Presentazione di Paesaggi di Calvino di Fabio Di Carlo – Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma -MAXXI

Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma -MAXXI, 23 gennaio, 18.30 [1]

persentazione MAXXI Calvino Fabio di carlo Andrea Di Salvo VìridePer parlare del libro di Fabio Di Carlo, Paesaggi di Calvino, dopo averne scritto[2] su Vìride, la rubrica che tengo ogni quindici giorni sul supplemento culturale della domenica de Il Manifesto, Alias, vorrei far parlare Calvino. Che pure, di sé, poco amava parlare. Ma, tant’è.
In un passo autobiografico che qui torna utile per sintetizzare quanto mi interessa per cominciare, Calvino dice:

 “il sapere dei miei genitori [e sappiamo chi erano e il loro ruolo nella sua formazione[3]] convergeva sul regno vegetale, le sue meraviglie, le sue virtù. Io, attratto da un’altra vegetazione, quella delle frasi scritte, voltai le spalle a quanto essi mi avrebbero potuto insegnare [e concludendo, a mò di bilancio, chiosa]. Ma la sapienza dell’umano mi restò ugualmente estranea[4];

Viceversa, Calvino parla altrove di parole vegetali, in uno dei suoi resoconti di viaggio dal Giappone, quando dice:

«Nel giardino i vari elementi sono messi insieme secondo criteri d’armonia e criteri di significato, come le parole in una poesia. Con la differenza che queste parole vegetali cambiano di colore e di forma nel corso dell’anno e ancor più col passare degli anni[5]: mutamenti in tutto o in parte calcolati nel progettare la poesia-giardino [si noti il termine progetto, sul quale torneremo]»[6].

Questi brani mi interessano per sottolineare come filo rosso: la centralità del rapporto, dell’interazione, dell’analogia – per tanti versi – a più riprese instaurate da Calvino tra la scrittura [per lui un modo di stare al mondo, forma di ricerca continua; di darsi senso] e mondo [volta a volta, città, bosco, giardino, foresta, paesaggio; ma anche nuvole, sabbia, e specialmente le connessioni che tramano tutte queste dimensioni, tese tra uomini, oggetti, animali, strumenti, proiezioni dell’immaginario….]

Questa relazione, questa somiglianza, torna esplicitata molte volte.

E forse la più declaratoria è: dopo che Cosimo si è involato sul pallone aerostatico, nella conclusione[7] del Barone Rampante: Calvino scrive

 “Ombrosa non c’è più [uno dei tanti suoi “paesaggi dissolti”]. Guardando il cielo sgombro, mi domando se davvero è esistita. Quel frastaglìo di rami e foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine, e il cielo solo a sprazzi irregolari e ritagli, forse c’era solo perché ci passasse mio fratello col suo leggero passo di codibugnolo, era un ricamo fatto sul nulla che assomiglia a questo filo d’inchiostro, come l’ho lasciato correre per pagine e pagine, zeppo di cancellature, di rimandi, di sgorbi nervosi, di macchie, di lacune che a momenti si sgrana in grossi acini chiari, a momenti si infittisce in segni minuscoli come semi puntiformi, ora si ritorce su se stesso, ora si biforca, ora collega grumi di frasi con contorni di foglie o di nuvole, e poi s’intoppa, e poi ripiglia a attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana e avvolge un ultimo grappolo insensato di parole idee sogni ed è finito“ (1957).

È tutta una dichiarazione di poetica. Come avrete notato, ho sottolineato nella lettura una serie di termini di un lessico “condiviso”.

Come questa, tutta la pagina-palinsesto dei quaranta anni della scrittura continuamente reinventata di Calvino è un paesaggio.

Torneremo su questo rapporto che mi sembra pervadere sottotraccia anche il libro di Fabio Di Carlo, oltre lo specifico della lettura che egli ci dice essere la sua: Quella che si è proposta come obiettivo dichiarato[8].

Direi che Di Carlo questo rischio non lo corre, se non nella misura in cui, lo ricerca. Questo libro, esile, ed è un pregio, è frutto di un enorme, coraggioso, incosciente, lavoro di ricerca: sulle fonti, come un filologo e sulla critica, all’incrocio di diversi approcci e competenze, ricostruendo contesti culturali, … proiezioni[9].

Poi, come talvolta avviene a chi molto frequenta un oggetto di studio, capita che nei suoi riguardi si avvii un inesorabile, inquietante processo di mimetica metamorfosi. Succede un po’ a tutti. È successo forse anche a Fabio Di Carlo. Non tanto, di assomigliare a Calvino, quanto ai suoi paesaggi.

Ne è andato acquisendo la molteplicità di valenze, la trasversale, irriducibile necessità di: da lì partire e lì tornare, la distanza e la gerarchia dei dettagli, l’esattezza e la vista profonda, analitica, ordinatrice, sintetica. E così facendo, da paesaggista, pur sempre architetto, è diventato in questo caso anche, per noi, con un facile gioco di parole: “architesto”[10].

Nel suo libro, Di Carlo procede infatti per ipertesti di citazioni.

Rinunciando a una impostazione cronologica; ad una gerarchia rigidamente tematica. Pure, i titoli dei capitoli del suo libro sono parlanti. E ci svelano i nuclei attorno ai quali si addensano le sue riflessioni.

Non starò però a soffermarmi su tutto quel che nello specifico emerge da queste pagine. Perché è stato già fatto.

La scrittura è sempre tesa, densa di informate, puntuali correlazioni, con flash improvvisi, suggestivi e di grande efficacia[11].

Di Carlo riesce nel suo intento di fare i conti con le proiezioni sull’oggi dei temi che rintraccia e indaga, senza piegarne il senso. Sempre avendo ben chiaro che la cifra dominante di ogni produzione di Calvino è quella estetica, della sintesi artistica.

Questi suoi carotaggi nel corpo del testo di Calvino si dispongono anzi sempre anche nella trama dell’analisi di un contesto. Contesto culturale della ricezione di Calvino[12]: che non si limita alla cultura architettonica ma, tratteggiando il quadro storico-politico [e qui qualche puntello cronologico sarebbe forse tornato utile al lettore giovane], accenna al contesto sociologico, proto-ambientale, al dibattito culturale, a quello letterario, dalla perdita di centralità dell’uomo[13], alla progressiva presa di coscienza dei limiti dello sviluppo.

Per misurare il rilievo della multiforme presenza di Calvino in questa trama di relazioni, si pensi a una delle maggiori operazioni editoriali, di divulgazione si direbbe oggi, alta, lanciata da una casa editrice, la Einaudi…di Einaudi, dove Calvino è fin da giovane pars magna e lo resterà fino alla crisi dell’84, quando comincerà a pubblicare con Garzanti.

Siamo ad inizio Anni 70: Quando esce il primo volume della Storia d’Italia, ispirata – con un omaggio fin nel titolo al March Bloch dei Caratteri originali[14] –, a una storiografia dai tempi lunghi. Caratteri originari, dove trova ospitalità la vulgata di Emilio Sereni della sua Storia del paesaggio agrario (di dieci anni prima).

È il 1972. L’anno di pubblicazione delle Città invisibili.

E, dieci anni dopo – se vogliamo continuare il gioco, siamo tra la “letteratura al quadrato” di Se una notte di inverno (1979, con dentro il suo fantastico quarto di libro – pure indagato da Di Carlo – Sul tappeto di foglie illuminate dalla luna) e Palomar (1983)[15].

Quando, allora, un Calvino nella veste di giornalista per La Repubblica[16] recensirà il volume V della serie degli Annali sempre della Storia d’Italia. Volume intitolato a Il paesaggio, a cura di Cesare de Seta.

E Belpoliti, critico di Calvino cui molto Di Carlo si rifà, sottolinea come in quella recensione del 1982 (La città pensata: la misura degli spazi), Calvino rilevi come “la dimensione del vuoto urbano sia «una costante mentale italiana», attraverso cui si collegano le «città ideali» rinascimentali a quelle metafisiche di De Chirico”[17].

Tutto ciò per dire come il lavoro di Di Carlo si misuri con una scena culturale dove Calvino per quaranta anni è variamente un “primo protagonista”. Un Calvino che è anche uomo di editoria.

Da un testo che raccoglie alcuni dei suoi interventi in questo ambito  prende il titolo una mostra documentaria che si può ancora vedere fino a fine mese alla Biblioteca Nazionale. I libri degli altri. Il lavoro editoriale di Italo Calvino.

Che dà la misura del suo ruolo di ideatore e organizzatore di iniziative editoriali, fino alla scelta delle copertine e alla promozione dei libri[18].
– Calvino: Direttore di collana (la Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria, i Centopagine), compilatore e re-inventore delle 200 Fiabe italiane[19], scrittore per la radio (il racconto dell’Orlando furioso nel 1968[20]), il teatro[21], la musica[22], le arti figurative[23].
– Calvino: Autore di introduzioni, curatele, bandelle e risvolti. Paratesti, come si definiscono in gergo.

Paratesti dal particolare rilievo critico quando si tratta di sue opere. Paratesti dei quali Di Carlo fa nel suo volume un uso sagace

E, a proposito di paratesti su Calvino, leggiamo nella quarta di copertina non firmata di una raccolta di contributi oramai tarda, dell’84, un anno prima della morte:

“Alcuni tratti della fisionomia dello scrittore vengono fuori in queste pagine ‘d’occasione’; onnivora curiosità enciclopedica e discreta presa di distanza da ogni specialismo; rispetto del giornalismo come informazione impersonale e piacere di affidare le proprie opinioni a osservazioni marginali o di nasconderle tra le righe; meticolosità ossessiva e contemplazione spassionata della varietà del mondo”[24].

Non è per caso che la figlia Giovanna sottolinei sempre di suo padre, come “abbia lavorato al fine di non poter essere ridotto a una sola definizione, e … ci sia riuscito”.

È un Calvino che non resta mai eguale a se stesso; che reinventa continuamente le sue molte stagioni.

Si pensi, come ad esempio nel 1963, escono in contemporanea opere differenti come la Giornata di uno scrutatore e Marcovaldo. Certo con quest’anno è ormai evidente un ripensamento, come Calvino dice, delle certezze più “baldanzose”. E non a caso sentirà il bisogno di “darne conto”. Escono allora nuove prefazioni ai Sentieri, là dove spiega il suo paesaggio trasfigurato della resistenza; e la Prefazione al Barone Rampante, in un’edizione scolastica introdotta da un Calvino professore sotto pseudonimo: accuratamente evidenziate da Di Carlo.

Ed è utile ricordare come, sia per il letterato, che per l’uomo di editoria Calvino, risulti centrale il concetto di Progetto, – mi sembra, inevitabilmente, così caro anche a Di Carlo.

Centralità, che emerge fin nel titolo di un saggio di tributo sul numero speciale di Menabò del 1967 dedicato a Vittorini, l’anno successivo alla sua morte: Vittorini: progettazione e letteratura[25]. O ancora come in una pagina[26] dove Calvino dice: “ogni volta che tento un libro devo giustificarlo con un progetto”.

E se gli è stato rimproverato che con una scrittura che si fa sempre più astratta e rarefatta; in lui “la poesia si impiglia talvolta e poi sempre più spesso nella progettazione”[27]. …

È fin nella fucina dei due anni di lavoro dedicato alla stesura della raccolta Fiabe italiane, già quindi dal ‘54 al 56, che si mette a punto la consapevolezza della scrittura come arte essenzialmente ricombinatoria, ingegneria testuale, officina dove la ricerca e l’analisi valgono per i tre quarti e per un quarto la fantasia: che precisa in una tarda intervista video, è “come una marmellata bisogna sia spalmata su una solida fetta di pane”[28].

Ma poi, e fin oltre l’editoria e la letteratura, è il Progetto anche come strumento di controllo: della complessità in vista dell’aspirazione alla coerenza: si potrebbe dire, evocando Carlo Ossola che con riferimento alle Lezioni americane sottolinea non a caso come “Il ‘lascito’ di Calvino sia la combinazione (av)vincente della molteplicità e la coerenza”.

Ma, ricordate la conclusione della citazione d’avvio: “la sapienza dell’umano mi restò ugualmente estranea”. A più riprese, fin dagli anni 50, Calvino constata il crollo di un mondo e soprattutto di un modo di starci.

In un testo del 1980 scrive:

“non posso più nascondermi la sproporzione tra la complessità del mondo e i miei mezzi d’interpretazione: per cui abbandono ogni tono di sfida baldanzosa e non tento più sintesi che si pretendano esaustive. La fiducia in un lungo sviluppo della società industriale […] si dimostra insostenibile, così come una possibilità di progettazione che non sia a breve scadenza[29].

Per altro verso, senza perciò demordere mai dall’impegno, Calvino ragiona da par suo in quel fantastico e come dire sempre attualissimo Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti, pubblicato nel marzo 1980 su La Repubblica (non a caso però uno dei rari ormai interventi civili sul quotidiano)

E, il paesaggio? L’onnipresente pervasività in Calvino di quel paesaggio che Di Carlo percorre mappandone le tematiche come tanti fiumi carsici che si intersecano, mi pare si possa leggere anche alla luce della falda condivisa di quella dapprima evocata centralità della relazione tra scrittura e mondo, che in Calvino si sostanzia nei tanti modi di starci, al mondo [come sulla pagina[30]], ma assumendo così, spesso, sinteticamente, il nome di paesaggio.

Sotto la lente c’è appunto il paesaggio, ma, se ci spostiamo indietro e guardiamo oltre la cornice che ci siamo imposti, cosa c’è? Cosa c’è, cosa c’è finito – per paradosso – tutto attorno, addosso, al paesaggio?

Sarà mica che la sempre incombente consapevolezza della crisi del modello, cosiddetto, di sviluppo[31] che abitiamo non ha trovato di meglio che condensarsi, come precipitato simbolico, anch’essa nel già affollato concetto omnibus di paesaggio[32]

Forse, anche perché il paesaggio si fa meglio di altro Figura di tale crisi; dato che su questa nostra proiezione sono più facilmente leggibili e evidenti le conseguenze, le tracce, le ferite, della sua disgregazione

Nel nostro alter-ego paesaggio trova sintesi e volto Il disagio di abitare un mondo come quello dove siamo ormai noi a dettare – in negativo – l’indirizzo delle trasformazioni sul pianeta. Dando inizio e nome a una ipotetica nuova era, geologica si dice, e purtuttavia caratterizzata da un’impressionante accelerazione dei tempi negli effetti: era, che appunto da noi prende il nome di Antropocene.

Ma, anche, il disagio di abitare un tempo che viaggia sotto il segno della mercificazione di tutte le sfere dell’esistenza, fin quella delle relazioni (con il resto del mondo, appunto, con gli altri, …il nostro desiderio, il nostro … immaginario).

Insomma, se con Calvino e ancor più oggi, il paesaggio si fa figura del mondo, nel senso del modo di starci dentro, questo significa specialmente che si fa figura del modo di abitare la crisi. 

Allora, è forse proprio ripercorrendo la dialettica[33] tra presa d’atto della crisi di un modello [crisi dentro la quale ci dibattiamo senza ancora e ancora a lungo saper immaginare e mettere a punto un nuovo modello] e consapevolezza dello spazio di manovra residuale del come starci dentro, che si delinea forse per l’intanto anche proprio un modo d’essere … paesaggistico. In Calvino, ante litteram o, oltre la lettera (almeno nel senso della lettera dei paesaggisti, per capirci, dell’AIAPP o dell’IFLA) ?

Un modo di stare al mondo, un’attitudine paesaggistica che presidiando la crisi, ne vive dialetticamente la consapevolezza tentando – contemporaneamente – di passare dalla consapevolezza, alla ricerca di risposte, avendo però e perciò presente quindi un nuovo modello verso cui andare. Senza di che non è dato “nuovo progetto di paesaggio”[34].

Se così, pindaricamente, si può procedere; per avvicinarci a concludere si può anche dire: che a Di Carlo va pure il merito, intessendo i temi del paesaggista con tanto di occhiali disciplinari e sbalzando quei temi sulla trama di un paesaggismo come attitudine a presidiare la crisi, di aver colto la vocazione di un’inconsapevole, irriducibile, perché consustanziale, come per un tic, culturalmente introiettato, involontario, metodologicamente strutturante paesaggismo di Calvino.

L’attualità di una lettura dei paesaggi di Calvino percorsi da Di Carlo sta allora forse nel passo lungo, analitico e irrequieto con cui dobbiamo, con Calvino, continuare a percorrere quella “sproporzione e inadeguatezza a comprendere la complessità della realtà”; con la consapevolezza che per essere coscienza critica del mondo (del modo di starci in mezzo) non si può che essere paesaggisti. Alla Marcovaldo, alla Libereso, alla Cosimo di Piovasco, perfino alla Palomar. Alla, … Di Carlo, anche quando – posto che sia possibile – non fa il paesaggista, per così dire, di professione, oltre che per vocazione[35].

Concludo, se consentite, e lo consentono i tempi, proponendovi, come omaggio al libro di Fabio, di rileggere una fiaba – evocando quindi quel sistema ferreo di regole tanto caro a Calvino che vuole, con le fiabe, il fantastico irreggimentato in un congegno perfetto. Una fiaba questa volta non ri-scritta, ma scritta da Calvino.

Ve la racconto o meglio ne racconto il racconto, perché degnamente ricombina fin dalla suggestione del titolo: Foresta-radice-labirinto – con echi, destini incrociati, metamorfosi, giochi geometrici e di reversibilità, dal Baron Cosimo, alle Città invisibili – e ad uso dei bimbi –, temi e archetipi come quelli della foresta e della città. Una città che si chiama, guardate un po’, Alberoburgo.

Foresta-radice-labirinto, questa invenzione di un Calvino di 20 anni dopo il Barone rampante, nasce come fiaba teatrale composta tra il 1977 e 78. Per i bozzetti di Toti Scialoja (assieme ad altre 5) e destinata a una trasmissione per ragazzi della Rete2, nel progetto della serie Il Teatro dei ventagli, serie che non venne mai realizzata. Dopo la messa in soffitta della RAI, il testo, trasformato in racconto venne pubblicato, con illustrazioni di Gianni Ronco, nel 1981 e poi, ancora nel 1984, se ne discuteva per ricavarne una versione per il teatro dei pupi siciliani a Palermo. In un adattamento – con brani anche da Torquato Tasso e dall’Andrea Zanzotto di Galateo in bosco – e con la regia d’esordio di Roberto Andò. Con statue, marionette e costumi disegnati da Guttuso. In una versione che andrà poi in scena, dopo la morte di Calvino, nel 1986.
Leggo e intèrpolo
– Di ritorno dalla guerra alla sua città di Alberoburgo, il re Clodoveo finisce per impigliarsi in una foresta “così fitta che ci faceva buio anche di giorno”. 

“I rami ci ostacolano il passo – disse il re – Non ci resta che scavalcarli o strisciarci sotto”. E lo scudiero: “Rami? Queste sono radici, Maestà”. “Se queste sono radici”, replicò il re, “allora ci stiamo facendo largo sottoterra”. “E se questi sono rami”, insisté il vecchio Amalberto [lo scudiero], “allora abbiamo perso di vista il suolo e siamo sospesi per aria”.  Questa foresta ha le radici in alto e i rami in basso

– Da quando re Clodoveo era lontano, la foresta era diventata sempre più folta e minacciosa, come se il regno vegetale volesse stringere d’assedio le mura della città d’Alberoburgo. E nello stesso tempo, all’interno della città tutte le piante erano appassite, avevano perso le foglie ed erano morte.

Solo un gelso [era] sopravvissuto; Il tronco tutto contorto, pieno d’anfratti, scavato dai secoli.

– Verbena, la figlia sempre in attesa del re Clodoveo, ne spiegherà poi al padre il ruolo e il meccanismo, salvando il genitore da un’immancabile congiura

– Vedi quest’albero tutto contorto? Se tu gli giri intorno in questo senso vedrai il bosco sottosopra, se gli giri intorno in senso contrario, l’alto e il basso si rovesceranno di nuovo…

Insomma, … leggerete poi voi la fiaba per intero. … Basti dire che c’è un incantesimo che imprigiona città e foresta e che si scioglierà soltanto quando Verbena e il giovane Mirtillo vorranno sposarsi “e fondere città e foresta in un solo regno”.

Ma prima, ancora una volta, a volo d’uccello, ecco descritto un incredibilmente sintetico e attuale paesaggio emotivo, dove Calvino ripercorre ancora il disagio, lo smarrimento della perdita di ogni ordine e equilibrio – nonché di senso. Questa volta, nella favola, per scioglierlo però felicemente, sciogliendo anche l’opposizione classica, foresta/città, … natura/cultura.

Torno a leggere e chiudo:
… La foresta era quel mattino tutto un aggrovigliarsi di sentieri e pensieri di persone smarrite: Re Clodoveo pensava: “oh, città irraggiungibile! Tu m’hai insegnato a camminare per le tue vie diritte e luminose: e a cosa m’è servito?

– Invece Verbena pensava: “La città di pietra squadrata e la foresta-groviglio m’erano sempre sembrate nemiche e separate, senza comunicazione possibile. Ma ora che ho trovato il passaggio mi sembra che diventino una cosa sola … Vorrei che la fitta linfa della foresta attraversasse la città e riportasse la vita tra le sue pietre. Vorrei che in mezzo alla foresta si potesse andare e venire e incontrarsi e stare insieme come in una città …

Poi, … tra desiderio e sogno, sempre sorvolando …

– I pensieri di Mirtillo erano come in un sogno: “Io vorrei portare in città le fragole del bosco, ma non in un cesto: vorrei che fossero le fragole a muoversi, … che marciassero sulle proprie radici fino alle porte della città … vorrei che il rosmarino e la salvia e il basilico e la mentuccia ne invadessero le vie e le piazze.

E con questa immagine, vi ringrazio e ringrazio Fabio per questa sua impresa.

            Andrea Di Salvo


[1] http://www.fondazionemaxxi.it/2014/01/20/paesaggi-di-calvino/ Questo testo, letto in occasione della presentazione del libro di Fabio Di Carlo, mantiene, con alcune digressioni, l’andamento orale e informale della situazione cui è stato destinato.

[3] Mario, direttore della stazione sperimentale di floricoltura di Villa Meridiana a San Remo e Eva Mameli, botanica.

[4] Presentazione in Eremita a Parigi, Mondadori 1994, che raccoglie pagine autobiografiche.

[5] Si noti la duplice dimensione temporale

[6] In Il tempio di legno, Calvino, Italo, Saggi 1945-1985, Ed. Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, p. 580.

[7] E per Calvino sappiamo quanto era importante “Iniziare e finire”: tanto che ciò diventa oggetto della proto-lezione di quelle poi Americane

[8] Percorrere l’opera di Calvino muovendosi in prospettiva da architetto – che si avventura però nel limitare tra le discipline – approfondendo l’intuizione di uno specifico contributo di Calvino alla cultura del paesaggio, e cercando, nella sua opera, suggestioni e spunti, come fonte di ispirazione per il progetto di paesaggio.

[9] Eppure poi sempre riconducendo le fila del ragionamento, propositivamente, nel segno della riflessione del paesaggista. Di Carlo è soprattutto un maestro credo di aver capito (in ciò non sminuendo affatto le sue altre competenze e capacità, anzi). Il suo studio, la sua riflessione, le sue produzioni sono finalizzate … alla trasmissione.

[10] Guida, facilitatore, passeur nella sua lettura “produttiva” dei suoi paesaggi di Calvino.

[11] Cito solo, A proposito di un Cosimo Barone rampante nominato sul campo, pardon … sui rami, paesaggista ante litteram, come Di Carlo evoca, e attualizza, reti ecologiche,… pianificazione partecipata; mentre nel villaggio dei lebbrosi giardinieri, come in esperienze di oggi si evidenzia quanto: naturale e coltivato si assommino; Tema che ritroveremo in una fiaba Foresta-radice-labirinto, di venti anni posteriori, sulla quale vorrei tornare. Oppure Di Carlo ci ri-narra le Città invisibili, attualizzandone le categorizzazioni. O ancora ci porta in volo a dorso d’uccello (condividendo la passione di Cosimo autore di Apologhi …) E poi…

[12] Ricezione che come si sa corre sempre il rischio di una lettura teleologica, con riverbero a posteriori sulle opere precedenti dell’interpretazione autentica delle postume Lezioni americane a metà anni ‘80.

[13] Domenico Scarpa, Italo Calvino, dice “Calvino è andato sviluppando una concezione antiantropocentrica dell’universo: l’uomo non può ritenersi signore di tutte le cose”

[14] Ed or.1929 (stesso anno della fondazione delle Annales con Lucien Febvre). Caratteri pubblicati da Einaudi proprio nel 1973, assieme ai Re taumaturghi, nella traduzione di Carlo Ginzburg.

[15] E nel frattempo, i reportage di viaggio, tra cui quelli dal Giappone, citati in avvio.

[16] Dopo esserlo stato dal 1974 del Corriere della sera, inaugurando, con Pasolini e altri, la stagione dei commentatori sui quotidiani.

[17] Belpoliti, L’occhio di Calvino. Se vogliamo, ancora, poi, sempre del 1982 è il numero di Quaderni storici, su Boschi. Storia e archeologia. Dopo quello del 1979 su Azienda agraria e microstoria. Anche se solo nel 1988 si arriverà a parlare, con Alberto Caracciolo di ’Ambiente come storia.

[18] L’attenzione alle illustrazioni anche nei suoi libri: dalle tavole di Sergio Tofano che corredano l’edizione di Marcovaldo ovvero Le stagioni in città nella collana Libri per ragazzi; a quelle di Emanuele Luzzati, per la scelta tematizzata di Fiabe italiane per ragazzi, ai bozzetti di Toti Scialoja per la serie delle fiabe teatrali nel cosiddetto progetto del Teatro dei ventagli, con cui magari chiuderemo questo intervento.

[19] 1956. Poi di nuovo negli anni Settanta Calvino torna più volte a occuparsi di fiaba, scrivendo tra l’altro prefazioni a nuove edizioni di celebri raccolte (Lanza, Basile, Grimm, Perrault, Pitré).

[20] Poi in volume per le edizione Einaudi nel1970.

[21] Nel 1956 scrive l’atto unico La panchina, musicato da Sergio Liberovici,  rappresentato in ottobre al Teatro Donizetti di Bergamo.

[22] Nel 1982 viene rappresentata alla Scala di Milano La Vera Storia, opera in due atti scritta da Berio e Calvino.

[23]  La penna in prima persona, 1977 sull’arte contemporanea e per altro verso con un commento a Carpaccio (inedito del 1971),

[24] Collezione di sabbia: “raccoglie altre pagine di cose viste o che, anche se nate da letture di libri, hanno come oggetto il visibile o l’atto stesso di vedere (compreso il vedere dell’immaginazione)”.

[25]  Ma marcando anche una sua diversità da Vittorini al riguardo: “E qui forse è il punto in cui i miei interessi tendono a divergere dai suoi, a spostarsi verso una conoscenza in cui ogni ipoteca antropocentrica sia abolita, in cui la storia dell’uomo esca dai suoi limiti, sia vista solo come anello, lasciandosi inghiottire ai due estremi dalla storia dell’organizzazione della materia, da una parte nella continuità animale – nella quale Vittorini continua a vedere l’inizio dell’uomo come un salto – e dall’altra nell’estensione alle macchine dell’elaborazione dell’informazione)”: Calvino, Vittorini: progettazione e letteratura [1967], in Saggi, vol., Milano, Mondadori, 1995,  pp. 164-165, citato in Aldo Maria Morace, Il secondo Calvino. Un discorso sul metodo 

[26] Dedicata alla Situazione del 1978, raccolta poi in Eremita a Parigi, Mondadori, 1994

[27] St gen. Lett. Motta XII.

[28] Anche se la domanda riguardava il ruolo della creatività. Con certa fatica, Calvino risponde deviando sulla fantasia.

[29] Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società di Italo Calvino. Milano, Arnoldo Mondadori, 1995. Il testo da l’articolo Sotto quella pietra che Italo Calvino pubblicò su La Repubblica il 15 aprile 1980.

[30] Cfr. anche Domenico Scarpa, Italo Calvino, sub voce Sguardo, p. 231: Calvino dice: “Insomma, quello cui io tendo, l’unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro».

[31] Termine che tradisce subalternità a un pensiero egemone.

[32] Cos’altro è diventato, nelle approssimazioni, nel bene e nel male, anche nell’uso corrente, il paesaggio se non quel che ci sta intorno (a noi, al paesaggio?), quel che ci mettiamo dentro. Quindi, appunto il nostro modo – più o meno ma comunque scelto – di stare al mondo.

[33] Con questa dialettica e le sue proiezioni sull’oggi fa i conti Di Carlo in tutto il suo libro (e in altri suoi interventi, e penso in particolare al recente, Giardini, paesaggio unico, dove in parte molto opportunamente traslittera – glocalmente – queste riflessioni sul paesaggio dal punto di vista ravvicinato del giardino.

[34]  Cioè a dire – sempre sul filo del rischio di scambiare il dito che indica la luna per la luna [Il dito e la luna sono rispettivamente, il compito di supplenza che i paesaggisti, diciamo professionisti si sono dati o si son visto affibbiato, più che affidato, e il modello di società alternativo che, una volta messo a fuoco, occorre declinare.  Con varie tecnicalità, ma specialmente per il fatto stesso di averlo saputo pensare e per il saperci stare diversamente] – quell’insieme di applicazioni conseguenti: soluzioni, interpretazioni, traduzioni di un tal nuovo modello alternativo.

[35] Non ci sarà per caso, per il tramite di Calvino … un invito per ciascuno di noi a farci (oltre i paesaggisti) paesaggisti – o alla Gilles Clément, giardinieri che dir si voglia, più o meno planetari?