Il giardino, controcanto al caos

La vicenda dell’acquisto di una casa nella campagna inglese del Suffolk con un giardino pressoché abbandonato e che tuttavia rivela ancora le tracce del disegno del paesaggista e scrittore che lo ha pensato e abitato, Mark Rumary, l’aspirazione a rimetterlo in forma e reinterpretarlo, posson diventare occasione per inanellare una serie di riflessioni più ampie sui cicli della vita e il ruolo dei giardini.

Così Olivia Laing, giornalista e critica letteraria, in gioventù erborista e attivista ambientale, nel suo Il giardino contro il tempo. Alla ricerca di un paradiso comune, in una catena di associazioni che in periodo di Brexit e con il continuo affacciarsi degli echi della grande storia sul trascorrere delle mille attività che scandiscono i giorni del diario del giardino, tra liste di semi e bulbi da acquistare, interpola la cronaca delle epifanie del quotidiano in giardino (il Saggiatore, pp. 363, € 26). Dalla dimensione edenica, rivisitata dalla lettura dall’esilio del Paradiso perduto di Milton, alla condizione di esclusione – quantomeno per alcune tipologie di piante o persone – che il giardino disegna, fino a quella di privilegio che si incarica di dichiarare rimodellando paesaggi del potere (come quelli realizzati per le grandi tenute da Capability Brown, modificando il corso di fiumi, spostando colline – e villaggi), quando non alla funzione di innalzare status, o ripulire, per via di parchi e giardini realizzati magari con i proventi di attività illecite, reputazioni di gentiluomini (come nella vicina Shrubland Hall, tra le dimore più grandiose della contea, un palazzo neoclassico per il quale è un giovane Humphry Repton a impostare il giardino per la committenza dei Middleton, dinastia di mercanti di schiavi e proprietari di piantagioni tra Barbados e Carolina).

Anche nella rilettura del diario dal giardino di Prospect Cottage di un Derek Jarman che da poco ha scoperto di essere sieropositivo – una Modern Nature essenziale dove ricombina ginestre spinose e cavoli marini, legni e selci rivoltate dall’oceano –, vale per l’autrice l’indiscusso valore di pharmakon di una pratica del giardino che ci immerge in una sorta di temporalità assoluta, eppure militante, “controcanto al caos personale e politico”. Un giardino, tramite anche per pensare società ideali.

Un po’ come a Benton End, sempre nel Suffolk, dove dall’estate del 1939, il pittore e giardiniere, conoscitore di iris, Cedric Morris con il suo compagno, l’artista Arthur Lett-Haines, danno vita a una piccola scuola d’arte decisamente anomala, la East Anglian School of Painting and Drawing. Riserva incantata dove passano molti giardinieri e artisti, da Lucian Freud a Constance Spry, John Nash, Vita Sackville-West, Francis Bacon. Ma anche giardino di rarità, specialmente di bulbose ed essenze erbacee, che nei colori allucinati dei dipinti dello stesso Morris rispecchiano le specifiche fisionomie dei protagonisti vegetali – dal giallo acuto della Fritillaria imperialis di contro al verde acido dell’Euphorbia characias.

Cedric Morris, Benton blue tit, 1965

Se con Thomas More, a Utopia si fa a gara per realizzare il giardino migliore nonostante la transitorietà dell’uso dei terreni, a scapito della proprietà, nel futuribile Notizie da nessun luogo di William Morris – tra i fondatori del movimento Arts and Crafts, disegnatore di tessuti e gran giardiniere –, il protagonista, militante socialista addormentatosi nella Londra di fine ‘800, si risveglia in un XXI secolo dove in una società riformata l’intera città assume i tratti di un giardino.

Nei giardini, quelli veri di casa Morris, di Red House e poi di Kelmscott House, a Hammersmith, sarà intanto l’atmosfera brulicante di vita del paesaggio naturale a diventare domestica. Contro l’uniformità e nel rifiuto dell’artificio dei precedenti paesaggistici e delle relative gerarchie sottese, qui si ricerca l’individualità: come i fiori in un prato. E già per il poeta contadino del Northamptonshire, John Clare, autore di successo nel 1820 con i Poems Descriptive of Rural Life and Scenery il timore è appunto di perdere la conoscenza della partecipazione reciproca e trasformativa che è di una vera relazione con i luoghi e le piante che li abitano. Appartenenze e connessioni che Clare cerca di preservare ricreando costantemente un paesaggio compromesso o distrutto: nelle sue poesie fotorealistiche, come in quella sorta di arca di salvezza che è il suo giardino

E così, nell’andirivieni di divagazioni, la Laing confessa ancora come, a fronte dell’infittirsi nel suo diario di annotazioni sull’incalzare di una sempre più inclemente siccità in giardino, è soltanto con le prime piogge di fine agosto che le torna in mente come già decenni prima, proprio lo stesso Mark, suo nume tutelare, avesse nel suo libro The Dry Garden anticipato centralità e urgenza di un sapere ormai così indifferibile.

Olivia Laing, Il giardino contro il tempo. Alla ricerca di un paradiso comune, il Saggiatore, pp. 363, € 26, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 20, Supplemento de Il Manifesto del 1° giugno 2025

Dell’infinita varietà dei semi

I semi sono ovunque. Evoluti naturalmente o modificati in millenarie pratiche agricole che han visto intrecciarsi la loro vicenda con la nostra. Misura del mondo, dai miti fondativi, alla leggendaria ma reale vicenda di un John Chapman, detto semedimela, che a inizio 800 scandisce il progredire dell’avanzata della frontiera dell’Ovest nordamericano in un’epopea parallela disegnata dalle migliaia di alberi che pianta. Presenze abituali nel diverso declinarsi dei nostri paesaggi, nelle metafore di fecondazione, germinazione, genesi – i semi di Proteo, quelli di saggezza o verità – che han messo radici nel nostro linguaggio o infiltrato il nostro immaginario. Nel racconto parabola universale di Jean Jono dove L’uomo che piantava alberi finisce in realtà per innescare profonde modifiche nel paesaggio, o ancora, di recente, come tramite per risalire il passato con il loro studio in contesti archeologici proposto dalla carpologia.

È all’infinita varietà di questo microcosmo in nuce che ha dedicato il suo sguardo l’illustratrice e grafic designer Marie-laure Cruschi, in arte Cruschiform, autrice di numerosi libri per bambini, documentari, campagne stampa dove si fondono estetica e impegno, rispetto per l’ambiente. Uno sguardo ammirato e puntuale, pur nella trasfigurazione poetica che li restituisce per via di colori vibranti, velature, trasparenze, volumi modulari.

Mimando l’essenza per cui la forma di ogni seme è il frutto di un lungo processo evolutivo determinato dalle funzioni volte a volta assunte nei diversi contesti, le illustrazioni dell’album 18×26 di Cruschiform, L’odissea dei semi, si stagliano sullo sfondo di pagine color crema con una luminosità interna che evidenzia, appunto, moduli e forme in un ricorso all’essenziale che paradossalmente finisce per reinterpretare, seppur nella distanza, codici e stilemi dell’illustrazione botanica (da Gallimard Jeunesse e, in Italia, per Ippocampo edizioni, pp. 152, € 19,90).

Meticolosamente raffigurati nella loro essenza, quasi in un loro specifico, fondativo design, i semi sono specialmente presentati e raggruppati proprio in relazione alla modalità di dispersione che permette loro di staccarsi dalla pianta madre, viaggiare e diffondersi, riprodursi.

piante anemofile, che si affidano al trasporto del vento

Che siano l’aria e il vento – con semi minuscoli dotati di paracadute piumato, gonnelle, capsule, spirali, lanterne in miniatura, alette che li mantengano sospesi in volo –, o l’acqua – dove navigare in baccelli di fin di due metri (Entada gigas), magari rivestiti di cera impermeabile –, il fuoco e il calore rigeneratore per tante piante pirofite, incendiarie, o la pura e semplice gravità, una varietà di ingegnosi, esplosivi sistemi di espulsione basati su temperatura e pressione, il patto stretto con insetti e uccelli, il ricorso al trasporto, da clandestini, di animali dotati di pelliccia, l’onnipresente, invasiva operosità degli uomini nel procurarsi profumi, spezie, droghe, alimenti, tessuti.

piante pirofite

Un prezioso inventario di quasi 150 semi (e alcuni frutti) che per ciascuno ritaglia brevi storie, divertiti aneddoti, cenni letterari, il nome popolare – quello scientifico, è relegato in piccolo in cima alla pagina, ma la revisione botanica è di Yves Pauthier, responsabile della banca dei semi del Muséum National d’Histoire Naturelle.

Proprio evidenziando nell’infinita varietà, le forme dei semi e la meravigliosa ingegnosità del loro continuo adattarsi, l’autrice sembra additarci con l’essenziale, talvolta elementare eleganza del suo tratto, come nel gioco del ricombinarsi dei moduli debba esser letto – nella lezione dei semi – anche uno spazio ulteriore di libertà.

Quello, nel riprodursi, di alterazioni, mutazioni, modifiche, ibridazioni. Diversità. Nell’affermarsi della creatività del caso, nell’incrociarsi di tratti distintivi tra uguali, nell’imprevisto del combinarsi dei loro patrimoni con le variabili del mondo che si abita.

Cruschiform, L’odissea dei semi, Gallimard Jeunesse e Ippocampo edizioni, pp. 152, € 19,90, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 18, Supplemento de Il Manifesto del 18 maggio 2025

piante che si affidano al trasporto dell’acqua

Biodiversità, alimentare e culinaria, dei paesaggi

La complessa e multiforme variabilità che connota l’Italia nella sua morfologia come anche, storicamente, nell’intersecarsi di protagonismi e soggetti che nel corso dei secoli finiscono per ricombinarsi in sempre nuove identità, si riflette, evidentemente, anche nei suoi modelli alimentari, così come nella cultura gastronomica o nel distinguersi di molteplici paesaggi del gusto.

D’altro canto – seppure a partire da opportunità e vincoli dei territori, nella penisola tanto ricchi di episodi e contesti, così diversi l’un l’altro e così da presso in termini di suoli, orografie, climi–, i paesaggi son pur sempre l’esito, il distillato, di un incessante, continuo misurarsi dell’uomo nell’invenzione e nella costruzione di risposte a esigenze, desideri, proiezioni.

E di paesaggi del gusto, ben al di là del facile ricorso alla metafora, ragiona Massimo Montanari – dalla trattatistica medievale e rinascimentale incrociando fonti normative come gli statuti, fino a seguire il loro affacciarsi sui media a noi più vicini – nel suo Geografia del gusto. Un viaggio in Italia tra i paesaggi del cibo, per il Touring club italiano, che rinnova così e attualizza una sua storica tradizione di attenzione (€ 16, pp. 94).

Perché è a partire dal paesaggio che vanno intese le vicende di prodotti e ricette della cucina italiana. Con l’avvertenza di adottare una prospettiva ravvicinata, almeno per tutta la fase premoderna – prima cioè dell’affermarsi novecentesco di una idea della cucina italiana come cucina regionale – e poi di nuovo, oggi.

Dagli anonimi ricettari trecenteschi, espressione della corte angioina o di ambito toscano, e fino alle prime opere d’autore, come quella del Maestro Martino (Libro de arte coquinaria, anni 60 del Quattrocento), quasi interamente trascritta poi dall’umanista Bartolomeo Sacchi detto il Platina (De honesta voluptate et valetudine, c.1470), a farne il primo testo gastronomico diffuso a stampa, e con enorme successo, la trattatistica di settore trasmette il riflesso di una cultura delle élite focalizzata piuttosto su associazioni alimentari che privilegiano la mescolanza, tradiscono fascinazione per l’esotico, mal sopportano i vincoli del legame con il territorio e dei ritmi della stagionalità e che includono prodotti ritenuti rustici soltanto se nobilitati tramite manipolazioni tecniche e simboliche. La realtà di uno stretto legame con il territorio si impone invece – evidente nelle denominazioni locali di prodotti e ricette – secondo un duplice modello che pare convergere: quello di un centro-nord dove ogni città sussume il patrimonio agroalimentare del contado, e quello del meridione che rimanda a una molteplicità di centri minori e villaggi sparsi nel territorio.

Jan Brueghel il Vecchio (1568-1625) e Peter Paul Rubens (1577-1640), Allegoria del gusto, dalla serie I cinque sensi, 1617-8,  Madrid, Museo del Prado

Tra Sette e Ottocento, le prime raccolte di ricette dedicate a singoli contesti e una nuova attenzione per la cucina del territorio: tra superamento del valore del cibo come strumento di distinzione sociale; reazione all’omologazione conseguenza della crescita dell’industria alimentare; affermarsi di una nuova naturalità del gusto.

Dal 1891,con la pubblicazione di La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, accolto da un successo di pubblico che coinvolge anche i ceti rurali e più volte ristampato, si precisa la vocazione localistica e cittadina della cucina italiana, descritta nella sua ampiezza e circolarità di esperienze definendo un modello di impronta decisamente domestica pur nella circolarità fra cultura casalinga e ristorazione.

E ancora, snodi di rilievo nel processo di riconoscimento della cultura gastronomica come patrimonio nazionale, entrambi del 1931, sono il censimento operato su base locale dai soci del TCI e la Carta delle principali specialità gastronomiche delle regioni italiane di Umberto Zimelli, che visivamente identifica e associa città e territori con prodotti e pietanze tipiche.

Se il riduttivo spostamento della lente, dalle province alle regioni, adottato nella costruzione della nuova Guida gastronomica d’Italia del TCI del 1969 risponde a una logica di semplificazione amministrativa, di più lungo respiro è il processo che, con l’affermarsi del turismo come fenomeno di massa e sotto l’incalzare di un’industria alimentare che mette in scena un presunto recupero della tradizione, vede il progressivo rarefarsi di una fin lì reale consuetudine del consumatore con il prodotto, in una relazione invece sempre più spesso mediata dalla pubblicità e dalla ristorazione, di osti, trattorie, cuochi.. Con sullo sfondo magari il controcanto di inchieste giornalistiche e radiofoniche che da tempo segnalano il rapido sradicamento delle tradizioni locali (dal Viaggio in Italia di Guido Piovene del 1953-56 a quello nella valle del Po di Mario soldati, dal 1957).

A fronte di questo smarrimento di ogni consapevolezza di pratiche e saperi, del lavoro e del rilievo dei luoghi che lo rendono possibile, compare in controtendenza dagli anni 80 una rinnovata attenzione e un capillarelavoro di tutela delpatrimonio gastronomico diffuso, fin nelle sue autentiche realtà minori. Che, inequivocabilmente, valorizza e salvaguarda le biodiversità, anche culturali, dei paesaggi.

Massimo Montanari, Un viaggio in Italia tra i paesaggi del cibo, Touring club italiano, pp. 94, € 16, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 16, Supplemento de Il Manifesto del 4 maggio 2025

I giardini penna e cesoie degli scrittori

Sempre così fecondo per varietà d’esiti e movenze, l’inestricabile passo doppio di penna e cesoie, zappa e scrittura, che avvince molti letterati amanti delle piante si dispiega a tutto campo proprio nella coreografia dei loro giardini: spazi che ne incorniciano vite e opere, alimentando e scandendo il ritmo serrato dello spartirsi di energie e attenzioni in un tale concorrer di passioni.
E questo vale, sia che si tratti di un rifugio bucolico dove tornare per scrivere, alternando l’amore per le piante a quello per i viaggi (Rudyard Kipling), come di una palestra botanica dove testare trame di racconti gialli (Agatha Christie), magari per il tramite dell’alter ego letteraria Miss Marple tra citazioni floreali sugli effetti venefici di alcune piante, o ancora di un gabinetto vegetale, sorta di esilio botanico volontario dove condividere intenzione pedagogica e conforto dell’ordine del mondo vegetale (Jean-Jacques Rousseau). Si tratta altrimenti, di luoghi perno di un’intera esistenza trascorsa in amicizia con le piante, tra missive-erbario e boccioli di rosa cuciti al foglio di una poesia, che si fa viatico, forma di linguaggio naturato (Emily Dickinson). Spesso è un luogo ispiratore dove leggere in controluce scenari letterari come La porta stretta che si affaccia al fondo del giardino di Cuverville, non lontano da Dieppe sulla costa Normanna, con la serra fatta arrivare dall’Inghilterra, dove André Gide ricorda nei suoi diari dei momenti trascorsi insieme a Paul Valéry e al pittore Paul Albert Laurens. E senza peraltro dimenticare quei giardini pubblici volta a volta adottati come occasioni di passeggio botanico e ispirazione, dove magari incontrare i propri personaggi sulle panchine (Javier Marías).

Agatha Christie e suo marito a Greenway Devon, the National Trust

Luoghi minori, talvolta remoti, che ci appaiono però subito familiari, ospiti inattesi di biografie di vite e di opere in filigrana di autrici e autori che lì si svelano giardinieri competenti, sperimentatori di novità esotiche. Dove si circondano di piante, curandole personalmente, seminando, trapiantando, innestando. Mettendo insomma le mani nella terra, sovente con la medesima maniera compulsiva riservata alla scrittura (Christie) – magari per rammaricarsi poi del troppo tempo dedicato al giardino a scapito della letteratura (Gide) – e anche a costo di investire i pochi denari dei primi guadagni letterari per sperimentare nuove varietà di rose (George Orwell).
Son luoghi tutti da visitare con la giuda intrigante del volume che Luca Bergamin dedica a I giardini degli scrittori. Viaggio nei luoghi botanici dell’ispirazione (EDT, pp. 334, € 16.00). Analizzati nel loro contesto paesaggistico e nello specifico dell’architettura vegetale, oltreché della duplice, reciproca relazione creativa con quei loro abitatori, e relative predilezioni botaniche – quelle di Henri James per il glicine e le rose, e però anche per tutte le vistose fioriture del giallo; il gusto per l’integrazione tra giardino e fiume e l’affetto per magnolie, ortensie, camelie e alberi da frutto della Christie, fino agli estremi della sua vera e propria mania per le felci.

Duncan Grant, Garden Path in Spring, 1944

Interpellati, anche sulla base di citazioni, letture, autobiografie, taccuini dal giardino, erbari, annotazioni su calendari, elenchi di semi e di attività, evidenziano saperi pratici, competenze giardiniere, corrispondenze, immaginazione e capacità progettuali. Nella disposizione delle rose – puntigliosamente denominate per tipologie in lettere e romanzi – del cottage dal tetto di paglia di Chawton, nella campagna dell’Hampshire sulla costa meridionale dell’Inghilterra, rifugio letterario degli ultimi otto anni di vita di Jane Austen che immagina un giardino un po’ selvatico, ma con elementi come grottesche, tempietti, siepi, viali di ghiaia, un frutteto con fragoline di bosco. Nei progetti dei giardini, come testimonia l’autografo di Kipling per la sua tenuta nel Sussex dove inventa un’articolazione di spazi che va dal frutteto bordato di siepi di tasso al Giardino del gelso, al roseto vicino allo stagno delle ninfee. O come nel caso di Monk’s House, opera botanica pervasa da una dimensione affettiva che nel 1919 Leonard Woolf crea insieme a Virginia e per lei non distante da Londra, con diverse stanze all’aperto differenziate per temi e colori di fioritura e uno studiolo per scrivere ricavato da una rimessa per attrezzi nel giardino, al margine del frutteto.

Virginia Woolf davanti Monk’s House, agosto 1931

Anche il newyorkese Henry James, che dal 1897 si trasferisce nel Sussex, a Lamb House nella casa di stile georgiano scelta specialmente per gli spazi esterni, prevede un edificio autonomo, una Garden room, al centro del giardino sul retro progettato con l’amico specialista Alfred Parsons, a smentire così di fatto il suo iniziale timore quando in una lettera al fratello confessava “sono senza speranza riguardo al giardino”.
Oltre a quelli degli scrittori coltivatori, a definire le diverse gradazioni di prossimità con i loro luoghi d’elezione, Bergamin ordina i suoi reportage per categorie, distinguendo i giardini degli osservatori, degli esteti, quelli di idealizzatori, architetti disegnatori, e fin degli indifferenti apparenti.
Il cambio di scenari, contesti botanici, rifermenti letterari va ben oltre il godimento della rassegna. Ciascuno con il proprio genius, dal parco della tenuta abitata e coltivata da Lev Tolstoj vicino a Tula nella Russia europea così pervaso dal ricordo della madre al giardino di famiglia a Calcutta del nobel Rabindraht Tagore, animato di piante come sacrali presenze ispiratrici, dalla dimora con vigne nella Svizzera di Hermann Hesse alla casa con grande giardino a Milano dove Alessandro Manzoni pianta lui stesso molti alberi scegliendoli nello stile romantico imperante, a conferma di una sua competenza botanica, rivelata anche nelle accurate descrizioni di paesaggi ne I promessi sposi, che va assieme a una passione per i fruttiferi, gli innesti, gli esperimenti con gli agrumi, nonché per le recenti curiosità botaniche come cotone e caffè.
Con Neruda poi l’esuberante universo botanico esemplificato dalle svettanti araucarie, che tornano salde nei suoi versi, come in un legame tra creature viventi respira allo stesso ritmo delle abitazioni – animate di materiali, posizione, intrinseche facoltà espressive.

Lev Tolstoj a Jasnaja Poljana, vicino a Tula, Russia, anni 1890

Ma anche soltanto la frequentazione più o meno assidua e ispirata da parte di alcuni scrittori diventa occasione per ripercorrere storia, fisionomie e vicende di giardini illustri. Vale per la scenografia dei Boboli fiorentini frequentati da Fëdor Dostoevskij specialmente nella parte del Giardino delle rose di Giove come già dal Marchese de Sade, passeggiatore abituale che pure li descrive.
Se i versi di Montale ispirati dalle false rovine e la Casa dei cigni introducono alla vicenda architettonica e botanica del Giardino inglese del parco di Caserta e gli sguardi a passeggio per i viali di Villa Medici di Chateaubriand si allargano al panoramico parco di presenze scultore e delizie botaniche, è all’indirizzo del Jardin de Luxembourg, con il portato della sua vicenda storica, il bacino ottagonale, il gioco di alberature e viali frequentati giorno e notte negli anni del suo esilio parigino da Emil Cioran, che vien ricondotta la sua cittadinanza letteraria, in una sorta di studiolo diffuso en plen air.

Henry James a Lamb House

E se uno scrittore tutto politico come George Orwell, che pure annota meticolosamente le sue attività orticole in dettagliatissimi diari domestici, trova nei suoi due giardini un modo per radicarsi nel regno delle percezioni, anche riconoscendo loro una valenza politica, capace di farsi talora atto di resistenza, è nell’immersione in una diversa misura dello scorrere del tempo e nell’interazione stretta con un vivente plurale che perlopiù il giardino degli scrittori entra in risonanza.
Piantando i suoi alberi, Manzoni scrive “se vivo abbastanza verranno un giorno a trovarmi dalle finestre” e, sempre a farne persona, Virginia Woolf, nei suoi Diari, a proposito della sua casa immersa nel giardino, descrive evocando: “specie la nostra grande camera da pranzo salotto con le sue cinque finestre, le travi in mezzo a fiori e foglie che annuiscono tutto intorno a noi … Nel frutteto c’erano ventiquattro meli, alcuni un po’ pendenti, altri che venivano su dritti con un impeto che dal tronco si spandeva nei rami e andava a formare gocce rotonde rosse o gialle”.

Luca Bergamin, I giardini degli scrittori. Viaggio nei luoghi botanici dell’ispirazione, EDT, pp. 334, € 16.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 14, Supplemento de Il Manifesto del 27 aprile 2025

Vanessa Bell, Garden at Monk’s House, Sussex, 1947

Uomo-natura nel Medioevo

La verifica sul piano dell’analisi storiografica dei modi in cui il rapporto dell’uomo con l’ambiente si è andato caratterizzando nel lungo corso del Medioevo risulta particolarmente interessante per la varietà di forme espresse, nelle pratiche e nelle rappresentazioni della natura, nei diversi contesti e nel succedersi dei secoli.
Ad affrontare la sfida, indagando nel suo ambito un tema di estrema attualità e al centro di una riflessione multidisciplinare che vede ripensare la categoria stessa di natura e dell’opposizione consueta cultura-natura, interviene ora il medievista Michele Campopiano.
Tenendosi metodologicamente stretto all’idea di natura come entità separata dall’agire umano e con sullo sfondo la lezione di Marc Bloch sulla centralità di forme e modi di affermazione del potere su uomini e terre come leva e motore principe nella trasformazione di territori, società e ambiente naturale. Nella stretta, interdipendente relazione che li traversa, l’autore individua nel suo stimolante volume di sintesi dedicato alla Storia dell’ambiente nel Medioevo. Natura, società, cultura, le fasi essenziali e gli snodi concettuali di questo multiforme processo (Carocci editore, pp. 173, € 17).
In prima battuta, l’eredità del mondo classico e della prima cristianità che si proietta nel Medioevo, con le sue definizioni di natura, la visione gerarchica di un cosmo che per gradi discende da Dio, la corrispondenza tra macro e microcosmo che si riproporziona nell’uomo facendone misura e compendio e significandone centralità e superiorità; ma anche nell’aspirazione pratica al controllo dell’ambiente che si intravede in filigrana nelle tracce della ripartizione dello spazio dei campi con la centuriazione anche dopo il disarticolarsi delle strutture politiche ed economiche dell’Impero.

Novembre, da Les Très Riches Heures du duc de Berry, codice miniato dei fratelli Limbourg, 1412-1416

Quindi, dopo un alto Medioevo caratterizzato da un legame di grande prossimità tra essere umano e natura in riscossa, nello snodo dei suoi secoli centrali, con il diversificarsi di paesaggi, coltivazioni e usi, anche comuni, delle risorse nelle comunità di villaggio – tra coltivi, pascoli, macchie, boschi – e l’affermarsi dell’idea di una natura come ente a sé, con una propria fisionomia che finisce spesso per essere resa in persona.
La riflessione aristotelica su una natura segnata dal movimento si orienta verso la ricerca di un ordine in quel mutamento, verso le cause seconde che regolano l’universo di cui l’uomo soltanto rileva la ratio, unico dotato, a differenza degli altri animali, di un’anima immortale. È questo ordine comune della natura che, delineatosi soprattutto nel 13° secolo, consente di distinguere il naturale dal soprannaturale: mito, miracolo, mirabilia.
Alle grandi attività di trasformazione dell’ambiente che caratterizzano i secoli centrali del Medioevo – disboscamenti e bonifiche, intensificazione di pesca e attività estrattive – corrispondono giustificazioni teoriche, teologiche e rappresentazioni ideologiche, declinate spesso a cavallo tra cura e dominio, tra colonizzazione e l’idea d’essere responsabili di un ordine da disporre, di cui esser custodi.
Volontà di controllo sul mondo naturale che intreccia dominio e desiderio di legittimazione, curiosità, sete di conoscenza, interesse per l’osservazione e la comprensione della natura. Che si traduce in regolamentazioni, norme statutarie, diritti sull’incolto o sulle acque, come pure in elaborazioni teoriche, dibattiti, manuali tecnici, trattati.
Finché le molteplici crisi del tardo Medioevo, in parte anche connesse alle sregolate pratiche di sfruttamento dell’ambiente come i disboscamenti con conseguenti dissesti idrogeologici o l’alterazione dell’equilibrio tra coltivazione e allevamento con relative riduzioni delle rese, induce una progressiva messa a fuoco del nodo della gestione delle risorse naturali.
La riflessione sull’origine di catastrofi anche naturali, alluvioni, terremoti, epidemie ed altri eventi che si fanno sempre più frequenti, vien messa in relazione, oltreché come conseguenza dei peccati dell’uomo – e assieme –, come risultato dei cambiamenti imposti da quest’ultimo all’ambiente, specialmente attraverso particolari interventi sul paesaggio.
Una consapevolezza che si traduce nei primi atti di un progressivo governo del territorio, fatto di limitazioni, regolamentazioni e fin anche pratiche preventive e nell’idea – amplificata dal processo di personificazione della natura – che essa sia comunque un agente. In grado, pertanto, di reagire a forme di sfruttamento eccessive.

Michele Campopiano, Storia dell’ambiente nel Medioevo. Natura, società, cultura, Carocci editore, pp. 173, € 17, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 13, Supplemento de Il Manifesto del 20 aprile 2025

Antico Egitto, archeologia dei giardini

La centralità della gestione delle risorse idriche in una terra come quella dell’antico Egitto, mosaico di ecosistemi attorno all’instabile asse della fertile pianura alluvionale e del delta del Nilo, trova nella diffusa realizzazione di giardini una delle sue espressioni distintive.
Oltre le pratiche di un’agricoltura che è fondamento di quell’antica civiltà così com’è da presso riflessa nei suoi calendari e come ulteriore vicenda di resistenza e adattamento nel contrasto tra l’aridità del deserto che vive di sottili, spesso invisibili, equilibri e il solitario rigoglio delle oasi, i giardini evidenziano qui in varie forme la volontà umana di misurarsi con la natura e regolarla.
Come emerge dall’intreccio di fonti che Divina Centore ridispone oggi nel suo Faraoni e fiori. La meraviglia dei giardini dell’antico Egitto, anche alla luce delle più recenti scoperte archeologiche, le testimonianze che si possono ricavare su entità così fragili e in divenire, sulle loro funzioni spesso sfumate e sovrapposte – colturali, ornamentali, civili, simboliche, religiose, funerarie – vanno ripercorse nei diversi contesti di cui sono ospiti e protagonisti, nella lunga fase che pure tra antico e nuovo Regno non pare tutto sommato evidenziare grandi cambiamenti (il Mulino, pp. 255, € 18). Dall’ambito templare agli spazi che pur senza prevedere un tempio son connessi al soprannaturale, dalle tombe ai recinti sacri, ai contesti abitativi privati, certo più complessi da identificare anche in ragione delle pratiche di riutilizzo.
Riguardo i primi, dedicati in particolare al culto postumo del faraone all’interno di un tempio, dove i giardini esemplano il ricorsivo ciclo della natura, la relazione tra umano e divino, tra faraone divinizzato e forza rigeneratrice della natura, il più antico, identificato nel 2012 è il tempio a valle della piramide romboidale fatta costruire dal faraone Snofru come tomba (ma mai utilizzata) nella zona di Dahsur. Una scelta che immaginando un giardino in un territorio privilegiato dal punto di vista della conservazione delle spoglie ma privo di acqua che occorre trasportare fin lì, destinandolo a uso rituale lo significa come elemento rilevante di una più ampia intenzionalità progettuale. Dai ritrovamenti di una serie di fosse scavate su più file nella sabbia, riempite di terreno fertile e servite da canali di irrigazione si ipotizza la presenza di palme e sicomori, sulla base delle analisi polliniche di cipressi di origine siriana, nonché di mirra e incenso raffigurati sui rilievi, per circa 300 alberi in filari in un modulo non dissimile da quello del viale alberato, spesso presente nell’architettura di templi e luoghi sacri e dalla funzione assieme pratica e simbolica.

Tomba di Ipuy, Scena di giardino, ca. 1295-1213 a.C., New York, Metropolitan Museum

La presenza della flora risulta elemento di tutto rilievo ancora nel complesso del tempio funerario di Hatshepsut a Deir el-Bahari dove si riscontrano radici di persea, pianta di origine etiope, papiro (che simboleggia la resurrezione), sicomoro, tamarisco, acacia, palme da dattero e perfino di alberi di mirra portati qui dalla lontana Terra di Punt, dove la regina aveva organizzato una spedizione scolpita sulle pareti del tempio, con tanto di elenco dei trofei riportati, tra i quali legni profumati.
Con al centro un bacino circondato da palme e acacie, con papiri e fiori di loto (o piuttosto ninfee, a ricordare il ciclo di rigenerazione) il recinto sacro Maru Aten, nella città costruita in onore del dio sole nel deserto di Amarna dal faraone eretico Akhenaton, si articola in edifici spesso decorati con illustrazioni di giardini e paesaggi nilotici, raffigurazioni di piante, percorsi processionali, un portale di pietra con colonne dipinte di verde e decorate con fiori e foglie di ninfea, grappoli d’uva, foglie di alloro e capitelli a foglie di palma, forse anche per integrare la faticosa crescita vegetale.
Se nelle pitture dei giardini di templi dedicati alle divinità si raffigurano tutte le essenze coltivate per lo svolgimento dei rituali – come per la Tomba delle viti dove su gran parte del soffitto della camera funeraria è disegnato un pergolato – il piccolo giardino funerario (3 mt x 2) scoperto nel 2017 a Bra Abu el-Naga è concepito invece come un modello in miniatura destinato ad accompagnare il defunto verso la vita eterna, esaltandone lo statuto.
Scarse le testimonianze archeologiche di giardini in contesti abitativi per i quali ci si deve affidare perlopiù a evidenze architettoniche, tracce testuali e archeobotaniche e pitture. E per quanto si sia 66 ipotizzato che alcune rappresentazioni di giardini possano riferirsi piuttosto a luoghi ideali, diverse indicazioni forniscono riferimenti puntuali. Come nel caso dei giardini di Deir el-Medina, un villaggio che ospitava i lavoratori impegnati nella costruzione delle tombe reali, quando, tra melograni, fichi, papiri, fiordalisi e fiori di ninfea, nella Tomba di Ipuy due giardinieri son ritratti nell’atto di irrigare un giardino, o nella già citata città del sole di Amarna dove pure si riscontrano molte aree verdi, anche al di là dei luoghi sacri. Mentre nell’insediamento degli orti di Giza sulla riva occidentale del Nilo, destinato ad accogliere le migliaia di lavoratori impegnati nella costruzione delle piramidi, nel quadro di una organizzazione urbanistica pianificata, si registrano sofisticati sistemi di irrigazione e abitazioni con stanze prive di soffitto che sembrerebbero esser state utilizzate come cortili e giardini a quota ribassata.
Alle evidenze archeologiche – buche scavate nel terreno contenenti veri e propri vasi di terracotta per ospitare le varie specie botaniche –, ai dipinti – come le pitture funerarie nel giardino di Nebamun, dominato da una piscina piena di uccelli e pesci che nuotano tra fiori di ninfea papaveri e papiri, palme e sicomori – si affiancano disegni architettonici con indicazioni di geroglifici e misure, modelli in legno che in miniatura raffigurano giardini come quello con portico rinvenuto nella tomba di Meketra a Deir el-Bahari e analisi paleo botaniche che consentono di studiare resti fossili di piante, come semi e pollini.
Perfino nei rari documenti come la stipula di un contratto che ne specifica le mansioni, restano vaghi i tratti della figura del giardiniere che pure per operare nelle difficili condizioni climatiche e per l’importanza che i giardini rappresentavano nella cultura del tempo e nello stile di vita delle classi elevate, presupponeva invece conoscenze accurate, una lunga formazione ed esperienza. Per quanto annoverato dalla satira, nel genere letterario degli insegnamenti ai figli, come uno tra i mestieri più faticosi e da evitare, occorre distinguere diversi livelli e il ruolo di rilievo di alcune figure con funzioni di responsabilità e coordinamento. Indicate con titoli ufficiali a dar conto della considerazione in cui erano tenuti personaggi come Nakht, “giardiniere delle offerte divine di Amon”, responsabile di fornire fiori per le cerimonie nei templi, con tanto di titoli riportati su alcuni sarcofagi e cariche tramandate di generazione in generazione.
Mentre sfugge il senso di un’improbabile storia dei giardini in sedicesimo che in coda al volume poco indaga le vicende fondative di quello egizio e della intemerata sulla progettazione di “giardini storici in chiave moderna”, con elenco di tecnologie e futuribili prospettive, a margine dell’importantissimo, invece, tema del restauro storico dei giardini, un suo certo interesse rivela il repertorio delle piante incontrate nei giardini e menzionate nel volume: sorta di erbario tematico in appendice, con trascrizione in geroglifico di alberi ed erbe, descrizione, simbolismi, divinità associate e utilizzi, fin nella cosmesi, nella medicina, negli usi ornamentali come nelle ghirlande, e una serie di aneddoti e informazioni sui maggiori ritrovamenti archeologici. A conferma della ricchezza di presenze botaniche e dell’importanza di piante e fiori nella cultura e nella vita quotidiana dell’antico Egitto, dall’architettura che ad esse si ispira agli impieghi nei più diversi ambiti, alimentari, medici, cosmetici, negli utilizzi pratici come materiale scrittorio, abiti, calzature, in quelli cultuali, corone, ghirlande e composizioni floreali. Fino alla messa in scena, nei Canti del boschetto, con il nuovo genere delle poesie d’amore che inizia a diffondersi con il nuovo Regno, di un dialogo dove, direttamente, a prender parola sono tre alberi sotto le cui fronde si incontrano gli amanti.

Divina Centore, Faraoni e fiori. La meraviglia dei giardini dell’antico Egitto, il Mulino, pp. 255, € 18, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 11, Supplemento de Il Manifesto del 6 aprile 2025

Linneo/Buffon. Vite parallele dei due naturalisti nell’Europa dei Lumi

La diffusa passione ordinatrice che pervade il diciottesimo secolo a fronte della sempre più incalzante presa d’atto della molteplice complessità di modi e forme in cui la vita si esprime pare oscillare e divergere nella tensione tra l’anelito a fissare tutto in modelli complessivi, a incastrare la natura in strutture gerarchiche, distinguendo, assegnando etichette, e un’attitudine invece a percepirla nel suo fluire, a coglierla nella sua complessità in una tensione approssimata per gradi, senza imporle ordinamenti semplificatori, con l’accento posto su connessioni e somiglianze, interrogando incertezza e meraviglia. In un dibattito, quello tra sistematici e complessisisti, come allora si definivano, attorno al quale si ordinano convinzioni ideali e religiose, istituzioni scientifiche e modi di intendere la ricerca, percorsi e formazioni culturali, ma anche inclinazioni e caratteri, stili di vita, modi della scrittura e poi interessi economici e sistemi di valori, visioni del mondo.
Un dibattito che è abilmente messo in scena per il tramite del confronto tra i suoi due maggiori intrepreti, scandito quasi per vite parallele nel volume di Jason Roberts, Una prodigiosa moltitudine. Linneo, Buffon e l’ossessione per la conoscenza, Mondadori, pp. 472, € 30.
Nati entrambi a distanza di pochi mesi, nel 1707, le loro esistenze e il precisarsi delle rispettive convinzioni seguiranno percorsi molto diversi.
Elegante e disinvolto a corte come nei salotti parigini, Georges-Louis Leclerc, che aveva il diritto di farsi chiamare de Buffon in ragione del possesso dell’omonimo piccolo insediamento presso Montbard, in Borgogna, presto trasformato in un laboratorio vivente dove studia in maniera sistematica la crescita degli alberi, a 27 anni, viene ammesso all’Accademia delle scienze per le sue rilevanti dimostrazioni matematiche. Sorta di emblema della figura del savant quando sulla frontiera di una nuova scienza i primi passi si muovono piuttosto all’insegna delle società scientifiche e nelle accademie che non nelle università, nel 1739 Buffon è nominato intendente di quella istituzione unica e controversa che poco più di un secolo prima aveva insidiato l’antico monopolio dell’insegnamento della medicina alla iperconservatrice Sorbona: il Jardin du roi, con le sue collezioni di piante, i cancelli aperti al pubblico, dove si tenevano lezioni informali e dove Tournefort aveva creato il suo sistema botanico. E che aveva finito per accogliere tutte le collezioni di rarità del Cabinet du roi.

Frontespizio dell’Ortus Cliffortianus, opera botanica pubblicata da Carlo Linneo nel 1737, con le illustrazioni di Georg Dionysius Ehret

Mentre Buffon si dedica così a incrementare dotazioni e attività del giardino, e specialmente ad avviare tra cassetti di gemme, erbari e creature impagliate l’impresa dell’inventario del gabinetto alla ricerca di una nuova organizzazione e opponendosi però all’idea di tutto ridurre in rigide categorie, già nel 1730 in un opuscolo di 22 pagine che comincia presto a circolare manoscritto a Uppsala e Stoccolma, lo svedese Linneo, da sempre avvinto dall’idea di ordinare la natura in un sistema globale, propone un nuovo modello di identificazione delle piante strutturato sulla base del loro sistema sessuale, i Preludia sponsaliorum. Figlio di un ministro del culto, che a più riprese aveva sofferto l’alternanza tra la frustrazione delle sue aspirazioni accademiche e successi – una spedizione naturalistica in Lapponia con resoconti zeppi di esagerazioni e invenzioni, e per anni ai margini della vita scientifica impegnato nell’inventario della collezione esotica di Hartekamp, nei Paesi Bassi –, finalmente presidente della neocostituita Accademia svedese delle scienze e poi professore a Uppsala, dal 1742 Linneo si dedica a trasformare il trascurato giardino botanico in una delle maggiori attrazioni della città, con piante e animali esotici, mentre le sue lezioni affollano l’anfiteatro dell’università e grande consenso riscuotono anche le escursioni naturalistiche organizzate per centinaia di persone nel fine settimana, vere e proprie herbationes con una loro tariffa, l’accompagno di corni e timpani e un qual certo sapore militaresco
Recuperando anche terminologie già in uso, ma fissando per primo il loro significato e disponendole in una serie gerarchica di scatole cinesi, secondo criteri mutevoli, Linneo classifica i tre regni nel Systema naturae (15 pagine). Su quest’opera – mentre il suo sistema faticosamente si afferma tra dibattiti e convenienze – Linneo tornerà più volte, affiancandole nella Philosophia botanica la sistematizzazione della nomenclatura binomiale, una semplificazione che assieme al partito preso della sua foga classificatoria renderà quel metodo regola pratica condivisa.
Subito dopo la sesta edizione del Systema naturae dove nel prologo confuta i suoi detrattori e specialmente il suo critico più diretto, a essere pubblicati, nel 1749, sono proprio i primi tre dei quindici volumi ambiziosamente progettati da Buffon per l’Histoire naturelle, générale et particulière. Opera dal successo immediato che rende l’autore popolare forse ancor più di Voltaire, Rousseau e Montesquieu.

Georges-Louis Leclerc de Buffon

Diversamente dall’aridità compilativa della maggior parte delle opere di storia naturale, le dettagliate descrizioni in uno stile felice e avvincente ne fanno, con le incisioni a punta secca degli animali visti nel loro habitat, un’opera quasi letteraria che vale a Buffon l’elezione all’Académie française.A quella vasta diffusione delle critiche al pensiero sistematico si affianca però anche la severa censura della Sorbona nonché pesanti obiezioni di carattere religioso: anche a rischio di stemperare il suo pensiero Buffon navigherà da allora schermandosi abilmente dietro una serie di precauzionali clausole retoriche
Il discrimine, che si riverbera nella disputa sugli universali e coinvolge la possibilità di cogliere o meno l’essenza delle cose, è tra la fissità della lente della sistematica di Linneo, convinto, alla luce del racconto della Genesi che la vita sia un soggetto statico, immutata dalla creazione, e che quindi non si possa prevedere una natura che si modifica o una specie che possa estinguersi, e l’introduzione da parte di Buffon della dimensione diacronica, nella prospettiva del tempo profondo (molti i fossili da spiegare, conservati nel Cabinet du roi) e del cambiamento continuo che mette in crisi la rigidità dei confini di quelle ch’egli – pur finendo in parte per applicarle come utile strumento pratico di approssimazione – considera astrazioni nominali, costruzioni condizionate da presunzioni e limiti della conoscenza del momento.
Andando ben oltre Linneo e Buffon, Roberts allarga il perimetro fissato nel sottotitolo del volume a comprimari come Adamson, Lamarck, Cuvier, … ripercorrendo per cerchi concentrici la trama di relazioni e dibattiti – uno per tutti, sui modi della comparsa delle specie, che Lamarck, ampliando il concetto di esogenesi di Buffon, riconduce al trasformismo avversato dal catastrofismo di Cuvier – , per seguire poi gli sviluppi del confronto tra gli epigoni, diciamo così, di sistematici e complessisti.
Fino all’espandersi e oltre degli imperi coloniali, quando la sistematica sembra evocare da presso una diversa forma di conquista e il diffondersi di nuove tecniche di stampa e litografia induce l’incremento esponenziale di riviste scientifiche, e conseguente moltiplicarsi di invenzione di nuove tassonomie – anche per il marciare spesso separato di botanica e zoologia, malgrado Lamarck avesse introdotto il termine biologia per comprenderle assieme. D’altro canto, nello sforzo di circoscrivere il divenire continuo della vita e il frastaglìo delle sue infinite sfumature, gli atti linguistici si moltiplicano. Specialmente da parte di Linneo che ribattezza classi, riassegna specie spostandole da un genere all’altro. Tra attribuzioni di significati, falsi grecismi, ardite etimologie e vere e proprie invenzioni, cactus, lemure, afide, artemisia, azalea, sono alcune soltanto delle nuove etichette stabilite per dare un senso al mondo. E così pure fauna, o larva. Anche se allora le creature microscopiche e gran parte della vita microbica ancora sfuggono alla classificazione.

Carl von Linné

Ma, è già con la rivoluzione francese che si era affermata la sistematica di Linneo, reinventato eroe rivoluzionario, cui si ispira anche nel nome dei mesi il nuovo calendario – germinale, floreale, termidoro, messidoro son direttamente tratti dal suo Calendarium florae; mentre Lamarck, firmandosi “cittadino”, riesce a salvare il destino di quel Jardin compromesso fin nel nome con la monarchia, proponendo direttamente all’Assemblea nazionale di ripensarlo come delle piante del popolo, una volta ridotto a sezione del Gabinetto di storia naturale che diventa allora museo, come oggi lo conosciamo; e mentre Buffon, a suo tempo osannato come “una delle lampade del secolo dei lumi” – al suo funerale accorrono oltre 20.000 persone –, in mancanza di rivendicazione dei diritti della sua Histoire naturelle, vedrà il suo pensiero snaturato dal diffondersi di ristampe malamente ritagliate e abbreviate e la sua figura ridotta al simulacro di un eccentrico appassionato di scienza. Per quanto poi, negli anni 80 dell’800 – invitato da Thomas Huxley a leggerne l’opera –, Darwin confesserà come “intere pagine [di Buffon] sono incredibilmente simili alle mie”.


È così ben oltre le vicende del pensiero e dell’interrogarsi dei due protagonisti emblematici, che, tra debiti, anticipazioni, attribuzioni di paternità e riscoperte, il disseminarsi e riaffiorare per scie delle loro eredità vien ripercorso nel loro proiettarsi e ribalzare fin sulle soglie più recenti di genetica, genoma, sfumar di confini del soggetto e interazioni di entità sempre ulteriori.

Jason Roberts, Una prodigiosa moltitudine. Linneo, Buffon e l’ossessione per la conoscenza, Mondadori, pp. 472, € 30, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 7, Supplemento de Il Manifesto del 9 marzo 2025

Di mare e terra, se il paesaggio è anfibio

Meglio che in qualsiasi altro ambito, fatta salva forse l’implicazione “atmosferica” che avvolgendoci ci nutre, la reciproca, inestricabile complementarietà dove acque e suoli, terre e mari si incrociano e interagiscono in dinamiche di vita porta a evidenza la dimensione che sempre più si va affermando come costitutiva di un paesaggio, come ormai si usa dire, senza bordi (Venturi Ferriolo). Una dimensione topologica, che rifugge separazione e misura, per la continuità, invece, dell’incessante concorrere trasformativo di dinamiche relazionali.


È quanto con anfibio procedere ci addita in vari modi dalle pagine del suo Mare paesaggio Daniela Colafranceschi (Libria, pp. 183, € 24,00). Ingegnandosi sui molteplici piani espressivi dell’analisi teorica e del progetto di paesaggio come forma di negoziazione (è pur sempre docente di tutto questo a Napoli) come pure su quello insolito dell’intellettuale memoir di epifanie e insight, dal Bosforo ad Algeri. E, specialmente, con le suggestioni evocate dalla serie dei suoi collage paesaggio. Un abecedario in dialogo di luci e ombre, pieni, vuoti, bianchi e neri distillati da fogli difettati di spessa carta realizzata a mano. Strumenti assieme di un operare progettando e per darsi conto di cardini e funzioni del pensiero di paesaggio. In un pervasivo, inesausto disegnare riflettendo, e viceversa, storie per temi. Una vasta e complessa geografia rifratta si compone così e ricombina per orizzonti ordinatori, spazi esistenziali, venti che improntano quel che attraversano, plurali singolarità delle genti, campi tramati da quelle esistenze, paesaggi urbani, rilievi e topografie dell’aderire e manipolare a un tempo. In questo caso poi, specialmente, si tratta dell’acqua nelle sue mille forme, di isole di arcipelaghi complici, rive come limiti e passaggi, stretti come dispositivi di rispecchiamenti, e assieme di fili, trame, scritture. Con l’idea di riconoscere alla relazione tra mare e terra uno statuto di paesaggio.
Così come la terra, anche il mare è un pieno. Di flussi, traiettorie, forme d’esistere, identità, modi di percepire ed esser percepiti, consuetudini, valori. Di cui aver cura nel governo e da intendere come grimaldello, bene comune
Di questo simultaneo appartenere, nei brevi, incisivi interventi del volume, si bordeggiano varie occorrenze. Dal progetto di un parco sullo Stretto di Messina che, proprio a partire dalla discontinuità immagina un’area metropolitana su sponde opposte, alla proposta di ripensare un’ampia area di risulta fattasi negletto margine costiero. Mentre dall’una all’altra costa la trama dei raccordi visivi s’intuisce laddove i resti dei forti umbertini costruiti con l’unità d’Italia secondo le traiettorie balistiche ancora si affrontano a presidiare nello stretto il territorio d’ingresso di quel braccio di mare.
Diversi i modi del mare di infrastrutturare il paesaggio.
Se quello della laguna veneziana dove i percorsi paralleli per calli e canali si incontrano soltanto al montare dell’acqua alta, è uno spazio ibrido di piazze liquide, con le scie sommerse di antichissimi letti dei fiumi che ancora disegnano sul fondo il tracciato delle vie d’acqua navigabili replicate in superficie dai pali delle briccole, il mare interno attribuito alle Canarie sul disegno che l’arcipelago tiene assieme in costellazione e si formalizza come “oceano territoriale”, mentre la geografia in ebollizione dei Campi Flegrei con annesso territorio sommerso del parco archeologico si misura con il vacillare finanche della linea di costa in una “ terraferma che ferma non è”, e il suolo liquido del mare abitato dei Paesi Bassi nel suo continuo sperimentare soluzioni negoziali si fa innesco e laboratorio per ripensare relazioni tra natura e città nel segno della centralità dello spazio pubblico.
Come un unico paesaggio, la continuità di mare e terra si disvela anche nel ripercorrere la storia delle curve di livello che siam soliti ricondurre all’indicazione della quota dei rilievi: mentre all’origine questa convenzione rilevava invece, sotto il livello del mare, il disegno delle possibili percorrenze per la navigazione in acque basse. Per innalzarsi solo poi, fuori dall’acqua, a imprimere con la cartografia militare un’unica condizione – mare o terra che sia – nel domino dei luoghi.


Stretti, golfi, arcipelaghi, porti, città, coste, territori intermedi al variar dell’orizzonte. In questo gioco di sguardi e rispecchiamenti in direzione da terra a mare, o al viceversa, o nell’attraverso da sponda a sponda, dove il limite è anche occasione di transito, scambio, ponte, margine di identità e appartenenza, strumento nel quotidiano o via di fuga, sempre prevale la logica del riconoscimento e il rilievo delle interrelazioni. Perfino in un Mediterraneo che tiene assieme geografie, genti e culture e che oggi troppo spesso si fa muro, fossa comune, spazio di separazioni e disuguaglianze “dove l’attraversamento determina un cambiamento di statuto giuridico da persone a emigranti”.

Daniela Colafranceschi, Mare paesaggio, Libria, pp. 183, € 24, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 6, Supplemento de Il Manifesto del 2 marzo 2025

Chen Congzhou, estetica del giardino cinese

Assieme al carattere allusivo della cultura e della lingua cinese, intese ad accennare piuttosto che a definire esplicitamente, nonché a una qual certa attitudine contemplativa, la convinzione diffusa in Cina che la composizione del giardino sia da ricondursi perlopiù a una dimensione artistica capace di accordare l’invisibile al visibile (con la predilezione per velare quest’ultimo), piuttosto che a componenti tecnico scientifiche e prescrittive, sembrano davvero eludere definizioni da prontuario di norme e leggi.
Piuttosto, rinviare a una filosofia, una visione del mondo, un modo di intendere la vita dove influssi di confucianesimo, taoismo, poi del buddismo convergono in una sensibilità e cultura nutrite di testi classici, pittura di paesaggio, antico teatro, poesia, letteratura, calligrafia. E di cui il giardino è parte integrante ed espressione qualificante ben oltre le analogie poetiche e formali, tanto sul piano compositivo che contenutistico.
In questo senso è illuminante la lezione di Chen Congzhou, letterato e docente dell’Università di Shanghai, probabilmente il maggiore specialista nel 20° secolo della storia, dell’esperienza letteraria, degli stilemi e dei valori trasmessi dai giardini tradizionali cinesi, fino agli innesti della contemporaneità, con un’attenzione particolare al delicato tema del loro restauro.

Wen Zhengming (1470–1559), Giardino dell’umile amministratore, The Metropolitan Museum of Art, New York


L’arte dei giardini cinesi, viene oggi riproposto sempre nella traduzione (dove restano da identificare meglio alcuni nomi di giardini) e la cura di Maria Alessandra Bassi, e una sua introduzione che efficacemente ricorda i maggiori snodi politici e culturali della millenaria storia cinese dove troppo spesso episodi, protagonisti e realizzazioni anche dell’arte dei giardini finiscono per emergere assoluti, come in un indistinto mare magnum (iduna editore, pp. 106, € 25).
Chiave di lettura è qui nel tipo di visione del giardino: due, spesso interdipendenti – anche in ragione dell’idea del movimento nella fissità, propria dell’antica filosofia cinese – e dalla cui interazione deriva un’infinita varietà di paesaggi e vedute: quelle da fermi, in un padiglione, un cortile o un belvedere, più adatte a giardini di piccole dimensioni, come quello del Maestro delle reti e le vedute invece in movimento, prevalenti in spazi relativamente grandi, come nel Giardino dell’umile amministratore. Raramente nel giardino cinese s’incontrano prospettive aperte, mentre prevale la dialettica tra le diverse vedute immaginate nel progetto e l’esperienza del visitatore nel percorrerle, misurandole nel succedersi e mutar di sentimenti.

Shen Zhou (1427–1509), Appreciating Potted Chrysanthemum in Tranquility, Liaoning Provincial Museum, Shenyang


Rifuggendo formule fisse a favore di combinazioni complementari e pertinenza, di modo che ogni giardino sia contraddistinto – anche nel nome – per il suo scenario particolare, dove anche il modo di appender le lanterne si accordi al disegno generale come al suo carattere specifico, Chen Congzhou passa comunque in rassegna, per via di esempi specifici, criteri estetici e scelta di elementi compositivi. Sottolineando il margine di libertà che il progettista deve prevedere per future modifiche, l’importanza del preludio prima di addentrarsi nel cuore del giardino, l’accortezza di inserire piccoli giardini all’interno di giardini più grandi, suddividendo gli spazi per avvertire un maggior senso di ampiezza, l’attenzione da porre ai momenti di transizione, ponti e corridoi, ai sottili contrasti cromatici, all’importanza dell’eco, del riverbero, a non alterare le condizioni climatiche, pur nel mutar di albe, tramonti, stagioni, elementi eterei che servono a dar concretezza al paesaggio.
Imprescindibile, nel giardino cinese, è la disposizione di elementi architettonici, dai padiglioni alle finestre a grata – a rivelare ciò che all’interno merita d’essere visto o per far risaltare il paesaggio. Come importante è schermare le disarmonie e d’altro canto illuminare architetture strette di cortili e corridoi, magari con bonsai. E, ancora, il ruolo della vegetazione nella predominante disposizione di acque e rilievi – sorgenti come occhi delle montagne, fiumi e laghi che illuminano il terreno, rocce associate secondo precise norme, collegate a seconda delle venature – con alberi da piantare a gruppi perché la loro bellezza risalta maggiormente se vista da lontano, capaci di rivelare il passaggio delle stagioni, utilizzati anche per il loro significato pittorico e per le peculiarità che ne fanno caratteristica distintiva di luoghi e giardini.
Se ogni giardino vive di un’eco vicendevole tra il suo paesaggio interno – reso evidente dal[l’idea del] tracciato dei suoi confini – e il suo evocare e riflettere la natura nel suo insieme, magari tramite l’espediente compositivo della presa in prestito del paesaggio a esso esterno, non stupisce come i criteri relativi alla composizione dei giardini si dilatino al paesaggio naturale – con gli elementi architettonici a puntualizzarlo – e al patrimonio culturale, come ad esempio nel caso del sentiero che conduce al Monte Tai dove al girare di ciascuno dei diciotto tornanti corrisponde una particolare veduta a marcare percorso ed esperienza. Sempre in relazione stretta con la pratica di dare un nome a qualsivoglia luogo, visuale o prospettiva, e con il suggerimento magari di quelle iscrizioni che dalla pittura al giardino orientano possibili interpretazioni.

Chen Congzhou, L’arte dei giardini cinesi, iduna editore, pp. 106, € 25, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 4, Supplemento de Il Manifesto del 16 febbraio 2025

Wen Zhengming (1470–1559), Giardino dell’umile amministratore, The Metropolitan Museum of Art, New York

Dettagli per gioco nel giardino dipinto

È tutta all’insegna di un continuo rimpallo tra corrispondenze, associazioni e rimandi la ratio del volume per gioco che Stefano Zuffi dedica a Il Giardino dipinto raccogliendo a tutto campo raffigurazioni che anche solo incidentalmente intersecano questo tema.
Epifanie inattese, mimesi e disvelamenti, personificazioni di protagonismi vegetali in figura, camuffarsi di simbolismi e metafore: in questo caso però in una inusuale sequenza inversa. Perché, seppur tra andirivieni e ritorni, il vettore principe muove qui sempre dal particolare al generale, dal dettaglio infinitesimale che solo in ultima istanza risale all’intero, a quel contesto cui, per vari gradi di pertinenza, appartiene (Sole 24 ore cultura, 100 illustrazioni, pp. 207, € 45).
Articolato, sempre per gioco, in tre grandi contenitori, Piante, Fiori, Frutti, il catalogo rinvia difatti a un Regesto riassuntivo. Quando, soltanto in coda al volume, ognuno di quei dettagli si disvela e, da protagonista proiettato in primo piano, vien restituito al suo insieme, dove invece molto spesso figurava come comparsa, o al più comprimario.
Vinto lo spaesamento per la dismisura degli ingrandimenti a pagina piena, o doppia, e per l’effetto di strabismo di una messa a fuoco macro di particolari orfani di un contento cui agganciarsi, prevale il rilievo di presenza, suggestione, documento dell’oggetto d’indagine.
In una curiosità ludica che risale fin nella screpolatura del pigmento, nella trama del supporto, nel sovrapporsi delle velature.

Carlo Crivelli, Madonna con il Bambino, part., Ancona, Pinacoteca

Così il cetriolo, Cucumis sativus, spesso in abbinata con le mele a suggerire l’associazione tentazione-peccato, ritorna prediletto da Carlo Crivelli nella Madonna del bambino della pinacoteca civica di Ancona come pure con la zucca tra gli attributi di Pomona che resiste al corteggiamento dei satiri, ritratta da Fran Floris de Vriendt a metà 500 (o forse è l’Estate).

Tra mito, osservazione, allegoria, variamente, l’occasione è di emblematica celebrazione dinastica, come per gli allori e il boschetto di aranci della Primavera del Botticelli; nel farsi perno morale e ripartire spazi dello stentato, ma testardamente fruttifero, esile ramo di fico che ordina scena e piani, con Venezia sullo sfondo, della pala Gozzi di Tiziano; nel geometrico partecipare, tra palme ridossate e svettare di cipressi, dei paesaggi trasposti d’esotico nella Cavalcata dei Magi da Benozzo Gozzoli in palazzo Medici Riccardi, a punteggiare il corteo con Lorenzo il Magnifico e seguito degli avi, di numerose specie vegetali disposte ancora nel segno di una stilizzazione cavalleresca, e però con una ricercata attenzione naturalistica.

Se con la fine del 600, tra i trionfi di frutta di un’illustrazione ormai botanica di Bartolomeo Bimbi, il protagonismo delle pere le vedrà disposte in vassoi ordinate per mese di maturazione, numerate e identificate in cartigli esplicativi, di un altro genere son le presenze vegetali, dai cardi del frate spagnolo Juan Sánchez Cotán che metaforicamente ci interrogano alle nature morte con viole del pensiero di Henry Fantin-Latour.

Nicolas Poussin, Eco e Narciso (ca._1629-1630), Parigi, Museo del Louvre

Certo, qui non si tratta del giardino nel suo dispiegarsi di geometrie, rituali, estetiche, con strutture vegetali e assortimenti di fioriture, ma – fatto salvo nell’assortimento il peso dei diritti di riproduzione – di alcuni dei mille modi di incrociarsi con un mondo vegetale da cui si sprigionano, ricercate, ma anche inconsapevoli o impensate, relazioni e rispecchiamenti – l’autoritratto con girasole di Antoon van Dyck con l’esotico fiore in formato gigante –, affidamenti – la serie di raffigurazioni del salice piangente ripetutamente dipinto, certo non quanto le sue ninfee, da Monet –, il legame con i paesaggi, anche interiori, la prossimità impudica con i corpi come per Eco e (l’eponimo) Narciso di Nicolas Poussin, il volteggiare astratto delle roselline sul mare della Nascita di Venere di Botticelli.

Stefano Zuffi, Il Giardino dipinto, Sole 24 ore cultura, 100 illustrazioni, pp. 207, € 45, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XIV, 5 4Supplemento de Il Manifesto del 2 febbraio 2025

Antoon van Dyck, Autoritratto con girasole, 1633, coll. priv.
Benozzo Gozzoli, Cavalcata dei Magi, part., 1459, Firenze, Palazzo Medici Riccardi