William Bryant Logan. Humus, Compost

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Se già nel cielo esistono paesaggi, nel senso che ce li lascia prefigurare il pulviscolo di sementi colà incorporate nel vento e nelle nuvole, esistono paesaggi in nuce anche nei suoli ad essi sottesi. Sarà mica un caso se vengono definiti orizzonti quegli strati sempre più densi del terriccio che raccorda la superficie della terra alla roccia parlandoci delle ragioni della vita sviluppatasi in uno specifico habitat fino a definirne – nella somma dei suoi orizzonti sotterranei – il tratto caratteristico, il profilo (altro termine tecnico). È agli esiti di questi invisibili paesaggi palinsesto del procedere per ere del tempo sul pianeta, al reticolo di interrelazioni che li tramano, a questa matrice, incubatore di vita sulla terra emersa, che William Bryant Logan dedica la sua Storia della terra che calpestiamo. Intendendo quella Pelle del pianeta (Bollati Boringhieri, pp. 191, € 16,50) evocata nel titolo a inseguire la prismatica polimorficità di un soggetto che continuamente si riconfigura: volta a volta terriccio, humus, fango, argilla, compost, limo, metonimicamente, terra, ma nella sua parte fertile, dirt (dall’originale del titolo inglese, con l’accezione di sporco che comprende). Ben Oltre i giardini dunque (come s’intesta la fin qui intrigante collana di Bollati Boringhieri che con questo anomalo titolo riappare dopo un lungo silenzio) si spinge questa volta Logan, pure autore di una bella storia sociale della quercia, procedendo qui per accumulo di prospezioni scientifiche e aneddoti, evocazioni e assonanze, riferimenti e citazioni, talvolta fuori contesto, esternazioni di un autoironico (?) animismo e più efficaci parentesi di felice divulgazione all’anglosassone. Tra divagazioni sull’Arte di scavare, note su acque sotterranee, pozzi e rabdomanti, appunti su Teoria e pratica del letame, su buche, tombe, cave, fondamenta di cattedrali, sulle più varie forme di vita sotterranea, come pure sulle proprietà terapeutiche della terra o le valenze simboliche dell’universo ctonio, nel volume si racconta, risalendo archi temporali profondi, come dopo il raffreddamento del pianeta e la formazione dei primi mari, il processo di trasformazione della lava impieghi almeno mille anni perché questa si traduca  in un centimetro di terra fertile. Mentre l’erosione e poi il susseguirsi delle glaciazioni macinano i minerali generando i terricci più recenti; assieme agli effetti degli agenti atmosferici, uragani, venti, maree…, ma anche come esito di un processo che reintegra, con la mediazione di umidità e calore, la morte e digestione di alberi, foglie, animali… Organismo dinamico, insieme di relazioni, il terriccio, l’humus è esso stesso a sua volta origine di vita. “Da armadio chiuso del mondo minerale, [l’argilla] si è trasformata in una dispensa aperta, dove le radici delle piante saranno libere di andare a procurarsi ciò che serve loro”. Eppure, le terre invecchiano e muoiono Attraversando alterne vicende di impoverimento e arricchimento, ogni terreno è destinato a cominciare e finire in condizioni di sterilità: “L’intero paesaggio terrestre non è altro che un grandioso monumento dedicato ai differenti ritmi di deterioramento dei minerali che lo compongono”. Dimenticando ogni presunzione di autoriequilibrio conservativo, occorre presidiare il processo di ricostituzione di quella condizione effimera che è la fertilità e restituire alla terra quanto le viene sottratto, ripristinando e rigenerando. E se, certo, per proteggere la fragilità del suolo, “restituire i nostri corpi alla terra non è sufficiente”, possono tornare utili talune pratiche consapevoli di smaltimento e riciclo, ad esempio nel compost, e, prima ancora, uno sguardo diverso sul pianeta, perché, tutto sottratto, “i rifiuti non esistono finché non siamo noi a rifiutarli”.

William Bryant Logan, La pelle del pianeta. Storia della terra che calpestiamo, Bollati Boringhieri, pp. 191, € 16,50. Collana Oltre i giardini, recensito da Andrea Di Salvo su Alias  della Domenica, Supplemento de Il Manifesto del 26 febbraio 2012