Cerić, un giardino a Sarajevo

Ritorna il tema del giardino come rifugio, come straordinaria opportunità di resistere all’incalzare disumanizzante del fragore che si proclama modernità. Giardino come pacificante, residuale occasione di ri-centrarsi sull’essenziale, sul senso di appartenenza a quanto con noi abita la terra. Ma questa volta non è un solo giardino, a suo modo paradigmatico, come nel caso del Greystone immaginato ne Il giardino perduto di Jorn de Précy–alias Marco Martella, fondatore in Francia di Jardins, rivista di filosofia e poetica del giardino. È piuttosto un rosario laico di luoghi, incontri, suggestioni giardinesche, che si sgranano in un pellegrinaggio che pure, a ritroso, come un’iniziazione alla consapevolezza, al giardino ci riporta.
Questa volta seguiamo Martella prestar voce a un altro degli autori della sua suggestiva, serissima rivista, il poeta e critico bosniaco Teodor Cerić. Fuggito nel 1992 dalle bombe che martoriano la sua Sarajevo, ancora giovane studente e ancora niente affatto giardiniere, Teodor Cerić vaga per l’Europa (per i giardini di un’Europa specchio d’alterità) per rientrare nel suo paese soltanto nel 1998, ben dopo la fine di quella guerra crudele. E lì, ritiratosi in campagna, deciderà di dedicarsi interamente a coltivare il “suo” giardino, astenendosi da tutto, anche dalle implicazioni di una qualche acquisita notorietà letteraria. Non pubblicherà più. Con l’eccezione, appunto, delle collaborazioni ai numeri tematici della rivista di Martella dove, dice, scrive “spinto dalla gratitudine” per quei giardini incrociati e praticati negli anni della sua irrequieta erranza da apolide dalla vita civile, dove tra mille lavori si improvvisa giardiniere per poi prenderci gusto.
Oltre ogni stagione e latitudine, sono Giardini in tempo di guerra quelli che Teodor Cerić inanella come tappe del suo percorso (a cura di Marco Martella, Ponte alle grazie, pp. 124, € 12). Giardino esperienza, di vita e morte, quello del regista Derek Jarman, giardino di solitudini per Samuel Beckett a Ussy-sur-Marne, giardino popolato d’ombre, quello di Monte Caprino sul Campidoglio, ma anche le Tuileries e il parco paesaggistico di Painshill, nel Surrey… Fino al suo giardino, quello del ritorno, nella campagna di Sarajevo.
Insomma, in un perdurante, inesausto, tempo di guerra, metafora mai dismessa, oltre la realtà sempre evocata di là da ogni confine, quella di Cerić-Martella è un’iniziazione per giardini che vale a disegnare, tra memorie di incontri, annotazioni storiche e rinvii fantasiosi, riferimenti puntuali e una “leggera propensione per il romanzesco”, i tratti di una poetica che attraverso il giardino recupera e riassapora l’essenzialità dell’esserci per il tempo del nostro passare. Una lezione di resistenza, quella del giardino, che ci àncora alla realtà e, grazie alla natura, induce a mirare con responsabile consapevolezza della finitudine verso un equilibrio sempre da ricercare nell’incessante trascorrere di cui siamo parte.
Giardino come rifugio, eppure presidio, avamposto di civiltà, restituzione, ri-conversione ecologica.
Verificando magari un dubbio, in quell’utopia che vuole salvare la modernità riconciliandola con la natura: e se un giardino, anche minuscolo – come il chiostro verdeggiante di felci del cortile tra altissimi muri, la piccola giungla segreta di Odile intravista da Cerić a Graz –, potesse davvero salvare un’intera città ?

Teodor Cerić, Giardini in tempo di guerra, a cura di Marco Martella, Ponte alle grazie, pp. 124, € 12, recensito da Andrea Di Salvo su Alias della Domenica V, 20, Supplemento de Il Manifesto del 17 maggio 2015