L’irriducibile questione del sé vegetale

Per cominciare ad avvicinarci al mondo vegetale, per predisporci a intendere Come pensano le piante, nella formula con cui, provocatoriamente, Jacques Tassin, esperto di foreste tropicali, agronomo, ecologista, naturalista divulgatore, intitola il suo ultimo volume (Edizioni Sonda, pp. 192, € 16.00), occorre tentare di ridurre un paradossale strabismo al riguardo.

Da un lato, a fronte della loro pervasiva onnipresenza, occorre sbalzare le piante dal fondo dell’indistinzione dove le relega la nostra disattenzione e ignoranza, riconoscendone il ruolo fondativo nel costruire e consentire la vita sul pianeta, per il tramite della loro capacità di sintetizzare elementi, condizioni ambientali, risorse energetiche, alimentari, mediche …

Dall’altro, restituendo alla dimensione del simbolico le molte fascinazioni e proiezioni che da sempre intratteniamo con l’universo vegetale e rinunciando a un’attitudine, anche conoscitiva, perlopiù mossa da indiscriminato sfruttamento, serve, finalmente, indagare l’inesauribile inventiva delle piante, assumendole nella loro irriducibilità. Con la rilevante dose di “mistero” dovuta alla nostra davvero minimale conoscenza – Tassin rileva come siano percentualmente poche le ricerche su questo imprescindibile universo, seppure in anni recenti siano apparsi diversi studi innovativi, volta a volta criticamente analizzati nel volume – e con la difficoltà che comporta dismettere la persistente visione zoomorfica che, da Aristotele e malgrado Teofrasto, poi nella tradizione giudaico cristiana e fino ai più recenti modelli meccanicisti, ha imposto all’indagine del mondo il metro della nostra condizione animale.

Quando invece, nella sua immobilità apparente (quantomeno agli occhi delle nostre temporalità), peculiare della pianta è il suo infinito estendersi in una relazione di reciprocità con l’ambiente, fisico e biologico, in un movimento di crescita continua e indefinita, teso a creare dalla luce materia prima.

Un esteriorismo in costante riaggiustamento spaziale che parla di un carattere plurale, ponendo la questione del sé vegetale. Quindi di un tipo di movimenti specifici, di una pianta che non ha altra prospettiva che l’immediatezza e di diverse temporalità (lineari, cicliche, del tempo astrale e di quello lunghissimo dell’evoluzione) che escludono l’attribuzione di una “memoria” alle piante. E invece, un tipo di comunicazione di informazioni per via aerea o reti miceliali collegate alle radici che si confronta con una sensibilità plurale integrata, piuttosto una conoscenza sensibile delle caratteristiche dell’ambiente, che procede pur senza identificare immagini mentali dello spazio, senza passare cioè dalla sensibilità alla coscienza.

Insomma, pur con l’avvertenza ripetuta di non cercar nelle piante ciò che ci assomiglia, lungo tutto il volume – e anche quando per le piante sottolinea il rilievo dei meccanismi collaborativi, dal mutualismo coevolutivo, alle forme di simbiosi, affermando come il motore della competizione sia nel loro caso solo un impulso secondario –, Tassin rinvia sempre alle familiarità cui rischia di far torto una botanica troppo descrittiva e classificatrice. E ci invita a conoscere perseguendo un’alleanza di scienza, filosofia e poesia, che preservi intuizione, indagine, incanto.

Jacques Tassin, Come pensano le piante, Edizioni Sonda, pp. 192, € 16.00, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica IX, 46, Supplemento de Il Manifesto del 24 novembre 2019