Vegetali psicotropi

L’essere immersi nel flusso costante di relazioni del vivente che chiamiamo natura, ci invita a riflettere su un inedito incrocio di pratiche e saperi – necessariamente, assieme scientifici e umanistici – in una consapevolezza nuova che si accompagna a una diversa attenzione al paesaggio animale e alle società dei vegetali, e specialmente – inevitabilmente – all’evidenza dell’interdipendenza nelle relazioni che con essi intratteniamo. E che, assumendo la vertigine di una reciprocità che riconsidera la tradizionale distinzione tra soggetto e oggetto, ci invita ad analizzare i modi in cui questi altri mondi ci orientano e ci condizionano sui più diversi piani.

Da sempre attento ai temi che indagano le nostre reciproche relazioni con le piante – come le usiamo e come ci usano – è il percorso del giornalista Michael Pollan, autore di diversi libri di successo, da Il dilemma dell’onnivoro, sul rapporto tra cibi naturali, industriali e salute, a La botanica del desiderio dove, a partire dalla premessa che i desideri umani (come il nettare) facciano parte della storia naturale, incrocia botanica, letteratura, storia sociale e la poco convenzionale prospettiva dell’assunzione del punto di vista delle piante, indagando i modi in cui le specie domesticate hanno impiegato gli ultimi diecimila anni a escogitare modi per nutrirci, guarirci, vestirci … impressionarci. Com’è certo il caso di quelle considerate nel suo ultimo testo, Piante che cambiano la mente, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi,pp. 293, € 20,00.

In questo volume Pollan si concentra su tre di quelle che si rivelano produttrici di sostanze che, se dal loro punto di vista nascono perlopiù come strumento di difesa o di conferma, noi umani utilizziamo invece normalmente per modificare la nostra coscienza: calmare, manipolare o alterare, stimolare.

Sostanze psicoattive fortemente presenti nella nostra storia, impiegate per usi rituali e cerimoniali, o per stimolare il nostro metabolismo e entrate talmente ormai nel quotidiano da aver smarrito la percezione del loro potere alterante. Come la caffeina – contenuta, oltre che nel caffè, anche nel tè, e in misura minore in diverse altre essenze, tra cui il cacao – che, assieme alla morfina, derivata dal papavero da oppio (Papaverum somniferum), e alla mescalina (ricavata dal cactus Lophophora williamsii, noto come peyote e da quello detto di San Pedro-Trichocereus macrogonus var. pachanoi), vengono raccontate con uno stile affabulatorio che mira a coinvolgere, tra domande condivise e l’irrompere di spiazzanti provocazioni, allineando dati puntuali di ricerche, interviste a testimoni e variamente esperti – di orticoltura, giurisprudenza, nomenclatura chimica, venditori di sementi, esponenti del dipartimento antidroga e della controcultura, botanici e etnobotanici, indigeni portatori di medicina –, esperienze ed esperimenti, anche su di sé, e verifiche dirette nel proprio giardino.

Il resoconto delle sperimentazioni giardiniere, estetiche e farmacologie sui papaveri effettuate da Pollan nel contesto della guerra alla droga del 1996-97, viene così riproposto in una versione integrale, allora autocensurata. Dalla semina allo sfrontato fiorire, alla descrizione funzionale della serica friabilità dei petali di quei fiori così spesso soggetto prediletto da tanti pittori, all’incisione delle capsule incoronate da cui trarre l’amara linfa lattiginosa da essiccare. Tra riletture delle Confessioni di un mangiatore d’oppio di De Quiencey e le descrizioni dei sogni avuti da Coleridge sotto il suo effetto, nonché la sottolineatura dell’importanza nella medicina fin dalla sua versione ottocentesca, sotto forma di laudano, si evidenzia il paradosso per cui acquistare semi e coltivare papaveri, non di per sé illegale, lo diventava quando il coltivatore sa come ricavare l’oppio.

Emil Nolde, Große Mohnblumen, acquarello su carta, 1920

Alla narrazione de Le porte della percezione di Aldous Huxley si richiama poi l’esperienza della partecipazione a una cerimonia di condivisione della mescalina tratta dal cactus peyote – pianta condannata già nel 1620 dall’inquisizione messicana – che, rimuovendo il filtro della coscienza che normalmente modula le enormi quantità di informazioni di cui siamo inondati, induce una radicale immersione della mente in un presente dalla vastità inestinguibile, sensorialmente dilatato, con la capacità di percepire centinaia di sfumature di colore.

Apprezzata invece da Antonin Artaud per cui aveva il “potere di re-incantare un mondo che gli dei avevano lasciato”, ma adoperata da almeno 6000 anni dalle popolazioni dell’America del nord, viene abbracciata come religione negli anni 80 dell’800 dagli indiani nativi confinati nelle riserve, che, secondo una legge del 1994 son gli unici ad avere il diritto di consumare il peyote.

Nel caso della caffeina, ricavata invece perlopiù a partire dalle piante di Coffea e, per il tè, di Camellia sinensis, che nel corso della loro evoluzione hanno imparato a produrla per dissuadere gli animali dal mangiarle, disorientandoli o rendendoli inappetenti, o per amplificare la memoria di impollinatori resi così più affidabili nel tornare sui fiori, l’esperimento di Pollan è quello di smettere di assumerla. Rinunciando all’incremento che anche in noi umani induce nella capacità di attenzione e concentrazione, memoria, prontezza, vigilanza.

Valutando così per sottrazione gli effetti di alterazione di stato, che sembra tuttavia normale proprio perché così diffuso e condiviso, in una forma di dipendenza regolare che coinvolge il 90% delle persone di tutto il mondo. Anche se, in realtà non ci dà nuova energia, mentre non fa che nascondere o procrastinare l’assalto della stanchezza. Magari fino al prossimo caffè. Quella tazza di “sole concentrato”, come lo definiva il naturalista Alexander von Humboldt.

Ludwig Passini, Artisti al Caffé Greco, 1856

L’incontro tutto sommato recente delle piante che producono caffeina con l’Occidente data intorno alla prima metà del 600, quando, sul modello delle città arabe le prime botteghe di caffè (solo a Costantinopoli se ne contano 600 nel 1570, dove esso costituisce per il mondo islamico una valida alternativa all’alcol) si diffondono a Venezia (1629) e poi in Inghilterra (1650, Oxford). E lo stesso per il tè dall’oriente, ricco di rituali e accessori, per quanto associato specialmente alla vita domestica. Per i Caffè, si tratta spesso di luoghi distinti in base alle diverse tipologie dei frequentatori – scienziati, assicuratori, mercanti, cerchie letterarie – e non sarà un caso se una delle prime riviste inglesi, The Tatler (1709), definirà le diverse rubriche in cui articola, proprio con i nomi dei vari Caffè, volta a volta identificando il tema in base all’interesse dei suoi habitué. 

Paul Signc, La salle à manger, 1886

Per quanto Alexander Pope nel Ratto del ricciolo renda omaggio al potere dell’infuso “che lo statista rende saggio”, oltre a somministrare bevande, i nuovi spazi pubblici, sono occasione di scambio d’informazioni e opinioni tanto da meritare, seppur inutili, molti tentativi di chiusura come focolai di dissenso. Con Defoe, Swift, Sterne si sostiene addirittura che la cultura dei Caffè abbia modificato il tono formale della prosa inglese nel segno dell’introduzione del parlato. Ma in ogni caso, certo un po’ estensivamente, si sostiene che “la caffeina ha influenzato l’illuminismo, l’esplosione della scienza e il razionalismo … ha contribuito alla rivoluzione scientifica e quella industriale”. Tra i suoi fans, ferventi sostenitori della bevanda, Voltaire, Diderot e Michelet, per il quale “accresce la purezza e la lucidità … illumina in un istante la realtà delle cose con il lampo della verità”, nonché il consumatore di impensabili dosi di caffè Honoré de Balzac (che suggerisce anche una ricetta di somministrazione “a secco”, in un resoconto su come ci si sente quando si consuma troppa caffeina).

Con la caffeina e il diffondersi di un nuovo tipo di pensiero, piuttosto lineare e astratto, si innesca una serie di effetti trasformativi su economia, vita quotidiana, sviluppo della scienza, stili di vita (non ultimo il valore aggiunto in termini di salute pubblica di bevande che prevedevano la bollitura, con l’acqua, dei microbi).

Rimpiazzando almeno parzialmente l’uso dell’alcol, caffè e tè aumentano la resistenza e la memoria, incoraggiano la concentrazione, esaltando lucidità e potenziamento cognitivo, ideali nel passaggio dal lavoro fisico dei campi a quello di precisione del tenere registri e manovrare macchinari

Nuovi rituali scandiscono la giornata – se Thomas Stearns Eliot farà dire a un suo personaggio “Ho misurato la mia vita con cucchiaini da caffè” (J. Alfred Prufrock, ne Il canto dell’amore) – assieme a una nuova disciplina temporale del lavoro che induce l’aumento della produzione, e il lavoro notturno, consentito dal mantenersi svegli e vigili di là dai ritmi del sole. Mentre spiccano episodi come l’affermarsi a metà anni 50 del 900 del moderno concetto di pausa caffè (a lungo in dubbio se da retribuirsi per l’aumento indotto della produttività).

Fino a far della caffeina un nuovo bene di lusso quotidiano, ancora oggi, specialmente per quanto riguarda il caffè, in gran parte stretto dentro una filiera fondata su un piccolo numero di multinazionali in un regime di sfruttamento economico – “droga perfetta … anche per l’ascesa del capitalismo”.

Resta da dire dei molti temi via via incrociati in un racconto a prospettive multiple, con letture storiche, antropologiche, biochimiche e botaniche che variamenti interloquisce con esperti. Della natura bifronte di sostanze considerate in diversi periodi e orizzonti, volta a volta tossiche e illegali, strumento per pratiche spirituali, mercanzia; dei diversi significati che a queste piante psicoattive attribuiamo spesso piuttosto in forza del contesto culturale di partenza che delle loro qualità intrinseche; del vantaggio di una loro felice strategia evolutiva che, utilizzando la specie umana come vettore in ragione della nostra predilezione per gli effetti psicoattivi delle sostanze da loro offerte ha consentito loro – una volta sottratto agli arabi il monopolio del commercio di caffè, da allora coltivato dapprima a Giava, dalla Compagnia olandese delle indie orientalie dai francesi alla Martinica – di accrescersi mirabilmente in termini di numeri e habitat conquistati.

Dalle tutto sommato ristrette zone di origine in quasi 11 milioni di ettari per il caffè e più di 4 per il tè. E ciò, malgrado l’esigente necessità di particolari condizioni di crescita – molta pioggia in altitudine – peraltro sempre più insidiate dal cambiamento climatico.

Michael Pollan, Piante che cambiano la mente, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Adelphi,pp. 293, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 47, Supplemento de Il Manifesto del 4 dicembre 2022

Giacomo Balla, auto caffè, 1928

Piante mediatrici. In rassegna

Discrete e pressoché onnipresenti, per quanto diverse per fasi e culture, le tracce dei nostri rapporti con il mondo vegetale si possono inseguire su vari fronti.

Che siano le raffigurazioni degli iris sulle pareti del palazzo di Cnosso o dell’oleandro su quelle delle ville pompeiane, il nome della centaura – o fiordaliso – da quello del centauro Chirone che con questa pianta si sarebbe curato, o del classico narciso, citato già da Omero, Virgilio e Ovidio, che dal Mediterraneo, percorrendo al contrario la Via della seta, arriva a figurare nei capodanni cinesi, propagandosi naturalmente lungo il percorso. O, come pure, che si tratti del diffondersi in Europa della Malvarosa, o Alcea rosea, riportata probabilmente dai crociati, o dell’Anemone, fiore spettacolare, che i pellegrini, ritenendolo miracoloso, sparpagliano al ritorno in patria mentre gli ottomani lo selezionano coltivandolo nei loro giardini.

Fiori mediatori, chiamati, come il gelsomino, a inghirlandare nell’India induista le statue degli dèi, o la calendula, impiegata nei templi latini prima d’essere consacrata alla Vergine Maria o, ancora, la calla, nativa del Sudafrica ma arrivata poi ovunque, fin tra le comunità indigene del Messico, che la utilizzano nelle cerimonie religiose.

Iris, illustrazione Charlotte Day

Fiori eletti a emblemi, come ai tempi della monarchia francese di Clodoveo avviene per gli iris, che finiscono anche sugli stemmi dei samurai, mentre, sempre in Giappone, dal XIII secolo è il crisantemo a diventare simbolo della famiglia reale. E una Fritillaria meleagris, con la sua sorprendente variegatura a scacchi, sarebbe tra gli elementi per identificare il presunto, unico ritratto realizzato in vita di un William Shakespeare che la tiene in mano sul frontespizio dell’Erbario del contemporaneo botanico inglese John Gerard.

E non si tratta qui che di alcuni soltanto dei riflessi della pervasiva presenza delle piante nella nostra vita che, in quanto alimenti, farmaci, decorazioni, coloranti, tramite simbolico e strumenti rituali, Noel Kingsbury ci racconta ne La storia dei fiori e di come ci hanno cambiato la vita in un intricato susseguirsi di alterne vicende, funzioni e proiezioni, mode e interessi (con le illustrazioni di Charlotte Day, L’ippocampo, pp. 216, € 19,90).

Analizzate per fasi storiche, la popolarità e le mode dei fiori vengono evidenziate, specialmente in giardino. Sottolineando il fondamentale discrimine dell’avvio dei grandi viaggi di esplorazione del Nuovo mondo – e relativi vegetali al seguito, dal girasole del Nord America sbarcato in Spagna con il ritorno dei conquistadores per diffondersi in breve nel resto d’Europa, all’inizio soltanto come pianta ornamentale.

Così, mentre nell’Inghilterra elisabettiana la lavanda veniva offerta a mazzetti, associata all’amore, come oggi usa fare con quelli di rose, e nel 600 il caprifoglio dal profumo dolce e il fusto contorto veniva fatto crescere attorno a un palo e non, come adesso, in forma rampicante, già nel secondo 700 la coltura del giacinto si era talmente diffusa nei Paesi Bassi (nel 1767 ne esistevano circa 590 varietà) da scalzare il predominio di tulipani, rose e narcisi e, solo allora, il sambuco, fin lì disprezzato probabilmente per l’essere associato con il mondo pagano, diventava pianta decorativa con l’affermarsi in Inghilterra dello stile del giardino paesaggistico.

Papavero, illustrazione Charlotte Day

La diffusione sistematica dei fiori si avrà però a partire dall’800. Con la coltura selettiva e gli incroci delle rose, le dalie introdotte in Europa dal Messico nel 1803. Poi con le camelie, assieme all’intensificarsi dei contatti tra Oriente e Occidente (di metà secolo è il romanzo di Alexandre Dumas figlio La signora delle camelie, adattato ne La traviata da Giuseppe Verdi) e, da fine 800, con le sudafricane fresie.

In parallelo con l’espansione di serre, piante in vaso e un mercato botanico di massa, anche il 900 avrà poi le sue mode e infatuazioni.

Il lupino degli anni 60 e, negli anni 90, le infiorescenze sferiche o a ombrello degli agli ornamentali.

Fino alla produzione in scala industriale – con l’orchidea falena, la Phalaenopsis, che facilmente condivide le condizioni di vita delle nostre abitazioni – di una pianta un tempo riservata a pochi ricchi e, a fine secolo, con l’affermazione di rudbeckie e echinacee, ispirandosi alle praterie nordamericane e nel quadro di una nuova attenzione ecologica anche in giardino al rispetto degli habitat e al ruolo degli impollinatori. In un corto circuito che vede oggi il ricorso a una pianta meravigliosa dalla storia antichissima e presente in tanti giardini e tradizioni religiose e filosofiche orientali come il loto, impiegata anche per filtrare le acque e ridurre l’inquinamento.

Nuove estetiche, etiche, e mode. Certo, come sempre ricordando che, anche per queste ultime, tutto è relativo. Come nel caso dell’oleandro giunto nel 500 in Inghilterra e, per il suo inedito per quelle latitudini esser sempreverde, accolto nelle dimore più benestanti, come pianta esotica per i giardini d’inverno.

Noel Kingsbury, La storia dei fiori e di come ci hanno cambiato la vita, illustrazioni di Charlotte Day, L’ippocampo, pp. 216, € 19,90, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 46, Supplemento de Il Manifesto del 27 novembre 2022

Ibiscus, illustrazione Charlotte Day
Loto, illustrazione Charlotte Day

Metamorfosi. Dai diversi punti di vista

Se, in un dibattito che opportunamente si fa via via più trasversale, viene evidenziata ormai anche da parte dei filosofi la pervasiva centralità euristica delle metamorfosi nella lettura del continuo rimescolarsi e trasferirsi di sempre inattuali appartenenze (si veda per tutti, Emanuele Coccia, Metamorfosi. Siamo un’unica, sola vita, Einaudi 2022), è nell’ambito delle scienze naturali che questo divenire trasformativo si rivela come costitutivo della vita. Specialmente evidente in quelle animali dov’è presente praticamente in tutti i gruppi, con l’eccezione della componente – decisamente minoritaria – di rettili, uccelli e mammiferi.

Ce lo racconta, presentandocene una serie esemplificativa per varietà e tipologie e, come anticipato, provando a veder le cose dai diversi punti di vista che quelle trasformazioni via via introducono, il biologo Marco Di Domenico nel suo Taccuino delle metamorfosi, Codice edizioni, pp. 291, € 21,00.

Marco Di Domenico, Polipi o meduse

Con un’avvincente capacità descrittiva – che si avvale anche delle espressive illustrazioni in bianco e nero dell’autore che inframezzano le pagine – e uno stile di scrittura che svelto ci accompagna con mano lieve nell’impervia terminologia tecnica, si procede per via di metamorfosi sulla scia dell’evoluzione, dalle inafferrabili spugne alle meduse, agli animali-muschio, da sogliole e molluschi a farfalle e coleotteri, fino a rane, salamandre, tritoni. Spesso davvero sorpresi di scoprire nella libellula alata e nella sua ninfa acquatica tre volte più piccola lo stesso animale, o nella lunga, silenziosa vita sotterranea della ninfa della cicala (fino a17 anni) la premessa perché, da adulta, possa completare, cantando per poche settimane, la sua esistenza e il ciclo riproduttivo.

In un testo capace di associare puntualità d’informazione ad una resa pressoché visiva dei processi che si dispiegano sotto i nostri occhi profani. E al tempo stesso di disseminare gli snodi di domande più ampie, di rilancio di questioni ulteriori. Fino alle ulteriori evoluzioni della metamorfosi.

Marco Di Domenico nel suo Taccuino delle metamorfosi, Codice edizioni, pp. 291, € 21,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 45, Supplemento de Il Manifesto del 20 novembre 2022

L’intimità dell’arrampicarsi sugli alberi

La mia vita con gli alberi di Karine Marsilly si muove con efficacia secondo il modulo narrativo del racconto autobiografico di un saper fare che, oltre la maestria del mestiere, finisce per riverberarsi in una complessiva visione del mondo.

Un modo di operare che si fa orizzonte di pensiero, filosofia di vita, dove quei saperi e quelle pratiche s’incarnano tra predilezioni, scelte di vita, incontri più o meno fortuiti e fortunati (Einaudi, pp 171, € 18,50, con illustrazioni di Anna Regge).

Con un calco linguistico di cui non si sentiva il bisogno abbinato a un’espressione che genericamente rinvia all’arrampicarsi sugli alberi, il sottotitolo recita Come si diventa un’arborista tree-climber, tentando, non a caso a fatica,  di definire un ambito d’intervento in effetti sospeso. Tra il paradosso che in molti casi vede la cura degli alberi affidata a potature – magari chirurgiche – e abbattimenti, e la particolarità di un intervento da presso, che si fa quasi intimo in ragione di quell’arrampicarvisi per via di corde e moschetti.

Così, anche il racconto delle tecnicalità di una professione riconosciuta, dove lo è, soltanto da una ventina di anni – e in particolare tramite la voce di una delle ancora rare donne in un ambiente perlopiù, anche culturalmente, maschile – introduce all’etica di una cura-potatura al servizio del benessere della pianta, che si rifiuta di abbattere un albero senza un motivo valido e, nel caso, senza mutilarlo, rispettando anzi e valorizzandone la personalità, tenendo conto di architetture, tendenze di crescita, forme di invecchiamento, della natura del suolo e delle relazioni che la parte sotterranea, di volume pari o oltre quello della superficie aerea, intrattiene con quest’ultima.

Esser meticolosi, affinare tecniche di spostamento in chioma, salita veloce su corda, associando intuizioni e abilità, darsi tempo, conoscere e saper attendere il momento adatto per intervenire, calcolando traiettorie, cambio dei venti, va insieme, presuppone e incentiva una sensibilità aumentata a dismisura, più attenta, fatta della capacità di guardare i paesaggi da altri punti di vista, della gioia dell’arrampicare, del legame anche olfattivo con gli alberi, dagli aromi agrumati della tuia, al profumo sottile di miele e vaniglia del viburno tino. E sostenuta dalla scelta controcorrente, che non è un vezzo, di utilizzare al posto della motosega che lacera i tronchi, le varie dentature del taglio a mano di una chirurgica sega giapponese che trancia, senza scalfitture da rimarginare, nel silenzio concentrato, attento, ricettivo ad ogni sensazione, scricchiolio.

Tutto si tiene nella vicenda narrata da Karine, dalle vacanze con il nonno tra gli abeti nella valle di Chamonix, alla strada che per andare a scuola attraversava la foresta, fino poi anche all’apprendistato della vita in città, dove conoscere gli alberi per nome e capire la loro importanza nel contesto urbano “fa parte delle conoscenze da acquisire come le lingue straniere e la storia”.

Così, le esperienze nei progetti di conservazione ecologica, la mediazione tra interessi e punti di vista, l’insegnamento della potatura con attenzione ai cicli della linfa, in relazione con quelli della luna, il lavorare in proprio fino a essere ammessa nella cerchia dell’élite del mestiere, vanno insieme a conferenze, passeggiate esplorative, dimostrazioni di arrampicata, di potature di fruttiferi, all’impegno con associazioni civiche di protezione di tigli secolari, o delle siepi di alberi tipiche di alcuni paesaggi, contro incompetenza, perizie disinvolte, potature eccessive, alla realizzazione del suo parco alberato di liriodendri, salici piangenti, sommaci e sequoie, terreno di studio per verificare convivenze e incompatibilità di carattere, al salvataggio nel cortile di una scuola di una antica per quanto possibile in Europa sequoia gigante della California  (tra quelle arrivate qui soltanto a partire dal 1853, ma che nella originaria Sierra Nevada vivono ormai da oltre tremila anni). Ma anche al raccogliere a 60 mt di altezza nella foresta Nera gli strobili di alcuni esemplari unici di abeti di Douglas, da preservare riproducendoli, o allo spettacolo ideato nel 2005 per il Festival musicale nel parco di Vallon de la Dollée, con musicisti che si rimpallano note e canti su piattaforme tra gli alberi. Ancora, sempre alberi, con il loro universo di animali, uccelli, funghi. Alberi che raramente sfuggono al fatto d’essere considerati come il resto prodotti di consumo, percepiti nell’immaginario collettivo, volta a volta come presenze fedeli, date per scontate o minaccia, disturbo. Alberi che, quando malati, sono in realtà perlopiù maltrattati, disturbati nella loro architettura, nel loro habitus. E che vanno invece lasciati crescere, magari protetti e riconosciuti nei loro diritti in legislazione.

Karine Marsilly, La mia vita con gli alberi. Come si diventa un’arborista tree-climber, illustrazioni di Anna Regge, pp 171, € 18,50, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 44, Supplemento de Il Manifesto del 13 novembre 2022

L’inesausta immaginazione inventiva delle piante

Il volumetto che il drammaturgo, poeta e saggista belga Maurice Maeterlinck dedica a L’intelligenza dei fiori nel 1907 – quattro anni prima di ricevere il premio Nobel per la letteratura … per la ricchezza d’immaginazione e la poetica fantastica … della sua produzione – risulta a tratti di un’inaspettata attualità (ora da Elliot, a cura di Giuseppe Grattacaso, pp. 105, €14,50).

Noto in particolare per le sue opere teatrali, specialmente nella prima fase di stampo simbolista, come Pelléas et Mélisande (1892) – musicata poi per la scena da Gabriel Fauré nel 1898, e alla base di un’opera lirica di Claude Debussy (1902), di un poema sinfonico di Schönberg  nel 1903, nonché di una suite orchestrale di Sibelius nel 1905 – o l’Oiseau bleu, messo in scena a Mosca nel 1908 da Stanislavskij (e in Italia da Luca Ronconi nel 1979), fu parallelamente naturalista autore di diversi saggi di successo come quelli su api, formiche e termiti. Botanico appassionato e sperimentatore in giardino, con un linguaggio a un tempo rigoroso e immaginifico, empaticamente partecipe nel suo esser tecnicamente descrittivo, inanella le prove di un’intelligenza avveduta e vivace del mondo vegetale che si caratterizza per ingegnosità e lungimiranza.

Georges Jules Victor Clairin, Sarah Bernhardt come Mélisande

Concentrando l’analisi sui temi della fecondazione incrociata e dei sistemi di disseminazione, evidenzia sulla base delle conoscenze del tempo l’immaginazione inventiva, ad esempio, della mimosa pudica o della ginestra, dell’acquatica vallisneria, ma anche del filo d’erba qualsiasi, la sua “piccola intelligenza, indipendente, instancabile, inaspettata”. Si enumera così la ricchezza di espedienti messi in atto da un’intelligenza all’opera, ch’è d’ispirazione – in una sorta di biomimetismo – per scienze come meccanica, balistica, navigazione aerea, ma che è anche all’origine di quei “motivi architettonici e musicali presi direttamente in prestito dalla natura”. Ne emerge il continuo lavorio d’invenzione di un processo creativo che procede per via di varianti, ritocchi, semplificazioni e quindi perfezionamenti. Mai fissato, sempre in divenire, al di là dei nomi con cui tentiamo di stabilizzare tipi immaginari.

Per quanto parte di una ricerca fluttuante tra pensiero poetico, metafisico e misticismo, alla ricerca delle manifestazioni  di una sorta di diffusa intelligenza generale, anima del mondo, genio universale che penetra gli organismi nella varietà delle sue forme, quest’attenzione per l’intelligenza animale e vegetale, per i tempi senz’altro anticipatrice, riconduce l’umano all’interno di un macrocosmo, in continuità con la natura, evidenziandone la vanità puerile di credersi al di fuori e al centro dell’universo.

Maurice Maeterlinck, L’intelligenza dei fiori, Elliot, a cura di Giuseppe Grattacaso, ed. or 1907, pp. 105, €14,50, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 43, Supplemento de Il Manifesto del 6 novembre 2022

Giardini in rassegna d’ispirazione massonica

Le tracce in giardino di un’ispirazione esoterica e massonica si moltiplicano, a cavallo tra 700 e 800, in parallelo e talvolta in relazione diretta con il diffondersi anche in Italia del modello del giardino paesaggistico all’inglese che, reagendo alle precedenti impostazioni formali e geometriche, propone invece un rapporto privilegiato con la natura, per quanto tutta accortamente ricostruita e pervasa di testimonianze della storia.

Assieme a elementi ripresi dalla tradizione alchemica, astrologica, cabalistica e rosacrociana si ritrovano così nei giardini simbologie legate agli strumenti della lezione muratoria, come squadre e compassi, elementi architettonici, scultorei, disegni ornamentali di chiara ispirazione massonica, come coppie di colonne, mentre obelischi, piramidi e sfingi rinviano all’antica sapienza egizia. Sacrari, tempietti, labirinti, son dedicati all’Amicizia, alla Saggezza, alla Virtù, torri, cippi, urne funerarie, presentano iscrizioni, magari scolpite in un contesto di rovine.

Elementi tutti – dalla composizione del disegno degli spazi alla valenza simbolica della scelta delle piante – intesi a costruire il tratto comune di un percorso iniziatico che abbina la scoperta di significati riposti e una forma di ricerca e rigenerazione interiore che trascorre per ombre e lumi.

Un corposo volume a cura di Giovanni Greco e Marco Rocchi ripercorre ora i Segreti massonici italiani. Sottotitolo Giardini, simboli e luoghi d’ispirazione esoterica (Mimesis editore, pp. 409, € 35,00). Certo con mano larga, per quanto si consideri come il sincretismo e la complessa stratificazione di ritualità e simbolismi renda labili i confini della tradizione muratoria.

Assimilando, in una sorta di rassegna di episodi diversi, precedenti e sviluppi. Precedenti – come il cinquecentesco giardino romano di Agostino Chigi (noto poi come villa Farnesina), luogo di tradizione umanistica e sperimentazione, deputato alla conoscenza dei segreti del mondo naturale, per una cerchia ristretta, o il seicentesco Giardino di Villa Barbarigo Pizzoni Ardemani a Valsanzibio, sui primi Colli Euganei (tra il 1665 e il 1696) dal salvifico percorso – e opere ispirate allo spirito massonico, come il Giardino inglese della reggia di Caserta o quello, ricco di allusioni e moduli del pensiero muratorio che il patrizio veneto Angelo Querini disegnò di persona ad Altichiero. E, con l’800, gli interventi del massone Giuseppe Jappelli, specialmente il giardino di Villa Cittadella Vigodarzere Valmarana, di Saonara, o quelli di Ignazio Alessandro Pallavicini e dello scenografo Michele Canzio, concepiti a Villa Durazzo Pallavicini a Pegli, come una rappresentazione in più atti.

Ciucioi a Lavis, in val di Cembra

Ancora, il percorso iniziatico del parco Stibbert a Firenze e quello massonico dei Ciucioi a Lavis, in val di Cembra, un giardino merlato, addossato per via di terrazzamenti, guglie, rampe, e fin la facciata di una chiesa gotica, disposti sulle pendici del colle del Paion. Una sorta di tempio dai percorsi simbolici realizzati da Tommaso Bortolotti fra il 1840 e il 1860 con serre di rare piante esotiche, limonaie, aranceti, balconi pensili.

Perché nell’universo massonico anche molte piante comportano riferimenti simbolici, dalla melagrana all’alloro, dalla rosa, fiore del segreto, all’ulivo, fino all’acacia che rinvia al rituale di elevazione.

Giovanni Greco e Marco Rocchi, Segreti massonici italiani. Giardini, simboli e luoghi d’ispirazione esoterica, Mimesis editore, pp. 409, € 35,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 42, Supplemento de Il Manifesto del 30 ottobre 2022

Villa Durazzo-Pallavicini a Genova Pegli

Dalla parte degli ecosistemi

L’analisi della complessità della rete di ecosistemi in cui siamo immersi, cui fa però subito seguito l’indicazione dell’urgente, necessaria revisione delle pratiche per viverci in equilibrio, proposte per Slow Food da Francesco Sottile, esperto di biodiversità negli agrosistemi, inizia e finisce con un accorato invito a cambiare radicalmente postura.

A cercar di guardar le cose dal punto di vista del suolo, degli organismi vegetali, della flora spontanea e coltivata, degli organismi animali, della fauna selvatica e allevata, di risorse quali luce e acqua. Insomma, Dalla parte della natura, come recita il titolo del volume, a Capire gli ecosistemi per salvare il nostro futuro (Slow Food Editore, pp. 171, € 14,50).

Smettendo di pretendere di governare la natura, destagionalizzando, omolo­gando produzioni e annullando diversità e, secondo un modello che, con la cosiddetta Rivoluzione verde, ma poi ancora oggi con le politiche europee per l’agricoltura, privilegia l’agroindustria delle monocolture e della creazione di nuove varietà. Quelle che riducono la biodiversità senza tener conto delle relazioni con i territori e della salute degli ecosistemi.

Coltivazioni nella piana di Castelluccio

Si evidenziano così le correlazioni di questo modello con la crisi climatica in atto, dal ricorso massiccio a fertiliz­zanti e pesticidi, necessari per sostenere le varietà “migliorate”, all’insostenibilità – in termini di costi ambientali – dell’allevamento intensivo. Con ricadute sociali a scapito di un’agricoltura familiare, di piccola scala, multifunzionale, e relativa perdita di sovranità sulle varietà tradizionali nella produzione del seme.

Mentre invece, in forza di un legame virtuoso tra vocazione ambientale dei territori e comunità, un’attenta gestione orga­nica del suolo e la conservazione delle risorse, una diversifica­zione delle colture nel senso del mantenimento della diversità gene­tica locale, indicano nella biodiversità dell’agroecologia – con il concorso dell’interazione tra sistema produttivo policolturale, multi­funzionale e risorse naturali, tra protagonisti vegetali e animali – uno strumento per restituire equilibrio all’ecosistema. E, assieme, un paradigma di convivenza naturale dove ogni elemento ha un ruolo e il cibo, come nutrimento e strumento di sviluppo, recupera la propria centralità.

Francesco Sottile, Dalla parte della natura. Capire gli ecosistemi per salvare il nostro futuro, Slow Food Editore, pp. 171, € 14,50, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 41, Supplemento de Il Manifesto del 16 ottobre 2022

Nature urbane berlinesi. Premio Scarpa per il giardino, Fondazione Benetton

L’attualità e urgenza del tema delle nature in città, in quelle città dove sempre più si concentra la nostra presenza, hanno un’importante, peculiare, storica manifestazione vivente nella vicenda del berlinese Natur Park Schöneberger.

Con i suoi quasi due chilometri di lunghezza, il parco sorge sui terreni dell’ex scalo merci del Südgelände, abbandonati per molti decenni, dal dopoguerra e poi, con una lunga mobilitazione a partire dagli anni 80, sottratti al progetto di una nuova stazione ferroviaria dall’azione di attivisti e ecologisti. Finché, al volgere del millennio, non si arriva all’apertura al pubblico di un parco naturale, esito dell’incrocio di esigenze di abitanti, pratiche sociali e interventi artistici – del gruppo ODIOUS, insediato nel parco – nel dispiegarsi condiviso di una nuova attenzione per i processi naturali intervenuti nei decenni in quei “vuoti”, nelle zone abbandonate della citta – dalla conservazione della biodiversità alla valorizzazione della crescita spontanea della vegetazione tra strutture ferroviarie – all’interno di un processo di ridefinizione della cultura contemporanea dello spazio pubblico.

Vicenda emblematica, pur nella sua irriducibilità. Anche per l’appartenenza del Natur Park Schöneberger a una serie cittadina di parchi che a partire dalla Berlino di spazi “vuoti” e rovine del dopoguerra, del muro e post, costituisce la sua vocazione paesaggistica.

NaturPark Berlino, foto Marco Zanin

È in questa sua veste plurale e con il corollario di alcune specifiche caratteristiche storiche – il rilievo della “scuola di ecologia urbana” nella costruzione di una coscienza diffusa del paesaggio, la storia del sistema degli spazi aperti della città –, ma al tempo stesso in forza del suo valore, attuale in termini di indirizzo progettuale che il Natur Park Schöneberger Südgelände e la natura urbana berlinese han meritato per la sua 32a edizione il Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, che la Fondazione Benetton conferisce ogni anno dal 1990 proprio a un luogo particolarmente significativo (ed. a cura di Patrizia Boschiero, Thilo Folkerts e Luigi Latini, Antiga, pp. 244, € 20). In forma di ricerca collettiva, con indagini, viaggio di studio, incontri, interviste; connessa campagna fotografica e mostra documentaria.
In una sorta di ulteriore passeggiata epistemologica e esperienziale.

NaturPark Berlino, foto Marco Zanin

Natur Park Schöneberger Südgelände e la natura urbana berlinese, a cura di Patrizia Boschiero, Thilo Folkerts e Luigi Latini, edizioni Antiga, pp. 244, € 20 (32a edizione del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino della Fondazione Benetton), recensita da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 40, Supplemento de Il Manifesto del 9 ottobre 2022

NaturPark Berlino, foto Marco Zanin

Alla Reggia di Caserta la grande mostra sui giardini. Frammenti di Paradiso

Jakob Philipp Hackert, Paesaggio con il Palazzo di Caserta e il Vesuvio, 1793, Museo Thyssen-Bornemisza, Madrid

Ancora, finalmente, una mostra sui giardini. Non che di recente non vi siano stati importanti episodi in tal senso. A Torino, alla Venaria reale, nel 2019 una grande esposizione assumeva il tema cosmopolita delle relazioni come innesco narrativo per proporre un Viaggio nei giardini d’Europa. Da Le Nôtre a Henry James.

Ora, in una contingenza particolarmente felice – e fortemente perseguita – che vede protagonisti il parco e la reggia di Caserta, un’operazione a tutto campo intitolata Frammenti di Paradiso. Giardini nel tempo alla Reggia di Caserta, a cura di Alberta Campitelli, Alessandro Cremona e Tiziana Maffei, propositiva  direttrice della Reggia, propone una lettura fortemente dialogica e accessibile della storia del giardino attraverso il prisma della loro rappresentazione (fino al 16 ottobre 2022, ma con in animo una proroga più che probabile).

Un ulteriore, non piccolo passo di un progredire, ancora a tratti a fatica, di attenzione – anche a livello istituzionale – per i giardini come snodo centrale dell’evoluzione del gusto.

Pur nel privilegiare il punto di osservazione e messa a fuoco costituito dai giardini del Parco reale della Reggia di Caserta, in particolare cioè nell’epoca e tramite gli stili del suo apogeo, tra il 700 e primo 800 delle corti, la formula scelta dai curatori mobilita l’intera messa a sistema della più recente ricerca degli studi sulla storia del giardino attorno all’evidenza di molti dei momenti e degli episodi salienti della sua vicenda – ruoli, simbologie, fasi e episodi, storie e protagonisti –, italiana e non soltanto (catalogo Colonnese editore, pp. 398, € 49, con saggi di bilancio ripensati perlopiù in stretta sinergia con le scelte espositive, ma che avrebbe meritato migliore qualità di stampa, evitando pagine raddoppiate e inversioni di immagini).

Spaziando così, a tratti ben oltre la penisola, si procede per via di collegamenti, digressioni e andirivieni, che ricomprendono precedenti, da metà 500, e sviluppi successivi, nella focalizzazione di temi e nell’individuazione delle testimonianze elette per illustrarli, coniugando notorietà dei prestiti con una ricca dotazione di oltre 150 opere tra dipinti, sculture, arazzi, oggetti d’arte, progetti, vedute, modellini, erbari, incisioni. A partire dalle diverse fisionomie dei giardini delle residenze borboniche illustrate nella prima sezione della mostra per il tramite di una ricca serie di progetti e vedute. Alcune, espressamente commissionate, talvolta previo approvazione reale del bozzetto – il caso del napoletano Salvatore Fergola, che nel 1827 ritrae la reggia restituendo rilievo al panorama, sullo sfondo del Vesuvio da San Leucio – altre raccolte a raggera, incastonate in miniature su avori, sul coevo tavolino meccanico di mogano, “alla foggia ercolanese”.

Centralità e rilievo della committenza della famiglia Borbone sono evidenziate, Carlo in primis – con le sue predilezioni botaniche, ritratto da Jean Ranc, raffigurato in apertura di mostra giovanetto nel suo studiolo, con in mano un gelsomino. Sempre in dialogo con la cultura giardiniera del tempo interpretata dal progettista Luigi Vanvitelli (poi dal figlio Carlo) nel suo ispirarsi alla precettistica più autorevole e affermata (Andrè Mollet, Antoine Joseph Dézallier d’Argenville) e ai diversi modelli dei giardini di rappresentanza, specialmente francesi. Poi, Ferdinando IV e Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, nella fase che vedrà la realizzazione nel parco della reggia del Giardino inglese, progettato a partire dal 1786 con John Andrew Graefer. Espressione di una nuova sensibilità e della moda per l’informalità ricostruita del paesaggio. Peraltro presto divenuto anche luogo di acclimatazione per piante esotiche nonché di sperimentazione botanica, e ripetutamente ritratto e quasi all’origine dell’invenzione di un nuovo genere, come testimonia Jakob Philipp Hackert che più volte mette insieme nelle sue vedute motivi provenienti da lì con elementi di fantasia.

Se nel disteso processo di sviluppo dei giardini della reggia di Caserta vanno esprimendosi e convivono diversi elementi e tipologie, con l’imprescindibile riferimento ai modelli francesi e poi l’innesto dello spirito del giardino paesaggistico inglese, il retaggio di quelli della tradizione italiana meritava d’esser ripercorso nei suoi principali snodi, fin dalla metà del 500.

È quanto, sul crinale di un dialogo serrato con i suoi paesaggi propone la sezione dedicata a presentare Il giardino in Italia. A partire da quelli delle proprietà medicee elette a presidiare immaginari e territori, raffigurati nelle celebri lunette attribuite a Giusto Utens, come poi, a testimone dell’evoluzione del giardino barocco, con la Veduta di Villa Cetinale presso Siena di Monsù Giacomo.

Giusto Utens, Villa La Petraia, 1599 – 1603, Villa La Petraia, Firenze

Oltre a quelli delle maggiori dinastie della penisola, dai della Rovere ai Savoia, figurano gli episodi salienti della civiltà delle ville venete, con il giardino come elemento di mediazione con le ragioni del territorio, e una ricca, riepilogativa, ricognizione di testimonianze emblematiche di ambito romano tra secondo 500 e 800, dalla Veduta del Belvedere e dei Giardini Vaticani, del 1589 per i pennelli di Hendrick III van Cleve, a quella di Villa Mattei, dal monte Celio con rovine di Roma antica, del 1625 e attribuita a Joseph Heintz il Giovane, fino al quella del giardino della Villa una volta dei Cesi, nell’area degli Orti Sallustiani, in prossimità di Villa Ludovisi, ormai di impianto paesistico, secondo la moda, con piante esotiche rifacimenti di un tempietto in stile, raffigurata da anonimo di tardo 800.

Joseph Heintz il giovane, Veduta di Villa d’Este a Tivoli, 1625, Villa La Pietra, Firenze

Sempre romana, la Veduta del Tevere dal “porto della legna”, di Ripetta di Vanvitelli del 1685, con sullo sfondo della sponda animata, tra verde e ruderi, le icone di San Pietro e Castel Sant’Angelo e il portale monumentale del casino della cinquecentesca Villa Altoviti: una delle proposte più interessanti, nella mirabile sezione dedicata – tra fontane, canali, peschiere e orizzonti – alle molteplici relazioni tra acqua e giardino in quelli della penisola, tema tutto nelle corde della curatrice princeps Alberta Campitelli, anche per il rilievo che merita qui nelle molteplici sue declinazioni nei giardini della reggia.

Benedetto Caliari, Scena di approdo di un giardino di villa veneta, 1555 – 1575, Accademia Carrara, Bergamo

Oltre quella dell’acqua, che peraltro si ritrova in molte sale della mostra, si rivelano ricche di spunti e all’incrocio di fitte implicazioni molte delle scelte raccolte in quella dei Giardini come scenografia.

Dagli elementi del lessico che compongono e variano i giardini per tipologie, alle funzioni e occupazioni che diversamente li animano. Parterres, piattebande, palizzate, fontane, elementi topiati, gruppi scultorei, cedraie, portali, grotte, “cerchiate”, porticati di verzura, veri e propri “appartamenti verdi”, come nell’incisione acquerellata della Veduta della Palazzina di caccia di Stupinigi di Ignazio Sclopis, e ancora eremi, tempietti e varie fabbriche da giardino, come il Caffeaus del pontificio giardino al Quirinale di Francesco Panini, del 1785.

Giovanni Francesco Mingucci (attr.), Veduta di Villa Caprile, 1630-1640, Musei Civici – Palazzo Mazzolari Mosca, Pesaro

Scenografie, appunto per convivialità, feste, conviti, concerti, giochi, ritualità, tornei, festeggiamenti e nozze. Ma anche veri e propri palcoscenici per recite e spettacoli. E poi teatri d’acqua, di rovine, di verzura, come quello illustrato dal settecentesco Modello ligneo dell’anfiteatro di verzura e di fiori di Villa Bernardini presso Lucca, ma, anche, trasposizioni di giardini al chiuso: in un gioco di reciprocità fino a trasformate in “camere di verzura” sale dipinte a giardino”, com’è raffigurato nello spaccato prospettico di un disegno in mostra, relativo all’allestimento spettacolare di un banchetto in forma di giardino, probabilmente del Castello del Catajo.

Matthias Withoos (attr.), Villa Aldobrandini, 1648 – 1659, Museo di Roma, Roma

Ambientazioni effimere, allegoriche, mitografiche, in notturno. E immaginifici giardini d’invenzione. Come nel caso delle tre Vedute di fantasia con villa del primo Seicento attribuite a Francesco Mingucci, in particolare quella con padiglione di verzura sul poggetto; e, di Sebastian Vrancx, la Veduta fantastica con Villa Medici (1615) – luogo che avrebbe ispirato anche Claude Lorrain per una sua Veduta ideata di un porto con Villa Medici, sempre in mostra, nella sezione del giardino e l’acqua – o, ancora, il Capriccio con fontana di Nettuno in un parco, in risonanza, si propone, con l’istituzione di quello di Caserta (1756-1759), ad opera di Antonio Joli, capo scenografo e architetto del Teatro di San Carlo nel 1762.

Ludovico Pozzoserrato, Concerto in villa, 1690 – 1700, Museo di Santa Caterina, Treviso

Meno convincente il panorama restituito da alcune sezioni, come quella dedicata a Il giardino e il selvatico, dov’è quasi ridotto a spettacolo venatorio, teatro di caccia (bosco, barco venatorio, ragnaia), piuttosto che non al ben più complesso tema delle amministrate relazioni con il selvatico cui è intitolato. O alle proposte – malgrado la indubbia bellezza di alcune opere, come la serie di arazzi ricondotti alla manifattura di Cornelius Mattens intitolata ai Giardini raffiguranti episodi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio – che orbitano attorno all’immenso, scivoloso, soggetto dei Giardini e rappresentazione simbolica. Idealizzati, sempre evocati per forza di allegorie, tra virtù, significati religiosi e letture profane, del giardino d’amore, iniziatico, astrologico, scientifiche, risultando sempre troppo connessi alle diverse temperie culturali per poter viaggiare senza agganci ai contesti, assoluti.

Hackert, Veduta di Villa Albani nel paesaggio della campagna fuori Porta Pia,1779, Anhaltische Gemäldegalerie, Dessau-Roßlau

Infine, con oculatezza la sezione su Giardini e botanicarestituisce le varie forme di considerazione per il soggetto vegetale riflesse nel crescente interesse per le piante, tra disposizione artistica e nuova attenzione analitica. Dalle testimonianze di una nuova sensibilità naturalistica e relativi stilemi veicolata da importanti committenze e apparati iconografici della trattatistica, resa in mostra con il Narciso giallo e mantide religiosa di Jacopo Ligozzi, alle trasposizioni nelle allegorie dipinte delle stagioni con ghirlande e festoni di Pier Francesco Cittadini e, anche in scultura, con le statue di Primavera e Estate di Gian Lorenzo Bernini e figlio; fino alla tipologia floreale delle nature morte di impronte diverse, dalla connotativa relazione con il gusto per l’antico all’ibridazione con il contemporaneo genere dei capricci.

Pierfrancesco Cittadini, Allegoria della Primavera, 1650 – 1655, Galleria Estense, Modena

Così, complici anche la diffusione delle nuove conoscenze botaniche e la disponibilità di nuove specie esotiche, le mode floreali finiscono per riflettersi persino negli arredi – qui, la coppia di lampade di manifattura campana a forma di ananas, in bronzo dorato e cristallo molato –, mentre nel periodo barocco e rococò grande fortuna continua ad arridere alla floromania, con le nature morte di Gasparo Lopez, detto dei Fiori, come altre, fin nel titolo, ambientate in un giardino – e lo stesso vale per il Trionfo di fiori in un giardino di Michele Antonio Rapous, della seconda metà del XVIII secolo.

Malgrado questa spesso evocata restituzione di piante e fiori in contesto, cioè a dire nei giardini, e per quanto sia considerazione diffusa che essi siano testimoni dell’evoluzione del gusto, nel ripercorrere filologicamente letture e gusti coevi, è raro – e scarsamente indagato – il protagonismo dell’elemento vegetale in atto, dall’estetica di figurazioni e accostamenti alle pratiche, ai saperi, alle strumentazioni connesse alla coltivazione, al loro dialogo con gli altri soggetti e interpreti del giardino. Certo anche per l’approssimazione delle rappresentazioni, spesso stilizzate, e spia di una diversa considerazione, ancillare del rilevo del ruolo vegetale…. Che non è ormai più, però, quella della nostra attenzione d’oggi. Ma questa è tutta un’altra mostra a sé.

Jan Wildens, Attività in un giardino, 1614, Musei di Strada Nuova, Genova

Nel gioco di relazioni tra rappresentazioni del giardino e giardino reale, tra quell’artificio vivente e la sua trasposizione per via d’altri linguaggi artistici, procedere così per Frammenti di Paradiso evoca ad ogni passo un colloquio fatto di scambi, slittamenti, reciprocità, transfert che, in questo contesto espositivo, intrinsecamente legato al suo giardino e nella sobria eleganza del percorso espositivo ospitato in alcune sale di rappresentanza dell’appartamento della regina, di recente recuperate al suo Museo, si amplifica e si moltiplica, ogni volta che la ricchezza di impianto delle scelte in mostra entra in risonanza con la potente suggestione della prossimità, fuori dalle pareti, del Parco reale e, traverso gli affacci, della diretta relazione visiva con la sua scenografica Via d’Acqua.

Frammenti di Paradiso. Giardini nel tempo alla Reggia di Caserta, Mostra a cura di Alberta Campitelli, Alessandro Cremona e Tiziana Maffei presso la Reggia di Caserta, 1° luglio – 16 ottobre 2022, recensita da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 39, Supplemento de Il Manifesto del 2 ottobre 2022

Giardini riflessi sull’acqua

In una penisola tutta impressa di luce come l’Italia, il tema dei giardini riflessi sull’acqua si conferma centrale. Diffusi in grande varietà di tipologie, pur nel loro diseguale articolarsi per fasi storiche e territori, sono giardini dei paesaggi sopra il mare, dei golfi e delle riviere, giardini belvedere, terrazzati, o che pure direttamente approdano alla riva, con darsena o su un podio da un’altura, o che nel primo entroterra, comunque si confrontano con una prevalente dimensione condizionata, dal punto di vista estetico ma anche climatico, dalla dominante del riverbero del mare. Giardini di piccole e grandi ville o parchi dove acclimatare collezioni di piante esotiche.

Con piglio leggiadro e iI doppio sguardo che li incrocia per via di terra, tanto come in navigazione di prossimità, ne ripercorre ora settanta, storici e più recenti, Nicoletta Campanella in una guida dedicata: I giardini sottocosta. Una rotta blu per itinerari verdi, ciascuno descritto ed illustrato in schede che li raccontano, con indirizzi, indicazioni pratiche di contatti e approdi da mare (Nicla edizioni, pp. 451, € 20,00).

Sono giardini profumati anche d’inverno, nella Liguria dell’invenzione della villeggiatura e del Mediterraneo delle colonie di facoltosi stranieri, specie a partire dalla seconda metà dell’80– quelli della Mortola a Ventimiglia dove tra agrumi e pineta si acclimatano piante portate da ogni dove; il Pallanza a Bordighera, tra terrazze spioventi di piante esotiche; quello di villa Durazzo Pallavicini a Genova Pegli con il suo percorso scenografico in più atti –, come pure parchi naturali e orti botanici – dal giardino dell’Ottone all’Elba, con la palma blu osservata già lì da Paul Klee nel suo soggiorno nel 1926 agli all’ecosistema di habitat diversi della penisola di Caleri, dove nel punto in cui il mare si separa dalla laguna.

Il parco del castello di Miramare in una stampa di fine 800

Si procede lungo l’intera penisola incrociandone innumerevoli, dai giardini conchiusi e stretti di Venezia a quelli delle isole, maggiori e minori – Villa Niscemi a Palermo e il suo pittoresco con grotte, come pure i Rosmarini nell’sola giardino di Pantelleria. E se a Ravello il giardino di Villa Cimbrone sta sulla costiera come affacciato a picco sul balcone naturale e quello della Mortella discende ricalcando il profilo delle tormentate rocce d’Ischia fino alla valle di subtropicali felci arboree, a Trieste, tra effetti scenografici ed evocazioni di paesaggi d’altrove per via di curiosità botaniche, il parco di Miramare traguarda il mare nel rimpallo tra bosco e parterre.

Nicoletta Campanella, I giardini sottocosta. Una rotta blu per itinerari verdi, Nicla edizioni, pp. 451, € 20,00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica XII, 37, Supplemento de Il Manifesto dell’18 settembre 2022