In un attraversamento tutto irregolare di forme storiche e simboliche, suggestioni poetiche e etiche in atto dove, nell’immaginario occidentale, i giardini “figurano” i bisogni umani più profondi, Robert Pogue Harrison sintetizza mirabilmente la condizione del nostro stare al mondo, proprio esemplandola sui giardini: nell’irresolubile dialettica tra interno e esterno; irricevibile promessa di felicità o impraticabile aspirazione alla sua riconquista; sottrarsi in fuga alla realtà o farsene presidio, occasione di disvelamento, riumanizzazione.
Opportunamente riproposto da Fazi, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana (traduzione di Marianna Matullo e Valentina Nicolì, pp. 245, € 20.00) sottolinea come, diversamente da quelli fantastici, ultramondani, assoluti da ogni causalità, temporalità e corporeità, nonché esiliati dal resto del mondo, i giardini reali, e pur letterari, nel loro non potersi esimere – anche in figura di remoto romitorio – dal farci i conti, con il mondo, nascano e esistano in ragione del lavoro dell’uomo, conservandone l’impronta nel segno della cura. E come essi, proprio nell’intrinseco loro tessuto di relazioni da coltivare, meglio evidenzino nella cura – in quell’insopprimibile bisogno di dedicarsi a qualcosa fuori di sé, estensione nel mondo, culturalmente intesa – la vocazione e il tratto dominante della condizione umana che si fa.
Di qui, il risalire di Harrison dell’idiosincrasia per un paradiso dell’Eden o dei Campi Elisi che ci segrega in uno stato assoluto, congelato, sterile, infantile e dell’intuizione di Eva per un’azione responsabile che inducendo la cacciata, oltre a farci eredi di una perenne nostalgia, ci riconsegna a noi stessi e, proiettandoci sul terreno della vita attiva, alla cura.
A contrappunto dei versi convocati, da Wallace Stevens, Rilke, Neruda, il dibattito critico sul tema dei giardini in quanto arte; le relazioni che essi intrattengono con l’istruzione o la narrazione; il loro dar dimensione al nostro rapporto con la natura; fornire un criterio di orientamento; significare ora lo spazio umanizzato, dei giardini di Boccaccio, ora l’apertura, di quelli dei dialoghi dell’umanesimo civile, ora la maniera, sufficiente a se stessi dell’Accademia ficiniana, del principe, … Fino ad approdare, passando per l’emblematica erranza dei cavalieri dell’Ariostesco Orlando furioso (con i giardini di Alcina e Logistilla) e anticipati dal registro narrativo di un Paradiso di Dante in tensione estatica, alla frenesia di questa nostra epoca “senza giardini”. Dove l’ansia del desiderare il desiderio, della produttività forsennata e dello sfruttamento purché sia si sostituisce all’etica della coltivazione (con il paradosso di “ri-edenizzare” la Terra, trasformandola in paradiso consumistico). Allora, nuovamente, quel saper guardare il mondo che il giardinaggio presuppone, la concentrazione dell’immergerci in una temporalità che contempla il futuro, l’attivismo restitutivo del lavoro di coltivazione del giardiniere – con Karel Čapek, il “dai alla terra più di quanto prendi” – si profilano come pedagogici antidoti alla condizione di vertiginosa irrequietezza dell’occidente e al conseguente suo carattere distruttivo, di aggressione alla natura e alla cultura a un tempo.
Robert Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana (traduzione di Marianna Matullo e Valentina Nicolì, Fazi editore, pp. 245, € 20.00), recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica VII, 34, Supplemento de Il Manifesto del 3 settembre 2017