Bellezza e civitas. Franco Zagari – Architettura e paesaggio. Una mostra, un libro, un convegno in quattro sessioni. Pisa Bastione di San Gallo ottobre 2016

Bellezza e civitas Mostra Franco Zagari Andrea Di Salvo Vìride_Bellezza e civitas –21 ottobre 2016 – Pisa Bastione di San Gallo

Buon pomeriggio
Ringrazio tutti, di esser qui e Franco Zagari per primo per questa occasione che a tutti noi consegna, e che, com’è inevitabile trattandosi di lui, è occasione “di bilancio ma anche e soprattutto di rilancio”.
Ringrazio fuor di retorica la città di Pisa e il suo dinamico Laboratorio permanente che con intuito e tempismo – perché il tempo è maturo – coglie l’opportunità di proporre il lavoro del “maestro di architetture e paesaggi” Zagari, come innesco di una più ampia riflessione, che guardando al futuro, anti-vedendo prospettive possibili, individua intanto già da ora nella rigenerazione del paesaggio la leva prioritaria di indirizzo e sviluppo per la propria contemporaneità.
Come ci è stato illustrato, il convegno che oggi si avvia è parte di una complessa macchina pensante e proponente – propositiva – che vede interagire virtuosamente la mostra, i workshop, gli eventi correlati. Finendo con ciò per assomigliare al pensiero in azione di Zagari che procede integrando diagnosi e interpretazioni, sperimentazioni e progetti, esempi di bellezza e sogni da perseguire.
Premetto che non tratterò dell’opera di Franco Zagari, se non indirettamente parlando di cultura del [progetto di] paesaggio. Meglio di me lo faranno allievi, critici amici collaboratori, interpreti… (anche autori di libri, su Franco).
Distribuito in quattro giornate e altrettanti temi, il convegno con la sua rete che si dilata a comprendere contributi e suggestioni, dalla drammaturgia alla letteratura, al cinema, alla performatività dell’arte si intitola con una dittologia che afferma una necessità. Quella della correlazione serrata di Bellezza e Civitas: due termini centrali nel lessico-pensiero di Franco Zagari.

Correlazione che sottolinea come il tema della bellezza (delle diverse bellezze interconnesse) debba essere posto a fondamento di ogni legittima aspirazione a una rifondazione dell’idea di civitas.

Il cittadino-paesaggista è oramai sempre più consapevole di quanto un qualsivoglia progetto di società, nelle sue implicazioni e nei suoi molteplici intrecci, produttivi, culturali, ideologici, non possa prescindere dal paesaggio che abita e che ad ogni passo produce.

Mettere al centro della riflessione la Bellezza è un classico, un luogo comune dato per scontato, perché da tutti condiviso; e al tempo stesso è però un’operazione sempre inattuale (perché la bellezza non è mai tra le priorità che ci muovono “praticamente”)

Ma la bellezza è sempre “culturalmente connotata” e collegarla alla civitas, all’essere cittadinanza – insieme di cittadini e condizione di ciascuno – con il “suo genio e la sua anima” (V. Ferriolo) – significa ora dare, non solo legittimità, ma centralità alla proiezione concreta del benessere con-diviso, al suo perseguimento con politica determinazione che è, in ultima istanza, il motore che ci muove.

O, almeno, ogni volta che riprendiamo nelle nostre mani il bandolo della matassa; il nostro destino civile.

Bellezza e Civitas Mostra Zagari_Andrea Di Salvo_Vìride_Ma di quale paesaggio si parla?

In questi ultimi anni questo termine si è rivelato un produttivo concetto spoletta, e al tempo stesso, un omnibus che ciascuno prendeva per il tragitto che più gli serviva percorrere.

Zagari e altri con lui, ma lui in particolare, ha contribuito a metterne a fuoco tensioni e funzioni incorporate – e ciò a partire da tempi remoti (e non sospetti) e poi, con perseveranti variazioni, nel lungo periodo. Tanto sul piano teorico che su quello sperimentato in vivo nella pratica dei suoi progetti (e qui la mostra con i suoi regesti di scritti e realizzazioni, ben lo illustra)

E siccome, in prestito dal grande storico francese Marc Bloch, consideriamo che «vi sono momenti nei quali soprattutto importa enunciar bene i problemi». Ecco credo si debba in buona misura al lavoro e al lavorìo teorico di Franco Zagari con il suo procedere in andirivieni, con il suo incrementale anelito definitorio, dove pone criticamente problemi per poi verificarli in propose e progetti, se oggi ad un tipo di discorso conservativo sul paesaggio – di tutela (e conservalorizzazione) … – si va sempre più spesso affiancando nel dibattito teorico tra gli specialisti ma anche nel senso comune un’idea di paesaggio inteso nel suo continuo evolversi, trasformarsi[1]. E quindi, un paesaggio a noi costitutivamente con-temporaneo, da assumere nelle sue molteplicità, accettandone anche i tratti contraddittori, misurandoci con le sue fisionomie stravolte.

Credo si possa dire che sia in atto un forte mutamento di mentalità.

Con uno sguardo e un’attenzione nuova al paesaggio si va superando quella falsa dicotomia tra diffusa, preoccupata, attitudine difensiva di tutela – che ha certo le sue molte buone ragioni nello scempio permanente cui è sottoposto il nostro territorio, per il concorso di un sistematico saccheggio, di una paralisi istituzionale e di inarrivabili risorse – e la consapevolezza non solo dell’impraticabilità del preservare modelli ideali di paesaggio, a presidio di ipotetici caratteri, volta a volta, storici, autentici, autoctoni, … ma che anzi il modo migliore per vivificare e “valorizzare” il lascito del lavoro e della sapienza delle generazioni che ci hanno preceduto stia proprio nel reinterpretare creativamente quella complessa molteplicità di relazioni che chiamiamo paesaggio (fatta di variabili naturali, culture materiali, proiezioni mentali). Aggiungendovi ogni giorno, in una dimensione operativa, il segno, il protagonismo, delle nostre tante – spesso contraddittorie – attualità. In un sempre nuovo progetto che tutti ci riguarda.

Parliamo quindi di un Paesaggio da intendersi come risorsa, opportunità generatrice di qualità, occupazione, ricchezza, da interpellare tanto più in una fase di crisi.

Non c’è conflitto fra ambiente e sviluppo, e un accorto governo del paesaggio tende a integrare qualitativamente l’esigenza di regolamentare l’impatto sul territorio delle trasformazioni in atto con il sostegno di attività economiche e produttive

Si va affermando perciò proprio la consapevolezza di questo tipo di rilievo del paesaggio, del valore delle relazioni tra luoghi e comunità, nell’intreccio tra attività economiche e saperi, sensibilità, stili di vita[2].

Il che va assieme alla presa di parola e di responsabilità da parte delle comunità. E concorre (in un patto sempre rinnovato tra luoghi e chi ne è partecipe) a ridefinire un diverso modello di sviluppo.

Centrato però su quanto oggi deve qualificare il nostro con-vivere, il nostro abitare. Aiutandoci a dirci: cosa costituisca il nostro ben-essere (con il trattino: oltre cioè la prosperità del benessere e piuttosto, nell’accezione di una prospettiva dello stare insieme al mondo corrispondente ai nostri aneliti e ai nostri talenti [che rende l’endiadi bellezza/civitas quasi sinonimica].

Si assiste poi talvolta, addirittura, al paradosso di un paesaggio cui tocca il ruolo di supplire, metaforicamente, l’assenza di un compiuto, alternativo modello di società cui tendere (cosa che in primis apparterrebbe alla sfera della politica, nel senso nobile del termine).

Al paesaggio insomma si chiede talvolta di figurarsi civitas.
Di dar corpo e spessore a qualcosa di cui è piuttosto la fisionomia parlante.

Il che la dice lunga – oltreché sulla nostra incapacità di immaginare nuove categorie analitiche (una volta venuti meno i modelli del ’900 e di fronte alle disfunzioni del neocapitalismo globalizzato di stampo finanziario) – la dice lunga, dicevo, proprio sull’efficacia paradigmatica che attribuiamo al concetto di paesaggio in quanto modello cognitivo, di grande attualità[3].

E per capirne l’attualità. Sarebbe interessante provare a seguire i passaggi del mutare di questa nostra sensibilità per il paesaggio

Ricordando non solo come ci è stato più volte raccontato che questo insight, questa illuminazione che improvvisamente ci permette di vedere diversamente qualcosa che avevamo da sempre sotto gli occhi, il “paesaggio”, appunto, nasce nella consapevolezza di un poeta come Petrarca salito con i suoi libri [le confessioni di s. Agostino] e i suoi pensieri al Monte ventoso, pare nel 1346[4], ma ricordando poi anche che in genere la nostra sensibilità culturalmente muta nel tempo e nello spazio (per tutte le cose, come per i paesaggio e i molti elementi che vi concorrono): è il caso degli animali (per i quali a lungo si è dibattuto nel medioevo cristiano se avessero o meno un’anima); o quello dello statuto degli esseri umani “altri”, re incontrati a seguito delle grandi scoperte geografiche; è il definirsi dell’idea stessa di infanzia come qualcosa di diverso dall’essere “adulti in formato ridotto”; o il valore che attribuiamo al mondo vegetale …[5]

Serve allora anche richiamare il modificarsi del ruolo sociale del verde e del paesaggio.

Dal diverso configurarsi degli spazi pubblici nel definirsi delle funzioni dello stato nazione, alle alterne vicende delle città giardino; dagli esiti del “lungo addio” dell’agricoltura e della “civiltà contadina” – con le sue più recenti inversioni e ritorni dopo i deludenti risultati della “rivoluzione verde” su scala globale e i guasti dell’agroindustria; al “buco nero” degli anni ’80, quando, con le parole di Rosario Assunto: “Il verde e i giardini … erano più o meno ufficiosamente demonizzati come un ingombrante residuo del passato. Status symbol delle classi dominanti. Spazio sottratto alle abitazioni del popolo. Lavoro sprecato e mal pagato …”; (o fino) alle prime forme di risarcimento e recupero di luoghi e contesti sociali compromessi dall’eccessivo sfruttamento industriale o dal repentino venir meno post-fordista di una loro, univocamente imposta, ragion d’essere funzionale.

E, procedendo per balzi su questo filo, ricordare come, specialmente a partire dagli ultimi decenni, e proprio in parallelo con la sempre maggiore consapevolezza della dimensione planetaria del problema della finitezza delle risorse e della nostra corresponsabilità nella loro gestione, si sono andate moltiplicando, al di là dello specifico dei movimenti ambientalisti, le voci [e le ragioni] di una sorta di moderna cultura in senso lato eco-logica: cultura intesa a sottolineare il nesso tra articolazioni dei sistemi sociali e protezione dell’ambiente; usi collettivi dei beni da parte delle comunità locali, priorità perseguite e propositi di riorganizzazione dell’economia sulla base di principi ispirati alla sostenibilità, ambientale e sociale; forme di accesso alle risorse e diritti civili, salute, ambiente di vita e lavoro.

Cultura che prospetta una nuova dimensione etica fondata – nel pragmatismo di una globale, obbligatoria visione olistica – sulla reciprocità dei legami. Fondata sulla parentela e solidarietà planetaria, e che si traduce nell’esercizio di “proattive” virtù ambientali, in una sorta di amicizia rispettosa, che è stata definita di “relazione paesaggistica”[6].

È quindi sempre opportuno considerare bene lo stadio dell’evoluzione dell’idea di paesaggio che ad oggi condividiamo (o ci avviamo a condividere); come essa interagisce con gli altri dispositivi di ordinamento dello spazio sociale; quale è la funzione paradigmatica [di alternativa progettuale] che le attribuiamo[7].

Il maturare in corso di questa educazione alla consapevolezza del paesaggio, di questa sorta di paideia al paesaggio, così per come lo si è inteso, è presupposto e al tempo stesso volano di attivazione dei processi di invenzione e rigenerazione dello spazio condiviso, produttivo, simbolico, rappresentativo, di cui in vari modi si dà conto dai terminali di questa macchina pensante della mostra e del convegno

Invenzione e rigenerazione del paesaggio che procede per il tramite dell’articolata metodologia del progetto di paesaggio; secondo una visione strategica che marcia intanto su i binari di progetti sperimentali.

E sottolineo, prima di venire così rapidamente a chiudere, richiamando i temi cardine del confronto di queste giornate, progetto di paesaggio come strumento distintivo. Attitudine che si muove ibridando esigenze, vocazioni, poetiche; raffinando narrazioni, senso condiviso, autorappresentazioni; progetto di paesaggio come operare sintetico, sensibile ai linguaggi della contemporaneità, alle scansioni espressive della natura[8], alle suggestioni delle arti, con la loro capacità di riscrittura trasformativa; progetto di paesaggio come processo che privilegia lo studio delle relazioni più che non degli oggetti, procedendo sul confine di diverse scale e di diversi saperi; alla ricerca “non neutrale” di un equilibrio tra ragioni autoritative e processi partecipativi e, con una spiccata vocazione alla sperimentazione, volto a produrre complementari e sempre “nuovi paesaggi”.

Secondo la scansione della proteiforme produzione delle opere qui nella Mostra di Franco Zagari: I grandi interventi progettuali; Le piazze; I giardini; Gli allestimenti temporanei, …

È enorme l’ambito di intervento della sfida (altro termine chiave del suo pensiero in azione; titolo dell’importante convegno a Roma questa primavera) che abbiamo di fronte.

Ed è una sfida da affrontare fin da subito inaugurando, come sempre ci invita a fare, e fa, Franco Zagari una stagione battistrada di progetti sperimentali attuativi.

Dagli interventi sugli spazi residuali dell’abitare urbano, episodi di valorizzazione, invenzione molecolare del verde là dove prevalgono i condizionamenti dell’onnipresente costruito; alla rinaturalizzazione di ambienti, al recupero di paesaggi originali, preservando testimonianze in nuovi profili identitari, alla rimessa in equilibrio di nuovi, contemperando valori, interessi, funzioni. Paesaggi delle acque, paesaggi coltivati, paesaggi delle arti… Piani di tutela, parchi agricoli, giardini per l’università come per la terza età, verde per alberghi, verde sportivo, giardini terapeutici, di rappresentanza, parchi tematici, . E ancora, nuove forme e declinazioni di spazi condivisi, esercizi di riappropriazione dello spazio pubblico contemporaneo portate avanti magari a partire dalla nozione grimaldello di beni comuni; interventi effimeri, laboratori, workshop, installazioni o spazi di verde pubblico urbano con funzioni e valenze convenzionali.

E via così ad evocare soltanto la polifonia del lavorìo sul paesaggio. E poi insomma quelle che vengono oramai definite “infrastrutture verdi”: a dar conto della valenza di sistema che tale coordinata molteplicità di interventi assume innervando alla più diversa scala l’intelaiatura sociale, abitativa, produttiva, conformandone aspirazioni e immaginario.

Ispirandosi alle suggestioni dei lavori in Mostra, Bellezza e Civitas, il convegno si articola in 4 giornate/sessioni (21, 27, 28 ottobre, 4 novembre). I titoli dei temi ritagliano riordinando alcune considerazioni appena fatte (e non nell’ordine): 1) un ambito di intervento “Paesaggi per la città contemporanea” (Terza sessione) nella sua accezione più ampia, intesa come catalizzatore di contesti fisici, dinamiche sociali, dimensioni economico produttive, storie, suggestioni figurative, proiezioni dell’immateriale; 2) un’attitudine auspicata e un soggetto civile protagonista: “L’intervento pubblico. Politiche, indirizzi strategie per il progetto di paesaggio” (Quarta sessione); 3) un metodo, quello del progetto di paesaggio, e una pratica, quella della sfida e della sperimentazione: “Per una politica sperimentale di progetti di paesaggio” (Seconda sessione); e soprattutto 4) un’aspirazione che deve farsi strategia: “Una sfida per il benessere comune” (Prima sessione), perché, come per il marinaio di Seneca, anche per noi vale che se non si sa bene dove andare a poco giova avere buon vento nelle vele – e di buon vento se ne vede poco all’orizzonte.

Oltre i titoli delle giornate, sono state poi proposte ai relatori, alcune suggestioni per certi versi trasversali: 1. L’aura del progetto; 2. Giardino e Paesaggio; 3. Spazio e società. Paesaggio e economia; 4. La sfida (in nota, i testi indirizzati ai relatori in occasione della proposta di partecipazione al convegno[9]).

Su questi non mi soffermerò se non per accennare al raccordo simbiosi Giardino-paesaggio[10] e per concludere, in relazione al nesso Spazio e società. Paesaggio e economia, con la considerazione più volte ripetuta da Franco Zagari che, rovesciando la consueta logica emergenziale, quella degli interventi riparatori a posteriori e della relativa valutazione dei costi e benefici, chiede: “Quanto costa NON fare un progetto di paesaggio ben impostato”?

Come è stato ricordato, quella del paesaggio è questione politica[11].

E basterebbe per ricordarlo riferirsi alle polemiche attorno all’approvazione del piano paesaggistico della Toscana (tra i pochi peraltro esistenti, con la Puglia, in attuazione delle indicazione della Convenzione europea del paesaggio).

Piano paesaggistico del quale si è cercato in più modi di depotenziare il rilievo normativo[12].

E se per sua stessa natura il pensiero paesaggistico è alternativo a un modello di sviluppo basato sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse (naturali e umane), certo invece può darsi conflitto tra interessi della collettività e interessi privati che sostengono forme più o meno velate di privatizzazione.

Paesaggio è questione politica – si diceva – e proprio per questo destinata ad affermarsi soltanto insieme al progressivo diffondersi di una cultura del “paesaggio” consapevolmente vissuta, nel confronto delle esperienze e nel convergere di conoscenze e saperi

Una cultura capace di una visione strategica, che parta subito ma sappia permettersi prospettive a lungo termine.

Gli architetti del paesaggio sanno bene che il loro lavoro si declina sui tempi lunghi, che comincia appena a vivere, nel momento della “consegna”, a evolvere nell’incontro di natura e società e dei relativi registri.

Una cultura alla cui definizione concorrono, oltre la riflessione e il dibattito teorico, le sperimentazioni progettuali, le esperienze e le realizzazioni sul territorio, gli interventi che sappiano essere accoglienti e ordinatori ad un tempo.

Sperimentazioni di buone pratiche che per essere in grado di orientare e lasciare un’impronta, per incidere, farsi sistema, abitudine, uso condiviso e modo di intendere condizionante, debbono farsi rete, di esperienze e soluzioni.

Producendo un’intelaiatura per l’osservazione e l’interrogazione, che in una sorta di educazione continua, anche dello sguardo e dei sensi, delle emozioni, si faccia punto di vista, opinione, spirito critico…

Nella convinzione che una rinnovata consapevolezza condivisa del paesaggio da parte delle comunità sia premessa di una civile, cosmopolita – nel senso del cosmo come polis – assunzione di responsabilità

La parola, va ora finalmente ai relatori.
Grazie a tutti per l’attenzione e grazie a Franco per essere tutti noi qui.

Andrea Di Salvo
Bellezza e Civitas Mostra Zagari_Andrea Di Salvo_Vìride__ 


[1] Molto interessante è il racconto dell’esperienza pluriennale della manifestazione Luoghi di valore, avviata su impulso e a cura della Fondazione Benetton Studi Ricerche nell’ambito della provincia di Treviso e intesa a rilevare dalla voce diretta dei protagonisti quale sia la percezione del “valore” attribuito ai luoghi da parte di uno sguardo ad essi “interno”: Luoghi di valore, a cura di Simonetta Zanon, pp. 320, Fondazione Benetton Studi Ricerche con Antiga Edizioni, 2016. Dove si vede come un’indicazione come quella del Valore, fondandosi sulla singolarità della percezione, su un’irriducibile soggettività dello sguardo, sfugge a ogni presunzione classificatoria, fondandosi nel apporto diretto con i luoghi, nella loro intima, puntuale individuazione.

[2] A conferma del rilievo “di processo”, di questo farsi di un vocabolario di esperienze, quasi nostro malgrado, specifico di una relazione a un tempo intima e Universale, piace far nostra una frase di Joan Mirò: Lavoro come un giardiniere o come un vignaiolo. Le cose maturano lentamente. Il mio vocabolario di forme, ad esempio, non l’ho scoperto in un sol colpo. Si è formato quasi mio malgrado.

[3] Cfr. Franco Farinelli, da ultimo, Il ritorno del paesaggio. L’Unione Europea abolisce l’idea di territorio valida per secoli. Senza forse saper perché, ha fatto suo il modello della rete, su La lettura, de Il corriere della sera, domenica 20 dicembre 2015.

[4] Familiari. Lettera a frate Dionigi.

[5] Fino a quelli delle piante per le quali, a stare alle più recenti verifiche sperimentali (Mancuso) si darebbe una sorta di intelligenza connettiva (simile a quella che si dispiega sulla rete). Ad accomunare in certo modo questi ultimi due ambiti, è stata poi notata la condivisione nella lingua inglese del termine nursery (nella sensibilità di inizio novecento attenta tanto a una pedagogia nuova che agli sviluppi di una nuova cultura “consapevole” delle coltivazioni orticole). Per l’italiano, vivaio – nella sua accezione “sportiva”.

[6] Una relation paysajère che lega in maniera interdipendente società e paesaggio mutuando il concetto dalla relation jardinière, espressione dell’antropologa Martine Bergues, 2004 ripresa e ampliata nell’analisi di Hervé Brunon, Amitiés respectueuses. Pour une archéologie de la relation jardinière, in Jardins n. 6 -2015, pp. 33-52, p. 37.
Diversamente suggestiva la antropomorfizzazione su scala trans generazionale del romanzo di Didier Van Cauwelaert, Le journal intime d’un arbre, Lafon 2011.

[7] La valenza politica che assume in occasioni specifiche, dove, seppur, temporaneamente lo spazio pubblico (es. Gezi Park) diventa comune nel suo generare comportamenti, organismi sociali in divenire.

[8] Natura come collante narrativo e, risalendo, giardino come controfigura di una natura che oggi sola può essere “principio federativo”, anche nel tessuto urbano (Gilles Clément, Piccola pedagogia dell’erba, Deriveapprodi, p. 131).

[9] 1. L’aura del progetto La sintesi concertata di letture e la regia di competenze proprie del corretto progetto di paesaggio sono oggi sempre più – fin nel senso comune condiviso – presupposto di qualsivoglia responsabile prospettiva corale di rifondazione urbana e ambientale che sappia farsi interprete di aspirazioni autentiche e produttiva di saperi e lavoro qualificato.

2. Giardino e Paesaggio Il catalogo del Giardino è luogo dell’abitare e del lavoro, senza forme e luoghi deputati, occasione del sovrapporsi e ibridarsi degli affetti, dello slittare di convinzioni, di latenza di desideri senza oggetto. Può questo essenziale laboratorio in vitro di forme e idee essere suggestione di una nuova strategia dirompente per la città-paesaggio, per l’evoluzione del nostro habitat? E, viceversa, la questione del paesaggio può essere posta senza la consapevolezza, che è propria del giardino, di una qualità di sogno e potere che è una necessità insopprimibile di ogni cultura? E nella nostra prospettiva storica e nella nostra visione di futuro questa simbiosi di paesaggio e giardino può interrompere una situazione di stallo e aprire una nuova speranza?

3. Spazio e società. Paesaggio e economia Rovesciando la consueta logica emergenziale, degli interventi riparatori a posteriori e della relativa valutazione dei costi e benefici, la questione non è piuttosto, sempre: “Quanto costa NON fare un progetto di paesaggio ben impostato”?

4. La sfida La sfida innescata da una stagione di progetti sperimentali attuativi di paesaggio può costituire fin d’ora – e nel frattempo del maturare di una più diffusa e articolata disposizione culturale – un viatico “in atto” di più ampie soluzioni e consapevolezze per il benessere del Paese

[10] E poi i giardini portano con sé la centralità della dimensione estetica (del gusto). Funzionano come grimaldello di rottura di schemi, come strumento dissacratore, come distrattore degli automatismi che spettacolarizzando ogni originale dissidenza, tendono a riassorbirla, depotenziandola, mettendola “a profitto”. I giardini suggeriscono strumenti per traguardare l’illusione di un ordine che deve strutturare. Suggeriscono, con Clément, di osservare/ascoltare l’inatteso, intervenire in relazione (il meno possibile), orientando; insegnano a utilizzare il valore progettuale dell’imprevisto (evidenziato dalle vagabonde) e a farci ispirare dal potere di invenzione della natura, praticando la pedagogia del sogno (immaginare un giardino/mondo come sarà tra decenni).

[11] Già nel richiamo della scrittrice svedese Ellen Key, educatrice dalla sensibilità femminista, corrispondente di Sibilla Aleramo e ispiratrice di Maria Montessori, che nel 1899 invita a quella Bellezza per tutti diffusa negli oggetti e negli spazi del quotidiano, magari ispirata al catalogo di suggestioni offerte dalla natura e dal paesaggio che ci rappresenta.

[12] Cfr. La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare per il piano della Toscana, a cura di Anna Marson, Laterza 2016, dove l’autrice denuncia come “il tentativo di affossamento del valore normativo del piano paesaggistico” sia risultato non a caso “coerente con l’ideologia che esalta i processi di privatizzazione e centralizzazione economica e politica” spesso paradossalmente sostenuti da finanziamenti pubblici”.