Usi culturali dell’albero, nel mondo romano

Nel novero di un incombente, ancora stentato processo di ripensamento dell’attuale visione del vivente dove mondo umano e universo animale e vegetale risultano ordinati secondo tratti di irriducibili alterità, come ambiti distinti e non comunicanti, può tornar buono considerare l’eco pervasiva degli usi culturali che gli antichi han fatto dell’albero nei loro racconti, miti, riflessioni, metafore, forme lessicali. Nel segno di evidenziare – pur nel vivo delle diffuse pratiche di sfruttamento intensivo di boschi e risorse naturali secondo logiche di controllo politico di territori e commerci – i tratti di un’ideale relazione reciproca che si sviluppa lungo un asse di continuità. Relazione di prossimità tra uomini e alberi di cui, in prospettiva etnobotanica, Mario Lentano evidenzia il rilievo nel protagonismo che pioppi, fichi, mirti, palme e cipressi, prugni e noci, viti, querce, cornioli, … si ritrovano a giocare nella cultura greca e soprattutto in quella romana, ambito privilegiato della sua indagine. Nel volume «Vissero i boschi un dì». La vita culturale degli alberi nella Roma antica, Lentano indaga infatti, nei più diversi domini, dalle biografie alla religione, al diritto, alla medicina, una gran varietà di pratiche discorsive, funzioni narrative, inneschi simbolici, forme lessicali, specialmente nelle fonti letterarie, nella storiografia, nella trattatistica (Carocci editore, pp. 257, € 24,00).

Si vien così profilando in filigrana per il mondo romano una possibile antropologia dell’albero, a partire da alcune sue affordances, volta a volta caratteristiche biologiche e ragioni empiriche, suggestioni onomastiche o valenze simboliche, specialmente efficaci nei processi di significazione.

Villa di Livia, dettaglio

Se  la durata secolare del ciclo vitale di un albero, il suo proiettarsi a coprir d’ombra quel che lo circonda si prestano a rendere con immediatezza il progredire di successi di una città o di un impero, i modi della sua crescita, verso l’alto e in ampiezza, e il suo articolarsi per diramazioni successive risuonano tanto nel dispiegarsi in successione delle generazioni di un gruppo familiare, quanto come modello analogico inteso a figurare il progressivo determinarsi delle membra del bambino nel grembo materno.

Così, a partire da analogie funzionali o morfologiche, assonanze, usi linguistici (predicati come “vivere”, “essere in salute”, “invecchiare” attribuiti agli alberi) e le frequenti metafore vegetali nel campo della parentela, si riverberano nel nutrito lessico condiviso tra mondo umano e mondo vegetale. Come pure, nell’espediente narrativo del sogno, il ricorso a una metafora vegetale evidenzia il rilievo del compiersi di un processo, del divenire (piuttosto che, in quella animale, tesa a esprimere tratti della personalità).

A evidenziare la continuità tra vegetale e umano, oltre alle figurazioni del mito che, sotto il segno della metamorfosi leggono pioppi, cipressi, lauri derivare da esseri umani – da Mirra a Dafne, da Ciparisso alle sorelle di Fetonte –, specialmente donne, il filone dei racconti sugli alberi antropogonici e che nutrono l’umanità primitiva riconduce invece l’origine dei primi esseri umani a querce, frassini, ontani, allori, pini, progenitori vegetali che li avrebbero generati dal loro tronco, trasmettendo quasi in eredità una serie di tratti caratteristici.

Ciparisso, casa dei Vetii, Pompei

Numerose evidentemente risultano le piante coinvolte nella sfera del sacro, in un rapporto di triangolazione come elementi dell’identità distribuita degli Dei. Mentre alcuni alberi son chiamati ad amplificare o presagire la vicenda di loro illustri corrispettivi umani: doppi vegetali implicati in un fitto rimpallo di simboli e metafore: principi e poeti (la fioritura prodigiosa di un ramo d’alloro e l’altezza strabiliante del pioppo piantato alla nascita di Virgilio), gruppi sociali (le alterne vicende dei due mirti di fronte al tempio di Quirino a figurare destini di patrizi e plebei), dinastie (l’appassire di un boschetto di allori a rivelarne la fine imminente, il risollevarsi di un cipresso abbattuto, a dire delle incipienti fortune di un’altra) e persino un’intera comunità politica (a rischio, con il disseccarsi di un fico o corniolo legati alla vicenda del fondatore di Roma).

Paride sul monte ida, da Pompei, Museo archeologico, Napoli

Così, ripercorrendo tra analogie morfologico-funzionali e matrici di tipo genealogico, ruoli e funzioni assolte dagli alberi nel pensare il mondo dei romani, s’impone nel dibattito filosofico e scientifico il tema dello statuto da riconoscere ai vegetali fino a parlare anche per le piante di un’anima, come modulo iniziale di un processo per aggiunzioni progressive, comune a tutte le manifestazioni del vivente.

Nell’idea di un continuo trascorrere della materia tra le forme, uomini e vegetali son mondi separati non tanto da una differenza ontologica, quanto da passaggi tra confini porosi, tra elementi comuni che si caratterizzano per correlazioni biunivoche.

Pur tenendosi stretto alle categorie del mondo romano, e rifuggendo da presunti archetipi universali come pure da inattuali proiezioni, ben di qua del paradigma cartesiano, il mondo antico nella lettura di Lentano ci restituisce una particolare, opportuna, attenzione per un mondo naturale di cui siam parte in relazioni di prossimità diverse tra organismi viventi.

Mario Lentano, «Vissero i boschi un dì». La vita culturale degli alberi nella Roma antica, Carocci editore, pp. 257, € 24,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 7 Supplemento de Il Manifesto del 17 marzo 2024

Villa di Livia, dettaglio

Laura Pirovano, tra il verde e le ombre

Al centro dell’orchestrazione della vita nei giardini, la dialettica luce-ombra vien spesso letta per abbaglio o strabismo tutta a vantaggio della prima. Mentre l’approfondimento della conoscenza delle molte fisionomie di quell’ombra che è componente essenziale, specie per quelli mediterranei, fin dall’archetipo dell’oasi, e tantopiù in vista dell’incombente riscaldamento climatico, innesca una gran ricchezza di spunti di lettura e occasioni compositive.

Si può trattare, per scelta, dell’intento di dar ritmo a un giardino soleggiato con pause, zone di quiete, riposo, riflessione, cui di solito si associa la presenza dell’ombra, tramite il filtro del fogliame delle volte di alberi che si intrecciano, pergolati, percorsi ombrosi o, invece, di dover trovare soluzioni compositive al vincolo indotto da contesti oscuri. Dagli angoli più bui dei giardini di campagna agli ambienti urbani dove, come spesso accade, all’esposizione modesta si somma l’ombra portata dalla densità del costruito. Rivestendo magari, con cascate di piante, cupi cavedi o spazi comuni, affacci di verde dagli open space degli uffici, patio, terrazzi interni che si animano di colonnati d’edera: e ciò per il tramite delle suggestioni ispirate ai giardini boschivi, con le loro complesse stratificazioni di piante in comunità, diversificate per condizioni di luce via via ridotte. D’altro canto, non è a caso, che della radura che interrompe l’ombra fitta della foresta si è parlato come occasione di innesco dei primi giardini.

Ombra fredda, piena, profonda. Penombra, mezz’ombra, ombra portata, filtrata, aperta, leggera. Diverse per qualità, densità, spessore e trasparenze, son le gradazioni che la paesaggista Laura Pirovano ci avvia a intravedere, percepire, discernere nel suo repertorio di Giardini d’ombra, e a saperne trarre partito compositivo, ispirazione (Libreria della natura, pp. 414 con ricco corredo fotografico di piante e contesti, € 32). 

Ombre a macchie, sotto le volte di alberi dalle foglie rade, ombre lacunari, arcipelaghi d’ombra, ombre totali sotto chiome persistenti, ombre ai piedi di un muro o di una siepe, o in un cortile senza sole.

Ombre che però danno risalto, restituiscono tridimensionalità, creano profondità.
Ombre come criterio di classificazione del tipo di piante. In particolare quelle che han finito per tollerare e perfino prediligere questa condizione. Ombrivaghe o sciafile, amanti dell’ombra e dell’umidità, hanno sviluppato foglie larghe, tondeggianti, appiattite, intensamente verdi, di molte tonalità di verde. Con forme articolate, perfino traforate, in certi casi riflettenti, per catturare e far passare tutta la poca luce disponibile. Con fioriture ridotte e la predilezione per le variegature.

Henri Le Sidaner, Le jardin blanc au crépuscule, 1912

Con la sapienza di queste alleate, in un giardino d’ombra occorrerà perciò accentuare il ritmo screziato dei pochi giochi di luce, orchestrando le variazioni tra forme, portamenti e architetture, e dimensioni, trame, tessiture del fogliame, moderando contrasti eccessivi, giocando sulla variegature, specie quelle color crema o argento, e procedendo per giustapposizioni cromatiche di colori chiari e delicati, in combinazioni assortite di begonia evansiana e persicarie, sassifraghe, anemoni, ajughe e farfugium.

Sullo sfondo di uno scenario di transizioni sempre scandite dal variar delle ombre, delle loro diverse temporalità, nel corso della giornata e dell’anno, e dalla costante proiezione in filigrana del loro alternarsi a passo di danza con la luce. In una risonanza così mirabilmente racchiusa nell’espressione giapponese komorebi, letteralmente “luce che filtra tra gli alberi” che fin dall’ultimo film di Wim Wenders pervade il trascorrere delle cose evocando la lezione della complementarità e dell’impermanenza, della costante mutevolezza, così cara ai giardini (in specie, quelli dell’ombra).

Laura Pirovano, Giardini d’ombra, Libreria della natura, pp. 414, € 32, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 5, Supplemento de Il Manifesto del 3 marzo 2024

Terra-giardino-Grande Madre. Il giro del mondo in giardino

Sempre al traverso, come gli è congegnale, tra analisi filologiche e affondi combinati di storia delle religioni e delle idee, mitologia, storia sociale e antropologia, il filosofo Massimo Venturi Ferriolo – già docente di estetica al Politecnico di Milano e grande maestro della riflessione sul tema del giardino – torna in questa raccolta Giardino & paesaggi. Scripta minora, sui suoi temi con alcuni inediti e nuove messe a punto (Librìa editore, pp. 185, € 16.00).

Oltre a insistere sulla valenza pedagogica del rapporto stretto tra paesaggio e narrazione, viaggio e conoscenza, con riferimento alle metodologie itineranti di indagine dei luoghi messe a punto nel quadro delle molte edizioni del Premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino, capaci di ripercorrere i lasciti della memoria attualizzati però in un’etica del progetto contemporaneo che si misura in un accorto governo dei luoghi, Venturi Ferriolo torna qui a inseguire con nuovi elementi e lenti aggiornate le figure dell’equivalenza terra-giardino-Grande Madre-Maria.

Roberto Burle Marx, Mineral roof garden, Banco Safra Headquarters, 1983, São Paulo

Con uno sguardo lungo che rifacendosi all’antichissima comunione mediterranea tra mondo divino, animale e vegetale, e recuperandone anche gli strumenti di salvaguardia dei paesaggi e dell’ambiente, risale all’oggi approfondendo l’urgenza di una filosofia interculturale di paesaggio aperta al multinaturalismo e alle molteplici visioni della natura presenti nelle diverse cosmologie.

Se i paesaggi sono animati da margini e conflitti che li segnano – margini in relazione, piuttosto che identità – il giardino, da quello informale inglese del 700 che si apre agli esotismi, a quello, luogo d’incontro di rappresentanze botaniche universali nella lezione fondata sulla natura del novecentesco maestro modernista brasiliano Roberto Burle Marx, costituiscono un giro del mondo in uno spazio ristretto, che accoglie, visioni del mondo, rappresentazioni espresse in un linguaggio vegetale estetico.

Massimo Venturi Ferriolo, Giardino & paesaggi. Scripta minora, Librìa editore, pp. 185, € 16.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 5, Supplemento de Il Manifesto del 18 febbraio 2024

L’orchestra nascosta della natura

Singing Trees Nadine Schütz_2022_4_©Nadine Schütz, ADAGP Paris_© photo Johannes Berger_Sonic Topologies

Intervista a Nadine Schütz, artista del suono e paesaggista a cura di Andrea Di Salvo pubblicata su Il Manifesto del 18 febbraio 2024 in occasione delle Giornate internazionali di studio sul paesaggio organizzate dalla Fondazione Benetton studi e ricerche: Soundscapes. L’esperienza del silenzio e del suono nel paesaggio (Treviso, 22-23 febbraio 2024)

Assieme alla considerazione sempre maggiore riservata a una dimensione corporale del paesaggio che, oltre il “visuale”, si dilata in percezione e commistione polisensoriale, e dopo la lunga incubazione dei soundscape studies e relative analisi critiche, s’impone una complessiva riflessione sulla dimensione sonora dei paesaggi.

Merito del tema messo a sistema dalle Giornate internazionali di studio sul paesaggio che si terranno a Treviso oggi e domani presso la Fondazione Benetton, orchestrate da Luigi Latini, docente di Architettura del paesaggio allo Iuav di Venezia, e di Simonetta Zanon, rispettivamente presidente e responsabile ricerche e progetti della Fondazione

Sotto l’ombrello di un titolo ricco di echi e implicazioni, Soundscapes. L’esperienza del silenzio e del suono nel paesaggio, si annunciano interventi (che si possono anche seguire on line) sul dibattito relativo alle estensioni del concetto di paesaggio nelle diverse variabili del sonoro, dai silenzi geografici a suoni e rumori della foresta, dalle isole di quiete restituite alle città al variare di gradiente di un margine rurale da attraversare in ascolto.

Alla luce di un interesse nuovo nei confronti della dimensione uditiva, l’attenzione è sui diversi, molteplici protagonismi nell’uso di codici sonori nell’esplorare e connettersi con l’ambiente, sulle valenze del silenzio tra suono e parola, sulla difesa degli ecosistemi dall’inquinamento acustico e il ruolo dell’ecoacustica nell’ecologia della conservazione del paesaggio sonoro.

Nell’incrocio di temi e prospettive – dall’ecologia del paesaggio alla letteratura, dall’architettura, al cinema, all’arte dei giardini – si affaccia il fondamentale contributo creativo e di riflessione teorica portato da esempi diversi di installazioni, performance e progetti acustici. Tra arte, scienza, progetto e divulgazione, dagli interventi di arte sonora site-specific nel Parco di Scania all’indagine dell’intersezione tra pratiche del giardinaggio e della creazione musicale, ai giardini sonori di Nadine Schütz.

Cultivating Sound_Nadine Schütz_Fieldwork Shisendo Kyoto_2015_© photo Kyoto Institute of Technology

Intervista a Nadine Schütz

Nel segno dell’approccio interdisciplinare, ormai una consuetudine per le annuali Giornate internazionali di studio sul paesaggio, oggi e domani a Treviso, presso la Fondazione Benetton studi e ricerche, convergono alla ribalta della ventesima edizione, in questa occasione intitolate a Soundscapes. L’esperienza del silenzio e del suono nel paesaggio, specialisti del campo, progettisti e ricercatori dalle competenze più diverse – ecologia, geografia, biologia, architettura del paesaggio, urbanistica. Ma anche artisti del suono e compositori.

Tra i protagonisti a confronto, interroghiamo Nadine Schütz, artista del suono di origine svizzera ed esperta di acustica del paesaggio, con base a Parigi, autrice di molte opere integrate in progetti architettonici, paesaggistici, urbani, nonché di ambienti acustici, installazioni temporanee, performances, scenografie e inneschi sonori progettati per musei, mostre e giardini. Modalità diverse attraverso cui esplora la dimensione sonora del nostro esser parte del paesaggio, distillandone strumenti di analisi e di intervento per confrontarsi con urgenti criticità ambientali.

Come lei sostiene, siamo perlopiù adusi a una lettura privilegiata, quando non a senso unico, di paesaggi e giardini attraverso lo sguardo. Una lettura che, pur nella sua presunzione d’insieme, resta comunque lineare, sequenziale. Mentre sottostimiamo quanto la dimensione acustica ci ponga invece in una interrelazione totalizzante, immersiva, con gli ambienti che abitiamo assieme con le altre voci del vivente. Cosa ci dice, in più, nella sua esperienza di progettazione del paesaggio e di intervento artistico, l’attenzione al sonoro che lei sollecita e che è al centro delle riflessioni delle giornate del paesaggio?Nei luoghi soliti della nostra esperienza quotidiana, come in quelli dell’arte?

La dimensione sonora dei paesaggi si rivela innanzitutto a livello dell’ascolto. Un ascolto che va oltre la semplice capacità fisiologica umana di ricevere e classificare le onde sonore. L’ascolto implica un atto empatico, un’attenzione verso gli altri, siano essi i nostri vicini o esseri viventi non umani o, ancora, quelle dinamiche naturali geologiche e atmosferiche che tendono a sfuggire al nostro senso del vivente. La particolarità della percezione sonora è in questo senso il suo carattere presenziale. Il paesaggio risuona qui e ora, in uno spazio-tempo condiviso e concreto. E per quanto noi sentiamo il canto di un merlo o il gorgoglio di un piccolo ruscello, sentiamo anche un suono tonale, melodico e articolato che scompare, appare e si muove con il passare delle ore, oppure un suono più rumoroso e continuo la cui presenza varia su orizzonti temporali molto più estesi, quello delle stagioni meteorologiche e degli anni climatici.

È a questa consapevolezza di condivisione spaziale e temporale obbligata che mi appello, ma anche a un’altra nozione di tempo, più complessa, quasi rinaturalizzata, che dà voce a cicli celesti e terrestri, meteorologici e organici. Allo stesso modo, l’ascolto del paesaggio ci porta a una nozione molto eterogenea di spazio, o meglio di spazialità. Il risultato non è soltanto una maggiore consapevolezza della diversità percettiva, ma anche un’intelligenza sensibile (naturale) che potrebbe aiutarci a condividere uno spazio limitato.

Penso che si tratti di aspetti strettamente legati al quotidiano, ma anche in grado di offrirci scoperte poetiche all’interno dei nostri luoghi abituali. I luoghi dedicati all’arte possono offrire un campo di sperimentazione allargato, ma l’arte può anche essere un modo per ancorare queste sensibilità nell’ambiente quotidiano.

Singing Trees_Nadine Schütz_2022_5_©Nadine Schütz, ADAGP Paris_© photo Johannes Berger_Sonic Topologies

Nei suoi progetti lei utilizza spesso tracce sonore, che sono esito dei luoghi ed espressione dei contesti dove si producono e vengono raccolti, come il vento, il sole o la pioggia, ma anche il passaggio di un treno, per restituirli in partitura così che divengano una forma musicale. Quale è la relazione tra la loro reale vita autonoma (i paesaggi che “involontariamente” ci additano) e la percezione che nei suoi progetti si innesca, magari con l’effetto di identificare, o creare luoghi inediti?

Nella mia tesi di dottorato Cultivating Sound – The Acoustic Dimension of Landscape Architecture (Coltivare il suono – La dimensione acustica dell’architettura del paesaggio), presentata al Politecnico di Zurigo nel 2017, ho esplorato l’idea che l’acustica sia una dimensione inerente elementi fisici del paesaggio che siamo abituati a modellare (topografia, vegetali, acque, ambienti). Accostando l’esplorazione acustica di questi elementi alle mie osservazioni sulla percezione del suono ambientale, ho potuto evidenziare il legame diretto tra sonorità e materialità. Mi sono anche resa conto di quanto la questione della generazione o della produzione del suono venga trascurata nei comuni approcci acustici architettonici e ambientali messi in atto nell’ambito della valorizzazione delle nostre città e dei nostri paesaggi. Da qui è nato un approccio ambientale che potremmo definire “strumentale”, presente in diversi miei progetti recenti.

In questo senso, le mie creazioni non riguardano tanto la partitura quanto il dispositivo musicale o sonoro. Come possiamo rivelare, trasmettere, tradurre o trasporre le molteplici voci del paesaggio senza al tempo stesso strumentalizzarle, ma piuttosto creando un dispositivo, un’interfaccia che permetta loro di farsi sentire, diventando esse stesse musiciste? Voglio creare esperienze in cui queste voci e sonorità del paesaggio diventino agenti. Allo stesso modo, invito il pubblico, le ascoltatrici, gli utilizzatori a diventare essi stessi coltivatori e coltivatrici del loro paesaggio sonoro, e non più semplicemente a subirlo, ma a entrare in dialogo attraverso un ascolto attivo, a remixarlo attraverso i loro corpi e movimenti, e a diventare parte di esso attraverso dispositivi sonori interattivi.

Il suo lavoro mira a rendere evidente il ruolo del suono in quanto dimensione centrale, intrinseca del paesaggio inteso come esperienza sensoriale immersiva e interattiva. Mira a rivelare le molte articolazioni di un suono spesso ridotto invece in modo binario a rumore o alla sua assenza, in una indicazione riduttiva di silenzio. Per questo, lei sembra proporre un nuovo lessico del paesaggio sonoro. Può farci qualche esempio di come risuona questo vocabolario?

Prendiamo la nozione di spazialità sonora, che preferisco a quella di spazio. Questa spazialità è ben lontana dall’essere un semplice contenitore. È una qualità percettiva a sé e un’impressione relazionale complessa. Riunisce i diversi domini dello spazio uditivo: sonotopico (sentire un suono vicino o lontano, dalla nostra sinistra o dalla nostra destra), spettro-temporale (percepire una distanza tra due suoni a causa della loro diversa composizione di frequenza e dinamica) e intersensoriale (sentire un effetto di raffreddamento quando si sente il fruscio delle erbe nel vento). In pratica, tenere conto di questa eterogeneità spaziale caratteristica del paesaggio sonoro ci permette di concepire lo spazio in modo più efficace. Considerando la differenza qualitativa come alternativa alla distanza metrica, ad esempio, aumentiamo lo spazio per una potenziale coesistenza, anche in ambienti urbani densi. La separazione spaziale ad opera di strutture fisiche lascerebbe così il posto a una differenziazione sonora, un approccio che probabilmente corrisponde meglio alla natura relazionale dello spazio pubblico e che chiamerei orchestrazione.

Un secondo esempio di vocabolario che gioca un ruolo centrale nelle mie ricerche è la nozione di vivacità. Le sottili interazioni di suoni che appaiono qua e là, vicino e lontano, trasmettono una doppia voce al nostro ambiente: una composizione dinamica di esistenze sonore multiple e singolari, che animano e rivelano collettivamente una distesa fisica con caratteristiche acustiche particolari e interconnesse. Se il paesaggio è sonoro, la natura è correlata a una presenza vivente, che potrebbe condurci a una comprensione più sfumata del silenzio dei nostri desideri come coscienza uditiva e relazionale, la consapevolezza e il coinvolgimento nella vita che ci circonda

Giornate internazionali di studio sul paesaggio 2023 organizzate dalla  Fondazione Benettonstudi e ricerche, ventesima edizione: Soundscapes. L’esperienza del silenzio e del suono nel paesaggio, giovedì 22 e venerdì 23 febbraio 2024, Auditorium spazi Bomben, via Cornarotta 7, Treviso e online
Intervista a Nadine Schütz a cura di Andrea Di Salvo su Il Manifesto del 18 febbraio 2024

Singing Trees_Nadine Schütz_2022_2_©Nadine Schütz, ADAGP Paris_© photo Johannes Berger_Sonic Topologies

Le molte alleanze, tra umani e popolo delle piante. Via psicoattivi

Informatico, poeta, etnobotanico, oltreché gran conoscitore di piante e droghe psicoattive, nonché sperimentatore su di sé dei loro effetti, che così ci descrive in prima persona, Dale Pendell, si è mosso per anni a cavallo tra ricerca scientifica su fisiologia e poteri venefici delle piante – tutte le sostanze derivate da quelle che lui descrive agiscono sul corpo umano come droghe, quindi come veleni –, e la prassi dei loro usi storici e culturali, dallo sciamanesimo alla creazione artistica, per via di mitologie, condivisioni con demoni, poi dall’antropologia all’erboristeria, dall’etnobotanica all’etnofarmacologia fino alle neuroscienze. Indagando in particolare l’intersecarsi tra composti psicoattivi derivati da quelle distillatrici esperte di sostanze chimiche che sono le piante, e, oltreché insetti e uccelli, tra gli animali, specialmente gli umani. Una relazione, quella tra umani e popolo delle piante, che esiste in ogni parte del mondo sin dall’antichità, dalle “felci frattali” alle “rose algoritmiche”, di cui evidenzia le forme e la dimensione di alleanza, in particolare con le piante maestre, nonché il riconoscimento a esse di uno statuto di soggetto.

Tabac, da Jean-Jacques Grandville, Les fleurs animèes, 1847

Dopo la traduzione in italiano del primo e del terzo volume della serie Pharmako, rispettivamente dedicati a Poeia Veleni e arti erboristiche e a Gnosis, su allucinogeni e piante visionarie come ipomea, funghi psilocibina, peyote, Mimosa hostilis, la trilogia di Pendell si completa ora con Pharmako/Dynamys.Piante eccitanti, pozioni e la via venefica, traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli, (ed. or. 2002), add editore, pp. 307, € 25,00.

Empathogenica, come noce moscata, MDMA, Ecstasy, GHB, ma soprattutto Excitantia – caffè, tè e cacao, collocate nel loro contesto storico, per come quasi contemporaneamente arrivarono in Europa verso la fine del 600, con al seguito zucchero per addolcirle e un Voltaire che Pendel definisce “il quintessenza dello sciamano del caffè”, nonché poi in relazione con l’affermarsi dell’industrializzazione – ma anche mate, Cola nitida, betel, canapa gialla, khat, Erythroxylum coca.

Diagramma delle Classi di Pharmako

Come in un’assortita guida di riferimento si susseguono e intersecano indicazioni botaniche e di proprietà terapeutiche, tassonomie e informazioni pratiche (la parte usata della pianta, il modo di assumerla e le descrizioni degli effetti, composizione chimica della sostanza che ne deriva, indicazioni farmacologiche), ma anche note etnobotaniche, citazioni bibliche, letterarie, ragionamenti su Questioni di stato e libertà, dipendenze, implicazioni storiche, effetti sociali dell’uso degli psicoattivi.

Ad ogni pagina, un catalogo di poesie, citazioni, illustrazioni, che vanno da Goethe a Edgar Allan Poe, al poeta amerindio Tlaltecatzin, da Bruegel a Dürer a Max Ernst, passando per foto etnografiche, diagrammi chimici, maschere rituali, poster, tappeti. Continuamente ci si perde e ritrova in una selva di corrispondenze, liste, classificazioni magiche e formule divinatorie, racconti di sperimentazioni personali, illusioni, saperi indigeni, incontri con piante maestre, persone-albero.

Se l’editore raccomanda di contestualizzare conclusioni e affermazioni alla personale visione del mondo dell’autore, che per parte sua avverte il lettore della struttura “tridimensionale e olografica” del testo, di certo, Pendell, consapevole che “i libri stessi sono veleni”, nel suo stile evocativo che procede tra virtuosistica erudizione e scrupolosa, autoironica pratica alchemica, scienza, folklore e poesia, tenta a ogni passo di incorporare la dimensione della coscienza nell’approccio della tradizione scientifica.

Jean-Jacques Grandville, Les fleurs animèes, 1847 (tavola di correzioni: Erratum)

Nella costruzione del testo, in interlocuzione serrata con quella dell’autore si intromette – segnalata in corsivo – la voce della pianta-farmaco: l’Alleata. Se voci diverse evocano molteplici letture e livelli di analisi dell’opera, alla maniera di una sorta di alchimista, sciamano e poeta, oltreché ricercatore, Pendell consulta qui e fa parlare piante e sostanze alteranti in quanto alleate. Affermando come con le loro molteplici abilità trasformative, insite nella natura ambivalente dell’esser pharmakon, rimedio e veleno assieme, costoro risultino perciò interlocutrici a pieno diritto in un dialogo aperto tra diverse soggettività.

Dale Pendell, Pharmako/Dynamys.Piante eccitanti, pozioni e la via venefica, traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli, (ed. or. 2002), add editore, pp. 307, € 25,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 3, Supplemento de Il Manifesto del 21 gennaio 2024

Umano e non. Familiarità molteplici, in giardino

Tra le molteplici forme di familiarità con tutto quanto in mancanza di una miglior definizione chiamiamo natura, risaltano la passione per il giardino e la sua pratica. Che, in quanto tramite, specialmente con il mondo delle piante, come pure degli animali e degli agenti che lo vivificano, finiscono per esser spesso evocati come snodi che riattivano e moltiplicano quel sistema di relazioni di cui l’uomo è, come tutti, parte. Un groviglio di interdipendenze ecologiche, in implicazione profonda con il non-umano. Un flusso che lega tutte le forme della rete del vivente in un continuum di cui fanno parte il paesaggio animale e la società dei vegetali, la microfauna cosmopolita, le alleanze di batteri e radici, minerali, fiumi, montagne in un’irriducibile parentela in continuo divenire. E, ancora, funghi e micorrize, generatori e rigeneratori di interi ecosistemi, creature queer capaci di inventare nuovi modi di convivere, specialmente in occasione di eventi catastrofici, crisi.

Come luogo privilegiato dell’esperienza polisensoriale che ci immerge nel flusso ininterrotto della metamorfosi, il giardino rende da presso palese questo nostro partecipare delle combinazioni del vivente. In vari innesti e relazioni eccentriche. Da rintracciare magari nella microfisica quotidiana della dimestichezza di tanti con le piante cosiddette da appartamento, o da leggersi nel pensiero sottostante e nelle emozioni innescate da realizzazioni-manifesto come nel caso del giardino-mondo avviato dal paesaggista Gilles Clément, oggi son trent’anni, nei sette ettari del Domaine de Rayole, nel sud della Francia. Una sorta di Index planetario delle regioni del mondo biologicamente assimilabili, per quanto tra loro davvero distanti: il Giardino dei Mediterranei. Al plurale.

La perenne dialettica della storia del giardino tra controllo e aperture, artificio e varie “naturalità” è d’altro canto parte e anticipazione proprio di questa nuova, complessiva, attenzione. Pratica trasformativa, autoriale, sintesi di proiezioni e usi sociali, nonché risultante della dimensione estetica dell’invenzione e del progetto, il giardino è però anche, specialmente, opera a firma plurale, all’incrocio delle potenzialità dei luoghi e dei diversi protagonisti coautori – animali, vegetali, suoli, stagionalità e temporalità. Occasione di un’inarrivabile incontro tra impermanenza, divenire delle identità, contemporaneità del molteplice. Introduce a una pluralità di soggetti, persone non umane di cui seguir le tracce, ricostruire abitudini e prospettive indagandone le differenti arti di abitare il mondo, da frequentare consapevoli dell’interdipendenza nelle relazioni che con essi intratteniamo, studiare modi per rilevare e conservarne personalità e diritti (come comincia a esser scritto nelle costituzioni di alcuni Stati).

Phoebe Cheong

In un inesausto negoziato con i vari protagonisti del vivente, il giardino vive sempre alla ricerca di nuovi equilibri. Innescando una permanente riconsiderazione critica delle forme di stare, assieme agli altri, al mondo. Oltre la competizione e l’esclusione reciproca.

Ed è proprio quanto le piante ci suggeriscono con la loro soggettività plurale. Proprio loro che, semplicemente esistendo, hanno fatto il mondo così come noi lo conosciamo. Creando l’atmosfera dove siamo immersi, esercitando in esclusiva la loro capacità autotrofica di trasformare energia e materia in nutrimento, costantemente reinventando presupposti della vita, condizioni ambientali, risorse energetiche, alimentari, mediche. Eppure, dal nostro umano, animale, punto di vista, cominciamo appena a riflettere sulla loro alterità, sui loro fondamenti biologici, come pure sul loro successo evolutivo. In una sorta di paradossale strabismo, a fronte della loro pervasiva onnipresenza, troppo spesso ancora stentiamo a sbalzar le piante dal fondo dell’indistinzione dove le relega la nostra disattenzione e ignoranza. Mentre, con il progredire della ricerca, orientata anche dal riflesso di un loro diverso modo di porre domande, apprendiamo, assumendole via via nella loro irriducibilità a indagarne l’inesauribile inventiva. La capacità di percepire consapevolmente il mondo, rilevando ed elaborando da parte di radici e parti aeree dati e movimenti deliberatamente intesi a un obiettivo (arrampicarsi, ripiegarsi delle foglie di fronte a un pericolo, chiudersi per catturare una preda nel caso delle carnivore), la memoria che integri esperienza e presente, apprendimento, interazione e comunicazione (acustica, chimica, sotterranea), la valutazione del rischio e capacità di decidere (quando fiorire, quando germogliare), e, nella distinzione del sé e degli altri, strategie sociali in forma di comportamenti competitivi o cooperativi.

Per il tramite del giardino, un tale dilatarsi di sguardi, punti di osservazione e consapevolezze, viaggia ben oltre. Nella sua dimensione molecolare, fin nell’ambito urbano entro cui la maggior parte degli umani si affolla in nuovi ecosistemi dove rinsaldare benefici ambientali, servizi ecosistemici, qualità estetica e salvaguardia della biodiversità. Lezione che introduce a una consapevolezza ecologica presto dilatata a prefigurare un giardinaggio del paesaggio, una diversa strategia ambientale. Giardini e spazi verdi urbani come corridoi di transito. Pullulare di minihabitat capaci di ospitare e supportare anche quella vita animale che spesso ignoriamo o disdegniamo. Da alimentare invece di occasioni per costruire l’alfabeto di una “ecologia della riconciliazione” tra specie differenti che, assieme alla maggior padronanza di un’etichetta del selvatico, ci avvia verso una diplomazia della coabitazione.

E di certo collegato al densificarsi dell’urbanizzazione, è l’impennarsi, tra molte implicazioni, di quel fenomeno diffuso e di segno globale che è la ormai pervasiva febbre vegetale per le piante da appartamento. Che pure vanta una lunga storia, ma, ben oltre il mercato dei vasi, i giardini d’inverno, i collezionismi e le serre riscaldate, si è ormai diffusa ovunque.. Tanto che, pur considerando l’ampia quota di superficiale voracità delle mille mode che rimbalzano dai media (Instagram, in particolare), dove al “verde vegetale” si ricorre come salvifica compensazione di una liofilizzata idea di natura, il dato è quello di un mercato globale delle piante da appartamento che nel 2021 valeva quasi 18 miliardi di dollari e che, con un tasso di crescita cumulativo stimato del 10,24% annuo tra il 2020 e il 2025, risulta tutt’ora in piena espansione, specialmente tra i giovani (cfr. qui)

Dai salotti ai ballatoi, agli uffici dove nel secondo dopoguerra arrivano numerose, assieme alle donne che varcano il mondo del lavoro, le piante pervadono poi i più diversi spazi abitativi. Quotidianamente accudite tra sguardi accorati e piccoli rituali o flagrantemente dimenticate – costituiscono inediti paesaggi casalinghi: da “viaggio in una stanza attraverso il mondo (e le sue piante)”.

Differenti per tipologie, esigenze di coltivazione e universi di provenienza, ci accompagnano in un felice intrecciarsi di esperienze contemplative, intime storie di reciproco accudirsi, ineffabili lezioni di appartenenza al vivente. Nel loro cosmopolita assortimento, inventano nuovi universi, ibridi microclimi, strani sistemi di relazione interspecifici.

Astratte, molto spesso dal loro contesto, a lungo le piante son state impiegate in giardino in base ad accostamenti e criteri compositivi coloristici, formali, “da pittore”. Piegate a interpretare altri linguaggi artistici.

Assieme a nuove competenze scientifiche sul carattere ecologico delle associazioni vegetali spontanee, con il volgere del secolo scorso una nuova sensibilità ha suggerito un nuovo, diverso approccio al giardino. Un naturalismo che si ispira all’osservazione del modo in cui le piante si associano in natura e che le intende nei loro individuali caratteri di struttura, consistenza, riflesso e trasparenza, movimento, perduranza. Riconoscendo loro una precipua espressività da ricondurre a segno estetico. Fin nel disfacimento, giocando compositivamente con la bellezza delle sfiorite silhouette invernali.

Un passo ancora, nel richiamato Giardino dei Mediterranei, è quando, abbandonata ogni classica tassonomia, dieci paesaggi accomunati da un clima analogo, dalle coste della California alle Canarie, dall’Australia all’Africa del sud, si ritrovano in un unico giardino a raccontarne la brulicante biodiversità.

Nella riserva del Domaine de Rayole si è liberi di passeggiare inventando il proprio itinerario nel deserto della presenza di etichette botaniche che in genere, rassicuranti, ci accompagnano in luoghi come questo.

Piante di paesaggi diversi – separate in natura da diversi fusi orari, a clima temperato caldo, arido o subtropicale, come la sudamericana Erythrina crista-galli o la spinosissima Acacia colletioides, endemica del sud dell’Australia – si assiepano, raccolte qui trent’anni fa dal paesaggista dell’ecologia umanista Gilles Clément. E qui, con studio, lasciate alla loro naturale evoluzione come un messaggio in bottiglia verso un futuro di climi, prevedibilmente, già allora, ancor più secchi.

Anticipando la contaminazione e il “valore dell’imprevisto” come forme di collaborazione progettuale, poi confermate nella lezione delle erbe vagabonde, Clément evidenziava nella resistenza naturale di quelle piante dagli elementi netti, scolpiti, continuamente adattate all’asprezza di luci, colori, territori, il corrispettivo di un’estetica dell’imperfezione, del riposo estivo di quei protagonisti vegetali a crescita intermittente.

Una pausa tutta mediterranea.

E tutto ciò, prima di discendere la baia del Rayole fino alla piccola spiaggia, dove – undicesimo giardino del Domaine – ci aspetta la prateria sottomarina di posidonia che, in relazione a precise condizioni di temperatura dell’acqua, fiorisce, se riesce, ogni quattro anni.

Domaine du rayol, Jardin d’Amerique

Pubblicato per la serie estiva, Umano non-umano e raccontato da Andrea Di Salvo su Il Manifesto del 25 agosto 2023

L’antropocene paesaggistico d’Europa

Muovendosi a cavallo tra storia naturale e ambientale, ma con l’ambizione di integrare questi due approcci pur nelle relative, irriducibili specificità, la storia ecologica, ricompone le tracce delle fisionomie e dei processi di trasformazione dei paesaggi – comprese quelle impresse nei secoli dall’impronta dell’uomo – attraverso una pluralità di dimensioni spaziali e scale temporali.

Dai tempi geologici, lunghi o lunghissimi della tettonica alle variazioni dei cicli glaciali e interglaciali, fino a quelli più rapidi, biologici ed ecologici. Con un’attenzione in particolare alle interdipendenze tra diversi sistemi ambientali.

Difficile dunque il tentativo di catturare tali protagonismi in divenire, fluidi e che si configurano diversamente a seconda degli sguardi disciplinari con i quali li si intende. Tantopiù se si ritaglia come soggetto, seppur convenzionale, un continente.

Ed è quanto Emilio Padoa-Schioppa si propone nel suo La Storia ecologica d’Europa. Un continente nell’Antropocene, dove disarticola e riordina per ripercorrerle in caleidoscopio il contrappunto di visuali d’insieme e peculiarità che la compongono (Il Mulino, pp. 230, € 22,00).

Volta a volta leggibili in dimensione geografica, o in quella politica di insediamenti, ordinamenti e Stati, nella lettura geologica della divisione in placche, in quella delle carte bioclimatiche, e altrimenti nelle proiezioni di lingue, usi, culture. Da seguire fin anche nei segni tracciati in proiezione su altri continenti, fuor dall’Europa, con espansioni, invasioni di suoi popoli, morali, interessi. Ciascuna con cartografie di forme diverse e dai confini spesso sfocati (specialmente quelli orientali e meridionali), per un’Europa di cui raccontare la storia ecologica attraverso contesti e protagonisti. E quindi montagne, acque, foreste, isole, pianure, da un lato e gli organismi – come piante, animali e, buon ultimi, gli uomini – per il loro ruolo nel costruire e modificare i paesaggi, concorrendo alle dinamiche dei luoghi.

Ferrovia del Moncenisio, «Fell», piana San Nicolao

Mentre si sofferma su alcune peculiarità della storia naturale europea – in termini di specie, endemismi, eventi specifici, paesaggi particolari – poste in relazione alla scansione di grandi snodi correlati – estinzioni dei grandi mammiferi, avvento di agricoltura e domesticazione, globalizzazione economica e omogeneizzazione ecologica con l’apertura al nuovo mondo, accelerazioni, almeno quelle della rivoluzione industriale e del XX secolo – Padoa-Schioppa si concentra in particolare sul tempo recente degli ultimi 10.000 anni, quindi sull’interrelazione stretta tra fattori naturali e agire dell’uomo. Testimoniando nella sua analisi, come, con tutte le evoluzioni di significato del primo termine e la pluralità di accezioni del secondo, l’ecologia del paesaggio proceda nel suo trasformarsi da scienza descrittiva in direzione e dimensione quantitativa e predittiva.

In un intersecarsi di variabili e approcci, dall’influenza del clima nell’indirizzar paesaggi, faune e flore, all’impronta umana legata a una agricoltura che modifica habitat e suoli, altera cicli biogeochimici, modellando società, si trascorre alla zoogeomorfologia che studia i modi in cui gli animali posson cambiare i paesaggi, nonché al ruolo che nell’immaginario collettivo essi svolgono per come contribuiscono a dargli forma, e all’”inquietudine migratoria” che caratterizza noi umani, con i suoi derivati, l’iperurbanizzazione e le nuove sfide ecologiche connesse, i paesaggi dell’energia così dirimenti in questa fase di transizione.

E se si evidenzia così da un lato come in buona misura è a partire dalle grandi, più recenti trasformazioni, avvenute proprio in Europa, che ci stiamo inoltrando nell’Antropocene, la buona nuova e che, essendo perlopiù umana la responsabilità della crisi ambientale dovrebbe esser possibile se non invertir direzione, almeno variare, e, talvolta, astenersi.

Emilio Padoa-Schioppa, La Storia ecologica d’Europa. Un continente nell’Antropocene, Il Mulino, pp. 230, € 22,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 5, Supplemento de Il Manifesto del 4 febbraio 2024

Caspar Wolf, Lauteraar, 1776

All’Orto botanico di Roma per Franco Zagari

Orto Botanico – Roma, 17-18 gennaio 2024. In onore di Franco Zagari
Questo è paesaggio
Intervento di Andrea Di Salvo

La valenza tutta politica e vorrei dire sovversiva del paesaggio emerge rivelata dalle tante preziose bellezze che indossa come anche dalle tante cicatrici che scopre. Valenza politica da leggere tanto nell’urgenza degli avvenimenti dell’oggi quanto nella placida irrequietezza, di quei tempi lunghi che ci è così difficile assumere come misura

il Paesaggio è questione politica e, proprio nella sua irriducibilità a definizioni chiuse con cui Franco ha da sempre condotto il suo corpo a corpo, è uno strumento che ha la plasticità per interagire, davvero, con la complessità di un reale in continuo divenire.

Interagire, come forse non riesce più tanto la politica, per come almeno la abbiamo a lungo pensata (Collana Habitus, Deriveapprodi editore).

Per rendersi conto della pervasività con la quale vien chiamato in causa il concetto di paesaggio, basta verificare frequenze di utilizzo e occorrenze del termine in tanti ambiti diversi. Un utilizzo che quasi sempre finisce però per esser precisato, declinato…con un aggettivo. O molto spesso per essere impiegato in senso traslato. Paesaggio urbano, paesaggio sonoro, paesaggio interiore, della guerra, paesaggio del vino, paesaggio educativo, paesaggi dell’aldilà

I rischi più evidenti sono la perdita di pregnanza e la sovraesposizione.
Sempre più spesso al paesaggio si chiede di prefigurare per supplenza un modello sostitutivo di società verso cui orientarsi.
Altro rischio è la tendenza all’accaparramento in esclusiva del paesaggio, una ortodossia dell’uso da parte di alcuni (rischio dal quale ovviamente, non vanno esenti neanche i paesaggisti).

Quindi, paesaggio come questione politica. Ma le crisi che di questi tempi constatiamo numerose, spesso esito di una globalizzazione che procede omologando e che al tempo stesso però frammenta e sradica territori e singolarità, queste crisi son prodotte non tanto dall’uomo in astratto (quello dell’antropocene), quanto da specifici modelli di dominio storicamente determinati.

Il paesaggio ci aiuta a Interrogarci su cosa oggi qualifichi il nostro con-vivere, il nostro abitare, cosa costituisca il nostro ben essere.
Domande che abbiamo finito per porci sempre più di rado. Forse considerandole ovvie. Perché immersi in una dominante dimensione produttivo-consumistica, che finisce per assecondare lo status quo, pretendendoci semplici consumatori, osservatori passivi.

La vitalità euristica, conoscitiva, del paesaggio, resta invece legata al suo esser generatore di interrogativi, piuttosto che non risposta univoca.

Credo siano parole di Franco Zagari, o da lui ispirate quelle che auspicano un approccio non tanto teso a risolvere i problemi, quanto a lavorare ai loro margini: “porsi accanto” a un processo cognitivo dove intuito e esperienza giocano in armonia nell’elaborare … in base a ibridazioni e incertezze; “spostare” i termini di lettura da piani consueti a piani creativi.

Per altro verso, il paesaggio, come sempre Franco più occasioni ci ha in mostrato nella pratica, non può mai dirsi neutrale.

È questione politica – e, proprio per questo, presuppone di affermarsi soltanto insieme al diffondersi di una “cultura del paesaggio”.
Cultura del paesaggio che presuppone una educazione alla consapevolezza del paesaggio. Consapevolezza non scontata, anzi tutta da enucleare e alimentare

A fronte di un analfabetismo che malgrado tanti sforzi nell’ambito della formazione, superiore, tecnica e universitaria, nell’universo comunicativo di studiosi e appassionati sui più vari media e sui territori, in alcune filiere del florovivaismo, nell’attivismo dei singoli e delle associazioni, si misura dal rilievo – diciamo così – e dalla presenza del tema del paesaggio nel senso comune, perlopiù nelle cristallizzazioni discorsive che lo riducono a oggetto di conservazione e decoro, valorizzazione; marketing, marchio per identità di luogo, volano per consumi culturali, ostaggio di leggi e decreti applicativi che ne ignorano le grammatiche e la sintassi del progetto.

Come avviene per le piante (che riusciamo a vedere soltanto come uno sfondo indistinto su cui si stagliano protagonismi altri) così pure, si può parlare di cecità del paesaggio. Di un analfabetismo, anche affettivo nei suoi confronti. Con l’aggravante della distorsione di vivere ormai buona parte del nostro percepire il mondo attraverso uno schermo.

Il paesaggio si fa carico invece di una dimensione sempre più spesso omessa. Quella corporale, Il rapporto diretto, immediato, fisico con gli elementi sensibili del mondo terrestre. Il paesaggio è esperienza polisensoriale.
Prima di vederlo, noi abitiamo un paesaggio. L’esperienza sensibile del paesaggio si dilata oltre la concezione puramente “visuale”. Per quanto tutt’ora egemonica.
Occorre considerare l’intrinseca psichicità del movimento che non accetta separazione tra sensoriale, motorio, cognitivo. L’invito è a considerare una spazialità del contatto, della partecipazione con l’ambiente esterno (Besse). Mentre si parla di Mindscape (Lingiardi).
L’esperienza del paesaggio è un’esperienza primaria, che accade nel corpo, precede il linguaggio. Perciò il paesaggio è una delle fonti di quel sapere implicito che vien prima della coscienza e della ragione, generatore di Habitus (Regni).
Abitare un paesaggio è condizione del nostro stare al mondo. farne parte significa che lì attingiamo la nostra identità

Siamo Corporalità in movimento.

Dalla vita cellulare totipotente alle molte contemporaneità del paesaggio di cui ci dice Massimo Venturi Ferriolo, tutto è movimento. Anche se su scale e velocità tra di loro diversissime

Certo, corporalità in movimento, in relazione a un punto di visuale.
Con una metafora abusata si può ben evidenziare come, se il mondo visto dal finestrino di un noi in movimento accelerato ci sembra che fugga sempre a gran velocità, questa condizione va assieme alla fissità del vincolo del punto di vista. La fissità obbligata dello sguardo [a gran velocita non ci possiamo auspicabilmente distrarre] e del dover continuamente riconfigurare in un senso, in una sintesi di senso ciò che andiamo vedendo consapevoli che molto in ogni caso sfugge: in una obbligatoria accettazione del limite.

Rallentando…, si tratta di quel che vien chiamato sapere paesaggistico (Besse), qualcosa di più di un’intelligenza pratica quotidiana del mondo e dello spazio, una familiarità fondata sull’uso.

Quel che si diceva prima è che occorre portarla a consapevolezza. Fino a attingere una responsabile consapevolezza del nostro scegliere ad ogni passo una direzione: agire comunque, anche se talvolta vorremmo illuderci che a ciò è possibile sottrarci – il famoso quanto costa non fare, di Franco Zagari.

Tutta fondata sulla relazione è quindi una possibile, auspicabile etica dell’azione del paesaggio – che alcuni ritengono addirittura “consustanziale al paesaggio” (Brunon).
Un’azione-reazione, un tipo di corrispondenza che per il tramite del paesaggio (prima ancora, del giardino) intratteniamo con il mondo.
Una relazione paesaggistica che lega in modo interattivo e interdipendente società e paesaggio, le cui pratiche implicano una tessitura continua di connessioni tra noi stessi, le nature del vivente, il territorio.

Così, Il tema del paesaggio (e del giardino) irrompe nell’ambito delle ricerche che variamente si rifanno agli Environnemental studies che nell’analisi della società intendono includere il non umano: in un dialogo fra vari generi di persone: alcune umane, altre non umane, persone senza differenziazioni ontologiche gerarchiche.
Un dialogo basato piuttosto su parentele e solidarietà che non su separazione e dominazione, fatto di pratiche che, sperimentando un continuo, inesausto negoziato, sempre alla ricerca di equilibri, definiscono appunto un modo di essere al mondo nei termini relazionali di un mutuo determinarsi attraverso attenzione e reciprocità, una mutua “rispettosa amicizia”.
Persone tutte: come quando, quasi a farsi teatro (Turri), il paesaggio, allargato ad agenti umani e non umani, esprime e sintetizza la trama di queste relazioni, ospitandole. Ma essendo al tempo stesso interprete e implicato co-protagonista lui stesso, in qualità di paesaggio-soggetto, con una sua qual certa autonomia, cui riconoscere statuto personale.

Tra le tante lezioni di Franco ritorna spesso l’invito a partir sempre assumendo le molteplicità del paesaggio: di questo sistema vivente di relazioni sempre in divenire, al tempo stesso strumento di lettura dell’insieme, opportunità del convergere di pensiero e azione, sfida tesa alla costruzione progettuale, sociale, politica. Mai neutrale.
E, oltre l’incrementale ansia definitoria – spesso pervasa da una nota lieve di fertile ironia – l’invito di Franco Zagari all’accettazione anche dei tratti contraddittori di fisionomie stravolte. E quello a considerare il paesaggio nel suo continuo evolversi, trasformarsi e quindi nella sua costitutiva contemporaneità.
Contemporaneità che Franco ha contribuito a render viva, attuale, in un gioco continuo di bilancio e rilancio. Con la sua spiccata vocazione alla sperimentazione (che Franco condivideva con il paesaggio), il suo muoversi sul confine di diversi saperi; il suo piacere di ibridare esigenze, vocazioni, narrazioni, senso condiviso, autorappresentazioni, linguaggi della contemporaneità, suggestioni delle arti.

Ma sempre in un procedere che privilegia lo studio delle relazioni più che non dei singolari oggetti in sé.

E sempre affinando il prediletto grimaldello del progetto: strumento-estensione-evoluzione plastica, che concorre a strutturare la percezione e il pensiero umano per modificar l’ambiente: si potrebbe dire: qualcosa che viaggia sullo stesso filo di quello stretto, ancestrale rapporto mano-pietra (che, secondo l’archeologia cognitiva di Lambros Malafouris, presiede alla fabbricazione di selci come strumenti litici da parte dei nostri progenitori).

Ma qui mi fermo. Sarà meglio.
E vi saluto con alcuni versi di una poesia di Valerio Magrelli che ogni volta mi fa pensare a Franco, in tanti modi diversi: è parte di un testo apparso in Nature e venature, del 1987.
Versi che isolo a partire da uno strumentale riferimento al fumo.
Fumo che però, in questo caso, evoca piuttosto, l’aura di ciascuno, la nostra anima, e di certo il nostro anelito.
Versi che dicono

Io cammino fumando
e dopo ogni boccata
attraverso il mio fumo
e sto dove non stavo
dove prima soffiavo.

Il titolo della poesia recita E mi meraviglio
E questo sorprenderci, sempre in un altrove rispetto a dove lo si aspetta, era per me il tratto più “rasserenante”, anche affettivamente parlando, di un Franco che si sperperava spesso con lieve grazia gratuita

Grazie a tutti e a Franco
Andrea Di Salvo

I meccanismi del giardinaggio e la scienza

Dall’attenzione alle variabili del microclima che la coltivazione accorta di ogni giardino impone, a quella per la vita del suolo che lì calpestiamo – un ecosistema dinamico di microrganismi, funghi e batteri –, fino alla consapevolezza delle fisionomie botaniche delle piante che decidiamo di trapiantarvi – e quindi dell’habitat di provenienza di cui occorre tener conto –, la lezione del giardinaggio comporta un continuo sguardo interrogativo che dalla relazione quotidiana con la vita vegetale si dilata alla conoscenza dei meccanismi sottesi al dispiegarsi del vivente in quest’artefatto dove tentiamo di orchestrarli al passo della nostra immaginazione.

Con spirito pratico e il piglio dissacrante della divulgazione di tradizione anglosassone, Stuart Farrimond, ci conduce a indagare come La scienza del giardinaggio rivesta un grande ruolo in ogni piega delle sue attività (Dorling Kindersley-Gribaudo, pp. 224, € 26,90).

Mr Digwell’Gardening Book, anni Cinquanta

Dalla fisiologia vegetale al suolo osservato in relazione alla sua struttura, acidità, dalla fotosintesi al programma del seme e ai suoi fattori di sopravvivenza, vengono via via ripercorsi i meccanismi sottesi: cicli della dormienza (proteine che bloccano la crescita, endodormienza), con un controllo di sicurezza che evita loro di ripartire troppo presto, capacità meristematica di riprodursi per via vegetativa (a prescindere dalla via dei semi) da cui la passione dei giardinieri per le talee, ragioni della diversità della scelta dei colori dei fiori in relazione ai diversi impollinatori con cui le piante son coevolute, quelle del fenomeno dell’alternanza di produzione dei fruttiferi tra annate molto produttive e raccolti scarsi, il meccanismo che consente alle piante che fioriscono soltanto a maturità, dopo molti anni di vita, di calcolare il passare delle stagioni necessarie. E così, a seguire.

A corredo, i protagonisti della chimica, l’acido abscissico rilasciato dalle radici come segnale che il terreno è troppo secco o la capacità delle piante rustiche di affrontare il freddo intenso trasformando l’amido immagazzinato in zuccheri e producendo proteine antigelo (ragione per cui alcune verdure con il gelo hanno un sapore più intenso).

In un contesto dove sempre più vengono rilevate le forme di intelligenza di piante in grado di percepire l’ambiente, svolgere compiti complessi, comunicare, nonché i ruoli sociali e civili assolti dal giardino – dai suoi effetti terapeutici al rilievo della presenza del verde molecolare nelle aree urbane, con i noti vantaggi di assorbimento di inquinanti nell’aria, riduzione delle isole di calore, raccolta e rallentamento del deflusso delle acque delle precipitazioni estreme, costituzione di corridoi verdi come rifugio di vita animale e vegetale, piccole galassie, dagli insetti agli uccelli, organismi del suolo aperto – è proprio nel giardino che in dimensione di pratica immediata vanno affermandosi una serie di idee e sperimentazioni – anche estetiche. Che prospettando un cambio di mentalità e l’assunzione di pratiche e saperi volti a cooperare con la natura, comprendono il ritmo delle successioni naturali e si ispirano alle associazioni tra specie in natura, le consociazioni, tendono all’autosufficienza, alla conservazione e al riuso, ispirati alla circolarità.

Consentendo all’irrinunciabilità dell’uso della nomenclatura latina, Stuart Farrimond dispensa consigli ragionati su tagliare o meno i fiori appassiti, dare il giusto peso alle piante autoctone – definizione certo non univoca – pure meglio sincronizzate con il clima e l’entomofauna locale, valutarne opportunità e modi della potatura a partire dall’illustrazione dei meccanismi che vengono così indotti. E, sempre scientificamente, vengono sfatate una serie di leggende del giardinaggio, dal fatto che i frammenti di coccio alla base delle piante favoriscano davvero da soli il drenaggio senza calcolare la tensione superficiale dell’acqua che la fa aderire ai pori del substrato, o di quanto l’aria risulti depurata dalle piante negli appartamenti, a meno che non ne ospitiate alcune centinaia. Mentre certo, il diffuso vezzo di parlare con loro, visti gli alti livelli di anidride carbonica emessi dal respiro umano potrebbe, oltreché rassicurarci, esser affatto gradito …per la loro fotosintesi.

Stuart Farrimond, La scienza del giardinaggio, Dorling Kindersley-Gribaudo, pp. 224, € 26,90, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 1, Supplemento de Il Manifesto del 7 gennaio 2024

Dar voce alle pietre

In un contesto di piena crisi ecologica, dominato ormai da preoccupazioni, ansie climatiche, sensi di colpa ambientali, nostalgie per ecosistemi a rischio o già scomparsi, si afferma seppur per barlumi la consapevolezza di dover ripensare forme e categorie interpretative dei modi in cui condividiamo il pianeta con molti soggetti non-umani, altre specie di viventi, ma anche entità litiche, acquatiche, atmosferiche.

Riprendendo il titolo di un breve testo dove Italo Calvino dà voce a una roccia che in soggettiva restituisce il suo punto di vista sul mondo, Federico Luisetti, nel solco degli studi post umanistici, proprio a partire dalla soggettività litica prende in conto il campo relazionale dove gli esseri umani si definiscono attraverso il loro rapporto con il mondo non umano. Una ecologia della vita che mette in crisi la distinzione tra quella organica e l’esistenza inorganica (Essere pietra. Ecologia di un mondo minerale, Wetlands, pp. 112, € 16, 00).

Una visione della natura dove presenze naturali come montagne, fiumi e foreste vengono sussunte nel concetto antropologico degli esseri-terra. Soggetti politicamente rilevanti, con capacità di agire, esistenze multiple dai tratti compositi, risultanti della sfera naturale come pure catalizzatori di mitografie e rituali, simbolici e politici, entità non umane da considerare – assieme alla natura composta degli altri esseri viventi, animali, piante, funghi – soggetti ecopolitici. Montagne e ghiacciai, parte del mondo abiotico, ma anche corpi geologici, massi erratici, concrezioni sferiche di arenaria, pietre sacre, sassi modellati da fiumi.

Dalle pietre scheggiate del paleolitico – che secondo l’archeologia cognitiva di Lambros Malafouris, nel rapporto stretto mano-pietra della fabbricazione degli strumenti litici hanno strutturato la percezione e il pensiero umano per modificar l’ambiente – ai lapidari, dalle rocce sacre che fin dal neolitico accompagnano la vita quotidiana e alimentano connessioni simboliche e pratiche cerimoniali alla più recente Land art, l’universo litico, con il suo persistere oltre la misura dell’umano ha da sempre significato anche nell’ambito della cultura occidentale (e ben altrimenti in Oriente) una imprescindibile alterità. Passando per miti di creazione, sistemi cosmologici e leggende di pietrificazione, minerali rari per colori e luminescenza, pietre animate, quelle della tradizione classica, del trattato di Teofrasto, della cultura popolare, che ritrovano la strada o che ricrescono se vengon seppellite, l’homphalos di Delfi, la pietra nera della Mecca o quelle della Teogonia di Esiodo, le concrezioni sferiche di arenaria, le pietre sacre dei lacota…

Soggetti non biologici la cui esistenza contempera inconciliabilità nell’essere e mette in discussione la concezione biocentrica della vita e della persona, soggetti che peraltro resistono all’estrattivismo planetario della globalizzazione neoliberale della natura, come confermano tante lotte e politiche indigene contro le privatizzazioni dei beni comuni dagli anni 80 di acqua foreste terreni agricoli e sottosuolo in cambio del credito o della riduzione del debito.

Alternativo al paradigma della competizione tra individui biologici autonomi, è l’approccio multispecie e collaborativo della simbiosi universale dove agli organismi biologici si riconosce un’identità composita che supera confini tra specie e individualità. E non è un caso che diversi innovativi studi recenti su intelligenza, socialità e sensibilità delle piante insistano sul tema della comunicazione tra specie, in un consesso della vita dove si è piuttosto parte di alleanze e scambi orizzontali.

D’altro canto, questa indistinzione, assieme all’allargamento agli esseri non umani di una soggettività politica, e quindi di una personificazione giuridica della natura “senza distinzioni tra esseri organici e inorganici specie origine” come recita la Dichiarazione universale dei diritti della Madre terra (2010) che apre la strada al riconoscimento di diverse formazioni naturali come entità viventi dotate dello status giuridico di persona (il Gange riconosciuto dall’Alta corte giuridica indiana, il dibattito sul ghiacciaio francese della Mer de glace, il conferimento di personalità giuridica ad un ecosistema come la laguna costiera del Mar Menor in Spagna nel 2022) si scontrano con la nozione occidentale di persona che a partire da un rigido fondamento biocentrico fatica ad attribuire una soggettività politica autonoma a entità quali piante o pietre.

Con la loro dimensione ibrida e irriducibili alle forme di individualità caratteristiche degli organismi biologici, gli esseri-terra, mettendo in relazione mondi tra loro diversi, obbligano a ripensare la frattura tra natura e società operata da un pensiero coloniale ed evidenziano la dimensione relazionale del mutuo determinarsi – tra esseri naturali, umani, formazioni geologiche, entità inanimate – attraverso pratiche fondate su attenzione e reciprocità.

Così, essere soggetti ecologici, sociali e politici ed essere persone “sono esperienze che non coincidono”.

Federico Luisetti, Essere pietra. Ecologia di un mondo minerale, Wetlands, pp. 112, € 16, 00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 49, Supplemento de Il Manifesto del 24 dicembre 2023

L’orizzonte del giardino per immaginare e concepire possibili alterità

Declinati fin dal titolo in climax percorribili anche al viceversa, argomenti come giardino, città, paradiso, utopia – e natura –, individuano ambiti e genealogie di senso che nel volume di Alessandro Carrieri per Mimesis vanno poi a disporsi tra loro in tensione dialettica come in una sorta di incrementale gioco ricombinatorio (Urban eden. Giardino Città Utopia, pp. 236, € 20,00).

Il giardino come costrutto sociale, oltreché nella sua dimensione estetica, con il dibattito al seguito sul suo insopprimibile carattere politico; come luogo privilegiato di meditazione nei giardini monastici; in quelli officinali e poi botanici occasione di innesco di una rivoluzione dello sguardo; come luogo consono alla riflessione, alla creazione artistica, spazio della memoria, ma specialmente segno, metafora, esibi­zione del potere. Incluso quello di dominare la natura. Una natura le cui potenti valenze magiche e simboliche paiono condensarsi in quella foresta dove nasce lo spazio della soglia, del limitare; che, nell’incessante tentativo umano di comprendere, ricomporre il caos, si ritroverà depotenziata, ma ordinata, nel giardino, e per contrapposizione identitaria sarà spesso chiamata a definire proprio quella stessa città che in buona misura, a sua volta, se non è proprio dal giardino che mutua elementi e struttura, certo con questo li condivide. E mentre la progettazione vieppiù formale del giardino si accorda alle simmetrie architettoniche urbane, con l’integrazione che va stringendosi tra città e contado, è ancora sul giardino, mediatore tra costruito e paesaggio, che fa perno la teatralizzazione della natura intera.

In realtà, qui, città e natura, paradiso e giardino sono enunciati diversi riconducibili però a un medesimo desiderio di ordinare l’esistente, a un’insopprimibile tensione tutta umana a progettare il proprio ambiente di vita (e quello degli altri), al rimpianto costitutivo di un primigenio luogotempo felice – condizione ideale, immune da preoccupazioni e lavoro, con annessa nostalgia di un paradiso perduto che non sappiamo smettere di provare a ricreare.

Jardins de Marqueyssac, Perigord, Francia

In una dimensione utopica cui tendere e con la quale misurarsi nel segno ancipite della propensione dell’uomo alla cura del tessuto di relazioni di cui è parte e al tempo stesso di un dominare, controllando e manipolando l’ambiente naturale per sfruttarlo strumentalmente come spazio produttivo.

Dal “giardino architettonico che si trasferisce nell’urbanistica” a quelli botanici e zoologici, di epoca e risonanza coloniale, la dimensione funzionale finisce per farsi prevalente, mentre nella pianificazione urbana esigenze di salute pubblica si associano a propositi di controllo sociale tanto negli interventi haussmaniani di embellissement stratégique, come nei progetti di città-giardino.

Con l’affermarsi dei più recenti processi di standardizzazione di un’urbanistica tecnocratica che privilegia su tutto la circolazione di merci e capitali, tra psicosi securitarie, retoriche da smart-city, affermarsi di disuguaglianze socio-spaziali e gentrificazioni, la natura finisce surrogata al più nel decoro, neutralizzata, ridotta a elemento disciplinato e burocratizzato di arredo urbano; oppure relegata nella riserva protetta delle attrazioni a pagamento; o ancora rimasterizzata da realtà virtuali o aumentate che siano come fantasmatica tecno-natura.

Per quanto, spesso in pochi metri, il giardino ci ricorda l’evidenza del nostro dipendere dall’universo nonché l’indispensabile necessità di confrontarci da presso con la complessità di relazioni con il vivente entro cui siamo immersi. E se l’inquietante dissociazione tra uomo e natura che nell’attuale profilarsi del disastro ambientale si manifesta anche nella crisi della vocazione del giardino come cura, rischia di intaccarne anche la tensione utopica che da sempre ne alimenta l’idea, quella di immaginare e concepire possibili alterità, ogni giorno in giardino fissa l’orizzonte indifferibile di una nuova sensibilità, di un’etica che, intanto, nella pratica è già habitus, intrinseco agire politico.

Alessandro Carrieri, Urban eden. Giardino Città Utopia, Mimesis, pp. 236, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIII, 47, Supplemento de Il Manifesto dell’11 dicembre 2023

Parco delle sculture di Franciacorta, Erbusco (BS)