cultura, così a lungo e costitutivamente preso a paradigma del mondo, quantomeno nella cultura occidentale. Con tutte le ricadute a cascata di un dualismo, quando non antitesi, che vede l’uomo separato dalla natura con il suo porsi al di fuori e sopra di essa, autoescludendosi dalle comunità biotiche. Ritenendo perciò la cultura un fatto esclusivamente umano e riducendo la natura a materia, oggetto inerte, sfondo per le proprie attività e, conseguentemente, giustificandone lo sfruttamento senza limiti. Una natura altro da noi, che può esser mercificata e messa a profitto, resa privatizzabile, brevettabile, vendibile

Nell’ambito degli studi delle humanitates ambientali che considerano invece l’uomo immerso nella trama di relazioni con il vivente in un sistema di interdipendenze ecologiche – e, sempre più consapevolmente, in implicazione profonda con un mondo non-umano, studiando quindi modi interconnessi e impatti trasformativi delle connessioni che vi si danno –, l’antropologia evidenzia al riguardo come questa concezione oppositiva natura-cultura sia una costruzione culturale (come peraltro già anche quella sia di natura che di cultura). Una soltanto delle possibili visioni. Occidentale, antropocentrica.

Mario Schifano, Finestra sul giardino, anni 80

Una concettualizzazione della natura come oggetto esterno, da dominare, da Aristotele alla proiezione umanocentrica del sacro delle religioni monoteiste, da una teologia cristiana che vuole l’essere umano a immagine di Dio dominante all’umanesimo della prospettiva, al dualismo cartesiano tra soggetto conoscente e oggetto della conoscenza e, via illuminismo e positivismo degli stati nazione, con relativa riduzione della natura a spazio quantificabile a disposizione per uno sfruttamento razionale. In una costruzione culturale, spesso motore del colonialismo, che esporta e impone questa visione anche alle popolazioni indigene. Anche là dove questa distinzione non rileva senso, dove son diffusi altri modi di intendere il vivente come sistema di relazioni (di cui si è parte) da conservare, mondi abitati da piante, animali, montagne. Soggetti, persone non umane, in un’irriducibile parentela in metamorfosi continua.

Piero Gilardi, Sassi, 1967

Di questi temi, con l’esperienza della sua ricerca etnografica, specie nel sud est asiatico, e lo guardo di antropologo applicato, ripercorre da capo a grandi balzi i termini del dibattito Andrea Staid nel suo volume Essere natura. Uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente, UTET, pp. 131, € 15,00. Considerando le classificazioni delle diverse visioni culturali riguardo alla natura, da Bruno Latour a Tim Ingold, da Philippe Descola a Eduardo Viveiros de Castro, ad Anna Lowenhaupt Tsing ed Eduardo Khon. E tenendo presenti le acquisizioni della neurobiologia vegetale di Stefano Mancuso o le suggestioni di Emanuele Coccia, del “fare mondo” ispirato dalle piante.

Decolonizzare il nostro pensiero dalla dicotomia di cui sopra – che rischia altrimenti di condizionare anche il nostro modo di pensare l’ecologia, immaginando di preservare una natura come oggetto, con l’illusione securitaria di zone inviolate o scivolando in forme di ecoturismo e vario green washing – relativizza la conseguente idea di progresso e sviluppo infinito del capitalismo, donde derivano degrado di suoli agricoli, per monocolture intensive e deforestazione, esponenziale crescita edilizia e di grandi infrastrutture, produzione incontrollata di rifiuti tossici. Con esiti devastanti, dalla frammentazione e trasformazione dei paesaggi e perdita di biodiversità determinate da un imperante estrattivisimo a un vero e proprio ecocidio, con la distruzione consapevole di interi ambienti naturali. Insomma, tutta una serie di fattori corresponsabili dell’accelerazione del cambiamento climatico con le ricadute in termini di interrelazioni tra conflitti sociali e giustizia ambientale e di genere.

Al centro del volume resta la difficoltà di pensare a ciò che chiamiamo natura come una totalità, organismo vivente di cui facciamo parte imparando a fondarne i diritti, come comincia a essere nelle costituzioni di alcuni stati: la difficoltà di condividere questa scoperta e il racconto della soggettività plurale in una consapevolezza che sappia farsi traduzione pratica.

In questo, nella sua dimensione molecolare, il giardino ci aiuta come occasione di presa di coscienza di un continuo, inesausto negoziato con i vari protagonisti del vivente, dove sperimentare e coltivare contraddizioni, alla ricerca di nuovi equilibri e in una complessiva riconsiderazione critica delle forme di stare, assieme agli altri, al mondo.

Andrea Staid, Essere natura. Uno sguardo antropologico per cambiare il nostro rapporto con l’ambiente, UTET, pp. 131, € 15,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 15, Supplemento de Il Manifesto del 30 aprile 2023

Graziana Pentich, Giardino universo, c. 1970

Giardini storici d’Italia. Episodi tra mode e sodalizi di prossimità

La moltitudine di giardini storici distribuiti sul territorio italiano in fitta trama testimonia, anche nella loro dimensione minore, magari in piccoli centri, realtà laterali, snodi secondari, del loro ruolo nella storia culturale e del gusto della penisola, nella dialettica sempre attiva tra ampi orizzonti, mode, processi e tendenze generali, da un lato, e specificità locali, tra sodalizi di prossimità e sistemi di relazioni internazionali.

Come primo volume di una nuova collana di monografie dedicata appunto ai giardini storici italiani aperti alla visita, la paesaggista Irma Beniamino indaga con dovizia di documentazione, tavole e disegni, e felice capacità narrativa le vicende di quello piemontese, sulla collina del Chivassese, de Il castello di San Sebastiano da Po, con la scelta che, per noi incomprensibilmente, omette però dal titolo il fulcro del tema, il giardino (e ciò, parrebbe, anche per i prossimi volumi, annunciati con firme prestigiose come quello di  Alberta Campitelli e Sofia Varoli Piazza dedicato a Il Castello Ruspoli di Vignanello, ma, si immagina, ancora una volta, piuttosto ai suoi importanti giardini (Neos edizioni, pp. 192, € 24,00).

Dal progetto del giardino di Bernardo Antonio Vittone

In auge particolarmente negli anni tra seconda metà del Settecento e tardo Ottocento, anche questo giardino interpreta e riflette le diverse fasi attraversate. Occasione e precipitato volta a volta di interazioni varie tra artificio compositivo, cultura botanica, collezionismo e socialità correlate, dal ridisegno barocco a opera di Bernardo Antonio Vittone – che lo amplia con bordure, parterre simmetrici, un asse visuale prospettico, tipicamente terminante con un’esedra semicircolare, la terrazza affacciata sul panorama collinare – al dissolvimento della struttura formale operata poi, a partire dal 1815, dal progettista Xavier Kurten secondo il nuovo stile paesaggistico d’ispirazione inglese, con percorsi sinuosi, radure a prato, sistemazione della collina a boschetto, dove, improvvisa, si disvela la visuale sul paesaggio della piana del Po fino alla catena alpina.

Assieme al ruolo di progettisti (e giardinieri cui opportunamente si riserva una specifica attenzione), con particolare rilievo emerge la regia tra i proprietari del conte Luigi Raimondo Novarina, conosciuto come marchese De Spin. Alla cui competenza e passone collezionistica in progressione si deve la costituzione qui di un vero e proprio giardino botanico, presto noto ben oltre il Piemonte, in Europa, per rarità conservate e accurata organizzazione di raccolte di piante esotiche.

Serra del giardino superiore

Scambi epistolari – nonché di semi e piante – in una fitta rete di corrispondenze scientifiche, analisi di cabrei e registri dei conti di casa ne restituiscono la vita e la fisionomia. Acquisto e posa di viti, carpini e biancospini, demolizioni, progetti per il giardino esteriore, la citroniera per ospitarle durante l’inverno agrumi e gelsomini (e utilizzata d’estate come bigattiera per i bachi da seta), la costruzione di serre a vetri inclinati ombreggiate da teleroni e della vasca circolare come riserva idrica, gli acquisti presso un nuovo mercante lionese, l’introduzione e diffusione di specie esotiche, ma anche di spalliere di fruttiferi e colture agricole di diversa utilità.

I viaggi botanici (fin anche a Londra) compiuti ogni estate dal De Spin, le relazioni intrattenute con botanici e collezionisti raccontano dell’accrescersi delle rarità nella collezione e della ricerca continua di attribuzioni sistematiche e aggiornamenti della nomenclatura, confermati nella stampa di diversi Cataloghi del giardino, con ritratti delle piante esotiche e periodiche revisioni, fino a quella del 1818 che recensisce 2.848 entità appartenenti a 708 generi (e fin anche a un Catalogo di vendita del 1825 per proporre le piante in soprannumero).

Frontespizio del catalogo delle piante del giardino

Alienate le collezioni di piante esotiche dopo la morte di De Spin nel 1833, con la metà del secolo e con il conte Camillo Miglioretti, il giardino avrà un nuovo impulso: una sistemazione aggiornata con la costruzione del tempietto neoclassico a 4 colonne collocato tra le serre, la realizzazione del “passeggio di fuori dal giardino”, la ripresa dei sistemi di spalliere e controspalliere di fruttiferi, con predilezione per le novità varietali di origine francese. Un giardino “fruttaiuolo” dove non mancano camelie, rose, calicanti, forsythia, spiree, magnolie, buddleya, ortensie. E la collezione di 130 dalie accuratamente descritte, divenute a cavallo del 900 elemento caratterizzante della veste estiva del giardino.

Irma Beniamino, Il castello di San Sebastiano da Po, Neos edizioni, pp. 192, € 24,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 14, Supplemento de Il Manifesto del 23 aprile 2023

PS. Se una serie di interessanti contributi in apparato son disponibili nella versione digitale che arricchisce il volume, questa incorpora però anche le note al testo, che quindi occorrerà consultare in andirivieni con il cartaceo. Una vera crudeltà.

Pianta del giardino piccolo

Fiori rosa sotto le bombe: Orwell

Nell’immagine prevalente dello scrittore tutto politico George Orwell spesso sfugge come egli trascorresse davvero molto tempo con i fiori, dedicando loro un’attenzione che tradisce anche allorché deve allontanarsene. Come quando, in una Londra incessantemente bombardata, rivolgendosi nel 1944 ai lettori del settimanale socialista Tribune chiede se conoscono il nome di quella “erbaccia che fa fiori rosa e cresce così abbondante” tra le macerie.

Nella sua vita di molti mestieri, poi di giornalista e saggista politico e di scrittore aveva, quando possibile, scelto di vivere in campagna, allestendo giardini. Due in particolare, come ci racconta la scrittrice e saggista Rebecca Solnit nel suo Le rose di Orwell (Ponte alle grazie, pp. 342, € 20,00) in questa rivisitazione che come confessa è anche un libro sulla rosa nelle sue molte declinazioni ed è pure un libro di molte divagazioni su questioni come la politicizzazione della scienza, lo sfruttamento delle fabbriche di rose di Bogotà, le origini di uno slogan famoso che abbina le rose al pane, l’ossessione di Stalin di acclimatare limoni in Crimea, le implicazioni dell’imperialismo britannico e i benefici che ne avevan tratto le generazioni subito precedenti della famiglia Blair (il cognome di Orwell prima di assumere questo pseudonimo).

Orwell a Wallington, 1939

Il primo giardino, quello del cottage di Wallington, è nella campagna dell’Hertfordshire nel Sud dell’Inghilterra, dove Orwell era andato a vivere nell’aprile del 1936, raggiunto poco dopo da Londra da Eileen O’Shaughnessy che avrebbe poi sposato nella chiesa locale. Un giardino con animali allestito con rose a buon mercato – come precisa – e alberi da frutto, e di cui narra in dettagliatissimi diari domestici.

A Barnhill, il secondo e più ambizioso, dove, dopo la morte della moglie, dal 1946 tornò a seminare nel paesaggio ondulato il futuro in un orto con lupini, viole del pensiero, primule, rose, tulipani, alberi da frutto: una fattoria isolata non distante dalla costa orientale nell’isola di Jura, nelle Ebridi, di fronte alla Scozia. Luogo remoto in cui trascorse tutto il tempo che gli riusciva durante i suoi ultimi anni di vita. In uno degli andirivieni annota sul diario di esser passato, nei pressi di Newcastle, sulla tomba di Eileen: dove “tutte le rose polyantha … sono radicate bene. Ho piantato aubrezia, mini phlox, sassifraga, un tipo di ginestra della Siria, un tipo di sempervivum, e mini dianthus. Le piante non erano in buonissime condizioni, ma pioveva e quindi dovrebbero attecchire”.

L’osservazione diretta, gli incontri con il mondo materiale, l’attenzione al particolare, il rilievo anche sensoriale dell’esposizione, assumono una loro valenza politica, per farsi talvolta atti di resistenza. In un andirivieni di scala che dalla descrizione di un particolare albero di mele o di quello di tasso nel cimitero del Berkshire trascorre a questioni universali di riscatto e prospettive di posterità, nelle opere di Orwell si incontrano spesso frasi che testimoniano la sua considerazione per la natura, i fiori e i piaceri della vita, il giardino, che è anche un modo per radicarsi nel regno delle percezioni. Lo stesso, nei molti resoconti domestici – cronache e elenchi che perlopiù hanno a che vedere con le piante di cui si prendeva cura e i suoi animali, cose che aveva intenzione di acquistare e di fare – e nelle testimonianze dei contemporanei, stupiti di come conoscesse i nomi di tutte le piante. O ancora nei numerosi articoli in forma di inventario che, specialmente tra 1945 e 1946, quando nel maggio si trasferì a Jura per iniziare il romanzo che sarebbe poi stato pubblicato con il titolo 1984, scrisse celebrando i piaceri e le consolazioni della vita di tutti i giorni – sulle cartoline e il loro assortimento; i tesori nei negozi di rigattiere; i nomi delle specialità culinarie inglesi; in lode, o difesa, del clima britannico o su come dev’essere servita una buona tazza di tè.

Orwell e suo figlio a Barnhill

Per quanto ricordasse come l’ultima volta in cui nella rubrica che scriveva sul Tribune, avendo menzionato dei fiori, una signora indignata gli avesse scritto protestando “che i fiori sono borghesi”, a chi gli rimproverava di esser sempre troppo critico, nel gennaio 1944 scrive: “a me piace tessere lodi, quando c’è qualcosa da lodare. E in questa occasione vorrei scrivere due righe in lode della Rosa di Woolworth”: quella anni prima piantata a Wallington.

Rebecca Solnit, Le rose di Orwell, Ponte alle grazie, pp. 342, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 13, Supplemento de Il Manifesto del 16 aprile 2023

Dal saggio del 1946 intitolato Perché scrivo: “In un periodo pacifico avrei scritto libri elaborati o meramente descrittivi, e sarei rimasto quasi ignaro dei miei doveri politici… Ma non potrei sopportare la fatica di scrivere … se ciò non fosse anche un’esperienza estetica … anche quando si tratta di vera e propria propaganda [la mia opera] contiene molto di ciò che un politico di professione considererebbe irrilevante… Finché sarò vivo e in buona salute continuerò ad appassionarmi alla prosa, ad amare la superficie della terra e a prender piacere dagli oggetti solidi e da ritagli di informazioni inutili».

Il doppio gioco delle piante cattive

Per quanto in genere le piante trasmettano di sé un’immagine mite e positiva di soggetti incapaci di rappresentare in prima battuta un pericolo di cui diffidare, esistono casi in cui per difendersi alcune di esse ricorrono a strategie fastidiose o pericolose. Pizzicano, pungono, ustionano, emanano odori nauseanti, producono sostanze irritanti che innescano reazioni allergiche, molecole che danno dipendenza e alterano (anche) le nostre percezioni, perfino veleni letali.

Non occorre immaginarle dotate di una malvagia intenzionalità, quanto piuttosto della raffinata capacità di aver messo a punto nel corso del tempo, assieme con le strategie di diffusione dei semi, straordinarie abilità per difendersi dai predatori e adattarsi all’ambiente.

Anche quello così spesso inquinato e alterato da parte di noi umani. Tanto da concorrere alla diffusione incontrollata di quelle specie vegetali esotiche che, in assenza dei loro predatori originari, diventano invasive, con conseguenze gravi in termini di perdita di biodiversità e riduzione della varietà degli organismi viventi, nonché alla crescita estrema di quelle allergeniche:  con un’incidenza del fenomeno ormai di salute pubblica che vede le allergie da pollini colpire oggi il 20-25% degli europei, e che si prevede arrivi al 50% entro il 2050.

Di queste Piante cattive ci racconta con spiazzante ironia e meticolosa documentazione di casi la biologa e scrittrice Katia Astafieff (sottotitolo Storie velenose, urticanti e letali, add editore, pp. 187, € 18,00).

Urtica ferox

Se l’ossido sprigionato in forma di gas dalla cipolla per proteggersi dagli insetti ci fa piangere quando viene tagliata e l’alcaloide della capsaicina sintetizzata dai peperoncini per proteggersi dai predatori – esclusi gli uccelli in grado così di disperdere i semi – è fonte a un tempo di piacere e sofferenza, l’urticante, comune ortica cantata da Victor Hugo (amo il ragno e amo l’ortica, perché l’uomo li odia) ci si dice ha una pericolosa parente neozelandese nella varietà ferox, alta cinque metri e provvista di proporzionali peli urticanti.

Hippomane mancinella

Così la mancinella o manzaniglio (Hippomane mancinella) che vive sulle spiagge tropicali e produce un lattice urticante usato per avvelenare le frecce, in Venezuela vien chiamata Árbol de la muerte: è la stessa pianta che Erasmus Darwin, nonno di Charles, medico e botanico, celebra in rima come malefica e sinistra, mentre in Madame Bovary Flaubert ne evoca l’ombra come orizzonte di pericolo in una lettera di rottura inviata a Emma  da Rodolphe: «Dapprima non avevo riflettuto, riposavo all’ombra di quella felicità ideale, come avrei potuto fare sotto il manzaniglio, senza prevederne le conseguenze».

Sedia Art nouveau, con motivi ispirati all’Heracleum mantegazzianum

Tra le piante che pericolosamente diventano invasive, l’incantevole, ma fotosensibilizzante, panace di Mantegazza (Heracleum mantegazzianum), introdotta nel XIX secolo come pianta ornamentale, divenuta famosa per aver ispirato gli artisti del movimento Art Nouveau dell’École de Nancy, e presto fuggita dai giardini botanici, come testimonia fin la canzone dei Genesis che ad essa si intitola The Return of the Giant Hogweed.

L’ambrosia con foglie di artemisia (Ambrosia artemisiifolia), annuale originaria del Nord America, è sia invasiva, perché importata in Europa nel XIX secolo e all’inizio del XX – pianta “ossidionale” arrivata con il cibo dei cavalli trasportati con le guerre mondiali – sia altamente allergizzante

Tra le piante in qualche modo cattive, figurano le piante assassine, che contengono sostanze molto tossiche, potenzialmente letali, ma anche quelle che variamente alterano la percezione e danno dipendenza. Come il cactus di nome peyotl (o peyote), che contiene mescalina dalle proprietà psichedeliche, o il papavero da oppio all’origine di ben due guerre, o ancora la Datura stramonium conosciuta per i suoi effetti allucinogeni e capace però di alleviare problemi legati all’asma: Marcel Proust consumava grandi quantità di sigarette antiasmatiche alla datura, la cui vendita peraltro fu vietata soltanto a partire dal 1992.

Da non dimenticare il principale alcaloide dell’albero della coca, la famosa cocaina, estratto per la prima volta nel 1855, ma già usato come analgesico dalle società precolombiane e dai coloni spagnoli per far lavorare gli schiavi nelle miniere d’oro e d’argento. E il tabacco, inizialmente considerato pianta medicinale, fumato poi nella pipa, con la fine del XVII secolo, quando il sigaro progressivamente sostituisce quello da fiuto, mentre la sigaretta si diffonderà con il XIX secolo; la cannabis, una delle droghe più consumate al mondo e una delle primissime piante addomesticate dall’uomo (in Cina tracce archeologiche della pianta risalgono all’8000 a.C.), e tutte le piante che forniscono alcol – ogni paese e cultura hanno le proprie – la mora per il kir, l’agave per la tequila, le patate per la vodka e, dalla distillazione della melassa di canna da zucchero, il rum.

L’autrice evidenzia come tuttavia molte di queste temibili piante facciano una sorta di doppio gioco: dannose e persino letali, son spesso utili anche per ricavarne cibo o medicinali e, impiegate a scopo terapeutico, arrivano fino a fornire princìpi attivi anticancerogeni (è il caso del tasso). Questione di quantità e dosaggi. E a ogni buon conto, con i loro poteri insetticidi, quantomeno contro i predatori, molte piante possono diventare un’alternativa valida alla chimica.

Katia Astafieff, Piante cattive. Storie velenose, urticanti e letali, add editore, pp. 187, € 18,00 recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 12, Supplemento de Il Manifesto del 26 marzo 2023

Vaso di ispirazione giapponese con ombrellifere, Manifattura Emile Galle, 1900 c.
Vaso ispirato alle forme dell’Heracleum, Manifattura Émile Gallé, 1900 c

I giardini e l’habitat aspro dell’Etna

Si rispecchia perfino nei suoi giardini l’identità plurale e continuamente ricombinata, di quel luogo dello spirito che son le terre della Sicilia orientale distese sotto il profilo del vulcano per antonomasia. Fisionomie modellate dall’incessante succedersi geologico di potenti irruzioni primordiali e colate laviche dell’Etna, sempre nuovamente colonizzate dalla paziente, pervicace dinamica della vita vegetale – dai licheni pionieri al bosco –, ridisegnate dall’opera dell’uomo che, per forza di adattamenti e convivenze, le ha trasformate in terra produttiva costruendo nuovi paesaggi in un serrato, secolare dialogo di generazioni.

© C. Archinto, Aloe arborescens

Così, per campi stretti e qualche panorama, s’avanzano dalle pagine del volume fotografico di Cristina Archinto una serie di ritratti di Giardini all’ombra dell’Etna, tutti popolati ​d’ingredienti variamente combinati ma sotto il segno comune delle effusioni di quest’habitat aspro e dominante: scenografie basaltiche, oasi tra affioramenti lavici e relativi microclimi; tracce risignificate del passato agrario – tra canalizzazioni delle acque irrigue nelle vecchie saje, muretti a secco, terrazzamenti e pilere, i tradizionali pilastri in pietrame cilindrici del pergolato, ora ricoperti con rose banksia e bignonie –; allestimenti e condivisione di specie mediterranee con piante esotiche – vecchi carrubi e olivastri, agavi e jacarande – acclimatate dal collezionismo, tanto per gusto estetico quanto per curiosità scientifica di tassonomie e associazioni vegetali (Terrimago edition, pp. 108, € 26.00, testi, anche in inglese, di Alessandra Valentinelli).

© C. Archinto, Scilla peruviana

Un’unica aria di varietà che, dai terrazzamenti, le pareti laviche e gli affacci del giardino di Giulia Gravina a Valverde sul golfo di Catania, trascorre, tra agavi, maioliche, scille peruviane e la collezione di 42 diverse specie di palme del giardino roccioso a terrazze progettato alla fine degli anni Sessanta dal paesaggista Ettore Paternò, con  agrumeti e vigneti assortiti a mediterranee ed esotiche esito dello scambio di semi provenienti da tutto il mondo; occhieggia nel giardino a stanze di Rossella Pezzino de Geronimo, come pure a Villa Ortensia, tra le plumerie, il verde smeraldo dell’agrumeto e l’Etna alle spalle, tra le opere artistiche, le 18 varietà siciliane di fico di Villa Trinità Bonajuto e fin nella collezione di piante autoctone proposte nel loro habitat naturale nell’Hortus Siculus catanese.

Cristina Archinto, Giardini all’ombra dell’Etna, volume fotografico con testi di Alessandra Valentinelli, Terrimago edition, pp. 108, € 26.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 11, Supplemento de Il Manifesto del 19 marzo 2023

© C. Archinto, Cascate rocce laviche