Chelsea Flower Show 2022. A Londra, giardini fra il mimetico e il concettuale

Sarah Eberle, Building the Future

È tutto un fiorire di approcci e tematiche nuove, in parte inedite in questo contesto, anche se già nell’aria, quello che pervade, specialmente nelle intenzioni, i trentanove giardini attorno a cui per cinque giorni si sono davvero affollati gli oltre 140.000 visitatori del Chelsea Flower Show. Una tra le maggiori mostre dedicate al mondo delle piante e del giardino, che dal 1913 si tiene ogni anno alla fine di maggio in pieno centro di Londra, nel parco del Royal Hospital a Chelsea, a segnare l’avvio della stagione mondana e quella del giardino (spesso un tutt’uno), nonché delle sue tendenze. Quindi, una certa discontinuità, nell’edizione appena conclusa, rispetto al tradizionale assetto formale, negli anni precedenti tutto progettato e profilato nel senso del contemporaneo allinearsi al design di arredi da un lato e dall’altro della vivace ma posata tradizione orticola anglosassone.

Quest’anno i giardini si propongono invece perlopiù come veicolo di messaggi vitali, di bellezza ma specialmente interesse per il ruolo che le loro piante possono svolgere nel contrasto al cambiamento climatico, rivelandosi occasione di rinaturalizzazione di paesaggi, accordandosi alla natura per costruire – come mediatori – mondi futuri o anche soltanto ripristinare suoli degradati come pure intere aree industriali dismesse.

Così, ispirato alla vegetazione del limitare della foresta, il giardino di Sarah Eberle combina il meticciato di flore native ed esotiche, achitettonici farfugium in delicato contrasto con piante per ambienti umidi, sullo sfondo di una cascata dove però a mimare la roccia vengono impiegate – in una ridondante lettura del giusto tema del riciclo – strisce di legno ricomposto. Mentre, Rewilding Britain landscape evidenzia e ricostruisce la ricchezza anche compositiva di un habitat per come muta dopo la reintroduzione di una specie chiave autoctona, come il castoro.

Passando dall’ispirazione mimetica ad un approccio concettuale, il giardino dell’etnobotanica Jennifer Hirsch definisce attraverso il ritmo alternato di una serie di archi di acciaio corten la progressione di piante pioniere che rianimano un suolo bruciato da un incendio in un’esplosione di vita vegetale, dagli eucaliptus ai geum. E oltre questo giardino-scultura, The plantman’s ice garden è un’istallazione che vede nelle giornate della mostra il disciogliersi di un monolite di ghiaccio di 15 tonnellate a significare l’urgenza del rischio del riscaldamento climatico che incombe e al tempo stesso la ricchezza botanica degli excerpta vegetali che in prospettiva quel ghiaccio conserva. Per l’intanto, il Brewin Dolphin garden (dal nome dello sponsor, una delle più grandi società britanniche di gestione patrimoniale) progettato da Paul Hervey-Brookes propone invece come accompagnare le metamorfosi di aree industriali dismesse dove le piante prescelte, dalle betulle alle persicarie, dai carex ai viburni, contribuiscono a ripulire suoli contaminati.

Andy Sturgeon, The Mind Garden

Ma, oltre l’immediato benessere dell’esperienza dell’immersione nel verde, anche, trasversalmente, molti dei giardini proposti sono pensati per attivarsi come elemento rigeneratore di equilibri interiori, a supporto, volta a volta, di ragazzi con disagi, malati oncologici, senzatetto, detenuti – certo, nella logica compensatoria della tradizione anglosassone delle organizzazioni caritatevoli, alle cui attività spesso i singoli giardini sono associati e ispirati e cui finiranno poi per essere assegnati e lì ricomposti dopo il loro transitare in mostra.

Giardini dunque come elemento di connessione con noi stessi e sempre più declinati nella dimensione comunitaria, a cavallo tra inclusione e rivendicazioni sociali.

Così, tra muretti tondi disposti come petali che separano e uniscono, si stringono o dilatano, tra panche e piante discrete che invitano alla condivisione, The mind garden di Andy Sturgeon è uno spazio per relazionarsi, destinato, dopo la mostra, a essere ricostruito presso l’istituto (che lo intitola), di supporto al disagio mentale. Mentre, tra i giardini della categoria All about plant, ancora un passaggio dalla depressione alla speranza vien simboleggiato nel variare delle tonalità delle piante nel giardino Mothers for mothers, dal nome dell’associazione di supporto alle donne colpite dalla depressione post parto.

Putting down roots (Mettendo radici) è un progetto pensato per uno spazio pubblico urbano a supporto dei senzatetto e con il loro coinvolgimento, con l’idea di proporre anche nuove competenze. Al riparo dei fogliami di aceri, sorbi e biancospini, l’impianto si concentra su comunità vegetali con fogliami di diverse tonalità e texture in dialogo con i colori vivaci degli arredi ricavati con materiali di recupero. E, ancora destinato a esser trasferito nella comunità di Notting Hill è il giardino Hands off mangrove (Giù le mani dalla mangrovia), firmato dall’attivista Tayshan Hayden-Smith e da Danny Clarke, simbolo di coesistenza ecologica e sociale che associa piante adatte ai paesaggi dei centri urbani, tetrapanax, cardi, barbabietole e insalate, con una scultura alta 4 metri di nude radici di acciaio, richiamando la distruzione di fondamentali ecosistemi e un episodio di protesta antirazziale nella Londra degli anni 70, chiamato ad attualizzare il tema degli impatti combinati di ingiustizie razziali e ambientali.

Ruth Willmott, Morris & Co. Garden

Certo non mancano approcci più consueti, più consoni all’aplomb dell’organizzatrice Royal Horticultural Society, che dichiara però di ispirare d’ora in poi la manifestazione a una nuova strategia di sostenibilità (prevede il riciclo di materiali e il reimpiego di piante). A partire dallo stile quintessenziale, seppur reinterpretato, del cottage garden ispirato all’artista imprenditore Arts and Crafts e amante di giardini William Morris, con elementi metallici tagliati a laser sulla base dei modelli a traliccio delle sue floreali carte da parati e una scelta di piante sui toni pastello, tra biancospini, iris e rose rampicanti. Fino alla reinterpretazione in chiave comunitaria del tema classico del front-garden, il tipico giardino unifamiliare. E ancora, con un doppio salto metaforico, nel giardino sponsorizzato dal metaverso di Mark Zuckerberg e suggerito dalle relazioni sotterranee tra funghi e radici degli alberi, Joe Perkins evidenzia le connessioni – cui ispirarsi – che permeano ogni ecosistema. Un prato di fiori selvatici nelle tonalità del rosa, del blu delle centaure e del bianco delle achillee, con sullo sfondo il web.

Distribuiti nelle differenti categorie – i maggiori 14, non a caso nominati Garden Show, di 22 metri per 10 aperti su due lati, assieme ai 12 minori della nuova, piuttosto indecisa, categoria Sanctuary e, a partire dalla scorsa edizione autunnale, post covid dopo la pausa del 2020, i giardini urbani per piccoli spazi, fin anche balconi (decisamente i meno riusciti) – i giardini competono sulla base di rigorosi criteri di giudizio (originalità del disegno, scelta di materiali e associazioni di piante, impatto sensoriale, realizzazione e dettagli costruttivi), forti anche del riverbero di una tappezzante copertura mediatica assicurata tra l’altro da ben tre collegamenti giornalieri della BBC.

Al centro della manifestazione, a orientare sempre gli spettatori persi nel gorgo della folla che si muove tra i giardini, l’enorme padiglione coperto dove, oltre a un corredo di interventi imperniati sull’innovazione scientifica in tema vegetale e sorprendenti esplorazioni didattiche, viene ospitato il distillato della ricerca orticola – e la selezione delle piante dell’anno – di specialisti monomaniaci, coltivatori di hosta, digitali, felci e graminacee, collezioni di elegantissime alstroemerie in bidoni del petrolio colorati a spruzzo, bulbi di camassie e ornitogalli, profusione di lupini e una serie di bellissimi equiseti dal nome incantato Elegia.

Insomma, nel gioco di contraddizioni tra un sistema di sponsor caritatevoli che in tempi di crisi economica con il progetto Giving Back – nomen omen – sostiene la realizzazione di ben 12 giardini in questa edizione e l’inevitabile selezione di pubblico pagante un biglietto d’ingresso giornaliero tra le 70 e 90 sterline, questi “giardini per buone cause” condividono pressoché tutti, oltreché una diffusa sensibilità ecologica e aspirazioni etiche e sociali, un aspetto scapigliato che dal punto di vista estetico paga pegno alle mode del giardino naturale ispirato alle fioriture dei prati e accoglie la lezione degli accostamenti superbi che gli habitat ci suggeriscono, più attento alle esigenze delle piante che non a quelle compositive del nostro occhio.

Senza prendersi troppo sul serio. E ricordandosi che, soprattutto, si tratta di uno show, dove anche l’affollato, caotico, intrecciarsi delle piante è pianificato fin nei dettagli, uno show dedicato ai giardini, ma ancor più a celebrare il multiforme potere dei loro protagonisti primi, le piante. E, con la tirannia della stagione, particolarmente di quelle cui tocca in sorte d’essere in fiore proprio in queste settimane.

Londra, Chelsea Flower Show, da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 23, Supplemento de Il Manifesto del 5 giugno 2022